24 novembre 2016 16:06

Il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in Italia è “una fabbrica della clandestinità di stato”. Lo denuncia il rapporto sulla protezione internazionale pubblicato il 16 novembre da Anci, Cittalia, Fondazione Migrantes e Rete centrale Sprar. Nel 2015 in Italia il 60 per cento delle richieste d’asilo è stato respinto, costringendo migliaia di richiedenti asilo a tornare in una condizione di illegalità dopo mesi di attesa nei centri di accoglienza, senza nessuna speranza di ottenere dei documenti. Al momento l’unico modo per combattere l’illegalità e lo sfruttamento di questo esercito di invisibili è concedergli la protezione umanitaria.

La protezione umanitaria è uno strumento già previsto dal Testo unico sull’immigrazione (cosiddetta legge Bossi-Fini). Basterebbe un decreto del presidente del consiglio per concedere un permesso temporaneo alle circa 170mila persone ospitate nei centri di accoglienza italiani, in fuga da disastri ambientali, persecuzioni politiche e religiose o da varie forme di sfruttamento. Questo tipo di soluzione è già stata usata in passato per la crisi in Kosovo e permetterebbe di sanare una situazione che è fonte di periodiche tensioni sociali.

L’approccio hotspot
Se nel 2014 la metà dei migranti arrivati in Italia si sottraeva al sistema di accoglienza ufficiale per attraversare i valichi di frontiera e raggiungere altri paesi del nord Europa, nel 2015 molte persone sono rimaste bloccate nel nostro paese a causa delle politiche migratorie dell’Unione europea e del ripristino dei controlli alle frontiere dello spazio Schengen. Così l’Italia da paese di transito si è trasformata in paese di destinazione per molti migranti.

Nel 2015 le domande di protezione internazionale sono aumentate del 32 per cento (83.970 domande presentate) rispetto al 2014 a causa del cosiddetto approccio hotspot, previsto dall’agenda europea sull’immigrazione. L’identificazione forzata dei migranti arrivati nell’Unione europea e la ripartizione dei richiedenti asilo in base a un sistema di quote sono i due pilastri di questo sistema che ha mostrato nell’ultimo anno tutte le sue debolezze.

I migranti sono divisi in due categorie: i migranti economici e i richiedenti asilo. Hanno diritto a rimanere in Europa solo i profughi di tre nazionalità: eritrei, siriani e iracheni. Le tre nazionalità, cioè, a cui è riconosciuta una forma di protezione in tutti i 28 paesi dell’Unione europea. Ma è arrivato il momento di dire che questo sistema ha fallito.

Queste persone davvero non avevano diritto a ricevere qualche forma di protezione internazionale?

Molti paesi europei, come l’Ungheria e la Polonia, hanno rifiutato di accogliere i migranti, facendo emergere tutte le contraddizioni interne all’Unione. In un anno sono state ricollocate solo 1.549 persone dall’Italia e 5.437 dalla Grecia su un totale di 160mila previste. Inoltre gli accordi stipulati dall’Europa con la Turchia e con altri paesi d’origine dei migranti hanno determinato una diminuzione degli arrivi di siriani ed eritrei in Italia, dove a fare richiesta d’asilo sono sempre più spesso persone che provengono dall’Africa subsahariana.

Secondo il rapporto Anci, Cittalia, Fondazione Migrantes e Rete centrale Sprar, nel 2015 le prime cinque nazionalità di richiedenti asilo nel nostro paese sono state quelle provenienti da Nigeria, Pakistan, Gambia, Senegal e Bangladesh. I richiedenti asilo di questi paesi, che rappresentano il 60 per cento del totale, non hanno nessuna speranza di rientrare nei programmi di ricollocamento europei e, in Italia, spesso le loro richieste ricevono una valutazione superficiale dalle commissioni territoriali che respingono le domande sulla base di nuove direttive del ministero dell’interno, che riprendono quelle europee. Ma queste persone, che nel corso dell’ultimo anno hanno ricevuto un diniego, davvero non avevano diritto a chiedere l’asilo? La distinzione sembra più politica che giuridica.

Una procedura troppo lenta
In Italia il diritto d’asilo è garantito dall’articolo 10 della costituzione ed è un diritto fondamentale. L’Italia aderisce alla convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e riconosce di fatto diverse forme di protezione sulla base di una valutazione individuale della storia personale del richiedente asilo. Nella pratica il riconoscimento dell’asilo avviene con una procedura amministrativa che fa capo al ministero dell’interno ed è gestita dalle 47 commissioni territoriali. La decisione della commissione può essere impugnata, come avviene in quasi i tutti i casi di diniego, e può essere portata davanti a tribunali ordinari.

Succede spesso che i dinieghi delle commissioni territoriali siano contraddetti dalle sentenze dei giudici. Non esistono i dati di questo fenomeno perché le autorità non li hanno diffusi, malgrado le richieste delle associazioni e dei ricercatori, come l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Il diverso orientamento delle commissioni territoriali e dei tribunali sulla materia farebbe pensare a distanze procedurali tra ministero della giustizia e ministero dell’interno, che finiscono per rendere inutilmente complesso e lungo il riconoscimento di un diritto fondamentale.

Un’alternativa possibile
La creazione di strade legali di ingresso in Europa come i canali umanitari, la concessione di visti per motivi di studio e di lavoro, l’elargizione della protezione umanitaria a tutti i migranti arrivati in Italia che sono transitati dalla Libia e hanno compiuto la traversata del Mediterraneo: queste tre proposte potrebbero essere i pilastri di una nuova politica dell’immigrazione fondata sul buon senso, invece che sulla strumentalizzazione e sulla demonizzazione a scopi politici del fenomeno migratorio.

Delle prime due proposte si discute da tempo. È dimostrata l’efficacia di aprire canali umanitari sul modello di quelli sperimentati dal Libano all’Italia nel 2015 con i profughi siriani dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla chiesa valdese, in collaborazione con il governo italiano. Questi canali sono infatti l’unico strumento efficace per combattere il traffico di esseri umani, un giro d’affari da milioni di euro che viene invece alimentato da una gestione dell’immigrazione incentrata sul tema della sicurezza.

I giuristi hanno inoltre spesso mostrato i limiti del Testo unico sull’immigrazione che ha ristretto la possibilità per i cittadini stranieri di entrare in Italia con visti di studio e di lavoro e in questo modo ha contribuito a spostare il fenomeno migratorio nell’illegalità, senza regolarlo né reprimerlo. Entrare in maniera regolare per motivi di lavoro, di studio o di ricongiungimento familiare all’interno dell’Unione europea è sempre più difficile, per questo molti migranti si affidano ai trafficanti e mettono in pericolo le loro vite. La presenza di forza lavoro disponibile, a basso costo e ricattabile perché senza documenti, alimenta il lavoro nero e lo sfruttamento in molti settori dell’economia.

Richiedenti asilo nel centro di Castelnuovo di Porto, vicino a Roma, il 14 novembre 2016. (Gregorio Borgia, Ap/Ansa)

La terza proposta è quella più inedita, anche se negli ultimi tempi l’hanno suggerita tante associazioni che si occupano di migranti. Concedere la protezione umanitaria a tutti i richiedenti asilo, profughi dalla Libia e superstiti della traversata del Mediterraneo, permetterebbe di risolvere diversi problemi. Tutti i 171.938 richiedenti asilo, che attualmente si trovano nei centri di accoglienza italiani, potrebbero ottenere dei documenti temporanei della durata di due anni, indispensabili per uscire dal limbo esistenziale e giuridico in cui si trovano al momento. Potrebbero cercare lavoro, lavorare, prendere una casa in affitto, senza affidarsi ai canali illegali e sommersi del lavoro nero e della criminalità. Potrebbero costruirsi un’autonomia e dipendere meno dall’assistenza pubblica.

“Sta crescendo il popolo di chi riceve il diniego all’asilo, e nel corso dell’anno si potrebbe arrivare a 40mila migranti. Serve valutare, da parte del governo, la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario per evitare che si crei un popolo di invisibili, sfruttati”, aveva detto nel maggio del 2016 Carlo Perego, presidente della Fondazione Caritas Migrantes. “Le commissioni territoriali di fatto stanno operando sulla base di una lista dei paesi sicuri e stanno negando una forma di protezione internazionale o umanitaria talvolta a nove su dieci richiedenti. Questa situazione creerà un fenomeno grave, perché il governo non sarà in grado di rimpatriare le persone, le persone stesse si renderanno irreperibili e sul territorio si creerà una situazione di insicurezza per le persone migranti o residenti”, aveva aggiunto Perego.

Un rapporto di Medici per i diritti umani presentato lo scorso settembre mostrava una sostanziale inefficacia della suddivisione operata dalle autorità italiane ed europee tra migranti economici e profughi. Infatti più del 90 per cento dei migranti intervistati da Medu in Italia ha raccontato di essere stato vittima di violenza, di tortura e di trattamenti inumani e degradanti nel paese di origine e lungo la rotta migratoria, in particolare in luoghi di detenzione e sequestro in Libia. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso, torturato o picchiato.

La concessione di un permesso temporaneo di residenza per motivi umanitari a queste persone sarebbe una decisione politica saggia e coinciderebbe con il riconoscimento che il conflitto in Libia sta producendo profughi di cui l’Unione europea non può non occuparsi. Per molti dei beneficiari, inoltre, questa misura sarebbe risolutiva, li sottrarrebbe a un’inutile attesa e a un’irregolarità altrettanto inutile, e che va solo a beneficio della criminalità organizzata.

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