29 dicembre 2016 10:43

Se il 2015 è stato l’anno del motto refugees welcome (benvenuti rifugiati) rivolto dai cittadini europei, da Lesbo a Berlino, al milione di profughi arrivati nel continente sopratutto dalla Siria, il 2016 è stato l’anno del ripristino dei controlli alle frontiere interne, della costruzione dei muri, degli accordi di rimpatrio, del record di morti nel Mediterraneo e della militarizzazione dei confini.

Nel 2015 di fronte all’immagine delle famiglie siriane in cammino attraverso l’Europa con le loro poche cose, l’opinione pubblica e anche qualche leader del vecchio continente avevano preso in considerazione una politica di moderata apertura delle frontiere. Prima tra tutte la decisione della cancelliera tedesca Angela Merkel nell’estate del 2015 di sospendere il regolamento di Dublino, la legislazione comune europea sull’asilo che impone ai migranti di chiedere protezione nel primo paese di ingresso dell’Unione.

L’Europa politica disgregata e in crisi, è stata messa di fronte alla propria inadeguatezza

Questa timida, tintinnante apertura si è richiusa velocemente nell’anno che è appena trascorso. Nel giro di pochi mesi, sotto i colpi di campagne populiste sempre più aggressive condotte dai partiti nazionalisti e dell’estrema destra in molti paesi europei, si è imposta una narrazione negativa sui migranti, capro espiatorio perfetto di un’Europa politica disgregata e in crisi, messa di fronte alla propria inadeguatezza nel governare fenomeni transnazionali come la migrazione.

In sociologia si è parlato spesso della “funzione specchio” dell’immigrazione: mentre raccontiamo quello che l’Europa ha deciso di fare per affrontare la questione migratoria, ci accorgiamo che stiamo descrivendo in realtà i limiti delle istituzioni e delle politiche europee nel loro complesso, le loro inadeguatezze, che sono venute alla luce proprio attraverso il fenomeno dell’immigrazione e della sua gestione disastrosa. Ecco alcune tappe di questo rapido cambiamento di prospettiva, avvenuto sulla pelle di migliaia di persone. Tra molti segnali di chiusura, abbiamo voluto ricordare due pratiche di apertura, ancora minoritarie, che l’Italia ha sperimentato proprio nel 2016: i corridoi umanitari e il potenziamento del Sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), un modello di accoglienza virtuoso per richiedenti asilo e rifugiati.

L’accordo con la Turchia
L’evento più importante dell’anno per quanto riguarda le politiche migratorie è stato l’accordo che Bruxelles ha firmato il 18 marzo con Ankara per chiudere definitivamente la rotta che aveva portato migliaia di persone in Grecia dalle coste turche. L’accordo ha di fatto interrotto la cosiddetta rotta balcanica che collegava la Turchia con l’Europa nordoccidentale, attraverso la Grecia, la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria, l’Austria e gli altri paesi dei Balcani.

La rotta era già stata in parte bloccata nei primi mesi dell’anno a causa del ripristino parziale dei controlli di frontiera da parte di alcuni paesi, come l’Ungheria e la Macedonia, e dalla costruzioni di muri e recinzioni come quella lunga 175 chilometri che separa l’Ungheria dalla Serbia, voluta dal governo di Viktor Orbán. In cambio di tre miliardi di euro in aiuti, Ankara si è impegnata con l’Unione europea a non lasciare partire i profughi dalle sue coste e ad accettare che quelli arrivati in Grecia dopo il 20 marzo fossero deportati di nuovo in territorio turco.

Migliaia di persone sono rimaste bloccate in un limbo burocratico

Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato l’irregolarità dell’accordo, accusandolo di violare il diritto internazionale, e hanno presentato diversi ricorsi alla Corte europea di giustizia. Una delle conseguenze più gravi dell’accordo è stata che 55mila profughi che si trovavano in Grecia sono rimasti bloccati in campi di fortuna come quello di Idomeni al confine con la Macedonia, o nei campi governativi, senza poter accedere né all’asilo né al ricongiungimento familiare.

Fenomeni simili, anche se in dimensioni ridotte, sono stati registrati in tutti i paesi della rotta balcanica, dove migliaia di persone sono rimaste in un limbo burocratico, impossibilitate a chiedere asilo o a raggiungere i propri familiari in altri paesi dell’Unione europea. Dopo lo sgombero dei campi informali, in Grecia i profughi sono stati trasferiti in campi gestiti dal governo greco, allestiti in fabbriche abbandonate e vecchi magazzini, in tende e in condizioni di precarietà definite dalle organizzazioni non governative “pericolose e inadatte per la vita umana”.

Un campo profughi allestito sull’isola greca di Chio, il 13 ottobre 2016. (Louisa Gouliamaki, Afp)

Durante l’estate i profughi presenti in Grecia sono stati censiti dalle autorità greche ed europee. La maggior parte dei profughi di origine siriana è stata instradata verso il ricollocamento in altri paesi europei, previsto dall’Agenda europea sull’immigrazione entrata in vigore nel settembre del 2o15. Ma i ricollocamenti sono partiti molto lentamente (solo 2.654 persone sono partite dall’Italia e 7.760 dalla Grecia su un totale di 160mila previste) e migliaia di persone vivono ancora in condizioni disumane nei campi gestiti dal governo in tutta la Grecia, e in molti altri paesi dei Balcani come la Serbia. Il 40 per cento dei profughi bloccati in Grecia è costituito da bambini che almeno da un anno non frequentano le scuole, se non quelle organizzate dalle associazioni all’interno dei campi.

Un’altra conseguenza dell’accordo tra Unione europea e Turchia è stata l’emergenza umanitaria che si è aperta nelle isole greche: sedicimila profughi sono rimasti bloccati a Lesbo, Chios e Samos, che si sono trasformate in prigioni a cielo aperto. Nei centri di identificazione sulle isole, i cosiddetti hotspot, i profughi arrivati dopo il 20 marzo sono stati rinchiusi in attesa di essere identificati ed eventualmente rimandati in Turchia, come previsto dall’accordo. Negli hotspot greci, i profughi vivono in tende, in situazioni igienico-sanitarie precarie, esposti al freddo e alle intemperie.

La tensione all’interno dei campi provoca spesso scontri e rivolte, che sono pericolose soprattutto per le persone rinchiuse nei centri. Il 24 novembre nell’hotspot di Moria sull’isola di Lesbo l’ennesima protesta dei migranti ha provocato un incendio nel quale hanno perso la vita una donna e un bambino.

L’approccio hotspot
Nel settembre del 2015 è entrata in vigore l’Agenda europea sull’immigrazione, approvata nel maggio del 2015, che prevede il ricollocamento dei migranti all’interno dell’Unione europea in base a un sistema di quote. Questo sistema impone la divisione netta dei migranti in due categorie: i cosiddetti migranti economici e i profughi e spinge le autorità dei paesi di approdo a operare questa divisione nelle ore successive all’arrivo. L’applicazione delle nuove linee guida ha cambiato in maniera radicale il sistema di accoglienza dei migranti nei paesi di arrivo, come l’Italia e la Grecia, che da paesi di transito si sono trasformati in paesi di destinazione.

La distinzione tra migranti economici e profughi, stabilisce di fatto che i migranti possano accedere al ricollocamento in base alla loro nazionalità. Hanno diritto a essere ricollocati i siriani e gli eritrei, quelli cioè a cui è riconosciuta una protezione nel 75 per cento dei paesi europei, mentre tutti gli altri rientrano nella categoria dei migranti economici che possono provare al massimo a fare domanda d’asilo nel paese d’ingresso in Europa.

In questa categoria finiscono anche coloro che scappano dalla guerra in Libia, o da quella in Afghanistan, oppure i migranti che fuggono da governi dittatoriali come quello gambiano e quello etiope. Per queste altre nazionalità è possibile richiedere l’asilo in Italia, ma senza troppe speranze di avere un responso positivo alla propria domanda. In Italia nei primi sei mesi del 2016 le domande d’asilo sono aumentate del 60 per cento e le risposte negative (i dinieghi) sono state il 60 per cento. Un numero altissimo di persone in questo modo è diventato irregolare, senza documenti e senza diritti, dopo essere passato nelle maglie del sistema di accoglienza italiano che di fatto ha prodotto clandestinità, invece che integrazione.

Nei paesi di arrivo dei migranti sono stati istituiti dei centri per l’identificazione: appunto gli hotspot. Se in passato i migranti che arrivavano nel sud dell’Europa cercavano di sottrarsi al sistema di accoglienza istituzionale e di raggiungere il paese di destinazione con i propri mezzi, dopo l’entrata in vigore dell’Agenda questo non è più vero.

Un’altra conseguenza dell’approccio hotspot è stata l’ampliamento della rete dei Cie

In Italia nel 2016 sono stati fotosegnalati e identificati il 99 per cento dei migranti arrivati: molti di loro hanno chiesto di essere ricollocati, altri hanno fatto domanda d’asilo. Amnesty international e altre organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato la pressione attuata dall’Unione europea sulle autorità di Italia e Grecia per l’identificazione massiccia dei migranti.

“Un processo di screening non fondato su alcuna legislazione e fatto con troppa fretta – quando le persone sono ancora troppo stanche o traumatizzate dal viaggio per poter prendere parte in modo consapevole a questo processo, e prima che abbiano avuto la possibilità di ricevere informazioni adeguate sui loro diritti e sulle conseguenze legali delle loro dichiarazioni – rischia di negare a coloro che fuggono da conflitti e persecuzioni l’accesso alla protezione alla quale hanno diritto”, scrive Amnesty international nel suo rapporto Hotspot Italy, in cui denuncia le violazioni avvenute contro i migranti nei centri di identificazione italiani.

A causa della lentezza del sistema di ricollocamento per quote, la maggior parte dei migranti che avevano aderito al programma è rimasto in attesa per mesi. Molti, stanchi di aspettare, hanno lasciato i centri e si sono rimessi in viaggio. Questo ha determinato una situazione complicata in alcune città italiane come Roma, Ventimiglia, Milano, Como, Bolzano.

In queste città è stato registrato un flusso di persone che sostavano per alcuni giorni e che si dichiaravano in viaggio verso in Nordeuropa, ma a differenza dei migranti che erano in transito l’anno precedente, quelli in transito nel 2016 erano stati tutti identificati allo sbarco e alcuni avevano già chiesto di essere ricollocati. E per questo avevano perso il diritto di chiedere asilo in altri paesi europei ma allo stesso tempo, essendosi allontanati dai centri di accoglienza, avevano perso il diritto di essere assistiti dal sistema italiano.

Il 24 agosto da Taranto 48 sudanesi sono stati trasferiti a Torino per essere rimpatriati

Inoltre alle frontiere di Ventimiglia e a Chiasso sono stati registrati numerosi casi di respingimento (tra i respinti molti minori) come denunciato dall’Asgi, da Amnesty international e da altre organizzazioni non governative. Queste persone, rimandate in Italia, sono state trasferite nell’hotspot di Taranto in un programma che le autorità italiane hanno definito di “alleggerimento delle frontiere”.

Un’altra conseguenza dell’approccio hotspot è stato il progetto di ampliamento della rete dei Centri di espulsione e identificazione (Cie). Nel 2016 i Cie attivi erano quattro, ma il ministro dell’interno Marco Minniti ha dichiarato di volerne aprire uno in ogni regione e di voler stipulare più accordi di rimpatrio con i paesi d’origine dei migranti.

Il 4 agosto 2016 è stato firmato un accordo di collaborazione tra la polizia del Sudan e quella italiana che è stato all’origine di alcuni rimpatri. Il 24 agosto 2016 quaranta migranti sudanesi sono stati fermati a Ventimiglia e trasferiti nell’hotspot di Taranto dove il 22 agosto sono stati raggiunti da un decreto di espulsione. Il 24 agosto da Taranto 48 sudanesi sono stati trasferiti a Torino per essere rimpatriati. Alcuni di questi migranti erano originari del Darfur e hanno denunciato i rischi a cui andavano incontro con il ritorno nel loro paese.

La militarizzazione delle frontiere
Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, nel gennaio del 2016, aveva detto che per salvare il sistema Schengen sarebbe stato necessario rafforzare il controllo delle frontiere esterne dell’Unione.

“Reinsediamenti, ricollocamenti e protezione delle frontiere vanno assieme. Ho fiducia che nel 2016 faremo dei buoni progressi”, aveva affermato Juncker, inaugurando il semestre olandese di presidenza europea e lanciando l’idea di una guardia di frontiera comune. In effetti nel 2016 questa idea si è realizzata.

Il 14 settembre 2016 è stata approvata la creazione di una guardia di frontiera e costiera europea, che in pratica corrisponde al rafforzamento di Frontex, l’agenzia europea di controllo delle frontiere esterne. Il nuovo corpo, diventato operativo già a metà ottobre, non dispone di guardie di frontiera proprie, ma può contare su 1.500 agenti scelti tra le guardie di frontiera nazionali, pronte a intervenire in caso di emergenza in uno dei paesi dell’Unione.

Il bilancio di Frontex tra il 2005 e il 2016 è aumentato del 3.688 per cento

I primi 120 agenti della guardia di frontiera europea sono stati schierati al confine tra Bulgaria e Turchia, per scoraggiare i profughi ad attraversare il confine. Tra i compiti dell’agenzia europea ci sono quelli di valutare la capacità degli stati di controllare le frontiere esterne, affiancare le guardie costiere e frontaliere nazionali negli interventi contro l’immigrazione irregolare o il traffico di esseri umani, coordinare questi interventi, occuparsi delle deportazioni e dei rimpatri, coordinarsi con gli stati extraeuropei per la gestione delle frontiere.

Come ha commentato il giurista Fulvio Vassallo Paleologo “si tratta di una espansione delle attività dell’agenzia Frontex e di una sua maggiore autonomia nello stabilire rapporti diretti con le autorità di polizia dei paesi terzi, anche in vista di possibili operazioni di rimpatrio o di respingimento”. Questo a fronte di un investimento economico importante che ha come scopo non la salvaguardia della vita umana, né il soccorso delle persone in difficoltà, bensì la militarizzazione delle frontiere.

La polizia macedone pattuglia il confine con la Grecia a Gevgelija, dove è stata costruita una barriera per fermare il flusso di migranti, il 25 novembre 2016. (Ognen Teofilovski, Reuters/Contrasto)

Nel dicembre del 2016 a bordo della nave San Giorgio della marina militare italiana è cominciato anche l’addestramento di 62 agenti della guardia costiera libica, nell’ambito dell’Operazione Sophia, del dispositivo militare Eunavfor Med, a cui ha collaborato anche Frontex. Lo scopo dell’addestramento dei libici rientra nel piano di lotta al traffico di esseri umani e di rafforzamento del controllo delle frontiere.

Secondo il rapporto Border wars dello studioso Mark Akkerman “il bilancio di Frontex tra il 2005 e il 2016 è aumentato del 3.688 per cento”, ed è passato da 6,3 milioni a 254 milioni di euro all’anno. Dal 2014 è quasi triplicato, passando da 97 milioni ai 281 milioni di euro previsti per il 2017. A beneficiare di queste politiche sono soprattutto le aziende militari, tecnologiche e della sicurezza.

Border wars mostra che l’industria delle armi non solo ha beneficiato della militarizzazione delle frontiere europee, ma ha anche fatto pressioni e ha incoraggiato questo approccio facendo attività di lobby. Akkerman ha inoltre mostrato come molte aziende che stanno facendo affari con Frontex sono le stesse che vendono armi ai paesi del Medio Oriente e dell’Africa da cui i migranti cercano di scappare, venendo in Europa.

Questo dispendio economico senza precedenti per il controllo delle frontiere esterne è coinciso con un numero record di morti nel Mediterraneo: secondo i dati raccolti delle Nazioni Unite nel 2016 hanno perso la vita 5.011 persone durante la traversata del Mediterraneo, 1.300 in più di quelle morte nel 2015 (3.771).

I corridoi umanitari dal Libano
Tra molte cattive notizie che riguardano l’immigrazione, il 2016 è stato segnato anche da qualche buona notizia come l’apertura di corridoi umanitari dal Libano all’Italia per i profughi siriani. Interamente finanziati dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla chiesa valdese e dalle chiese evangeliche italiane, i corridoi umanitari hanno portato in Italia dal Libano a più riprese circa 500 profughi siriani, in una maniera legale e sicura.

Si è trattato di un progetto pilota che ha coinvolto principalmente le persone più vulnerabili, famiglie e individui con problemi di salute, ma ha mostrato agli stati europei che una via di buon senso per gestire i flussi migratori e combattere il traffico di esseri umani in alcuni contesti è possibile. Il progetto è stato interamente finanziato dai suoi promotori che si sono occupati anche di sistemare i profughi in diversi progetti di accoglienza in tutta Italia.

Il governo italiano si è occupato di fornire un visto umanitario “a territorialità limitata” per i profughi e di regolare le questioni burocratiche con le autorità libanesi. In tutto, nel giro di due anni dovrebbero arrivare mille persone con questo sistema, dal Libano e dal Marocco, e ultimamente Sant’Egidio ha annunciato di voler aprire un corridoio umanitario anche dall’Etiopia, in collaborazione con la Cei, la Caritas e Migrantes. Dovrebbero arrivare dal paese africano circa 500 persone nel corso del prossimo anno. Qualche stato europeo, come la Francia, e molte organizzazioni umanitarie hanno mostrato interesse per il progetto che potrebbe essere quindi emulato in altri paesi nei prossimi anni.

Il rafforzamento del sistema di accoglienza Sprar
Al momento in Italia il 70 per cento dei profughi e dei richiedenti asilo è ospitato da un Centro di accoglienza straordinaria (Cas). I Cas sono centri nati per far fronte all’emergenza degli arrivi dopo le cosiddette primavere arabe del 2011 e sono diventati un sistema parallelo e preponderante rispetto a quello dell’accoglienza ordinaria dei richiedenti asilo nel paese, il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). La qualità dei servizi offerti dai Cas, spesso allestiti in strutture turistiche e alberghiere, è disomogenea, così come lo è la loro collocazione sul territorio nazionale.

Rispetto ai Cas, gli Sprar hanno standard di qualità più alti, che sono fissati da regole ben precise e hanno come scopo l’integrazione a lungo termine del richiedente asilo e non solo la sua accoglienza temporanea. Inoltre i centri Sprar sono soggetti a una rendicontazione economica più rigorosa, e sono quindi meno soggetti ad abusi e a malversazioni.

L’unica debolezza di questo sistema è che l’adesione al sistema Sprar è volontaria

Per questo nel 2016 il ministero dell’interno ha mostrato la volontà di superare il doppio binario dell’accoglienza italiano e di favorire la diffusione del sistema degli Sprar, che al momento ospitano solo il 20 per cento dei profughi e dei richiedenti asilo nel paese.

Il 10 agosto 2016 un decreto governativo ha stabilito che gli Sprar non saranno più finanziati con dei bandi periodici, ma continuativamente in base a un sistema di accreditamento permanente e ai finanziamenti disponibili. Inoltre per contrastare la reticenza dei comuni italiani ad aderire ai progetti Sprar (su ottomila comuni italiani solo 1.800 hanno accolto i migranti nel 2016) a ottobre una circolare del ministero dell’interno ha stabilito che se il comune aderisce allo Sprar otterrà la progressiva diminuzione della presenza dei Cas sul suo territorio e inoltre riceverà 500 euro all’anno per ogni accolto.

L’unica debolezza di questo sistema è che l’adesione al sistema Sprar è volontaria per i comuni, mentre la distribuzione dei migranti per regione nel sistema dei Cas è disposta dal ministero dell’interno attraverso le prefetture ed è obbligatoria. Questo elemento continuerà in parte a favorire la diffusione dei centri straordinari, anche se gli incentivi economici ai comuni virtuosi potrebbero rappresentare un punto di partenza per favorire l’idea dell’immigrazione come risorsa invece che come problema.

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