20 ottobre 2015 12:24

Il primo centro di identificazione ed espulsione (Cie) del Belgio aprì nel 1988, dentro l’aeroporto Bruxelles-National, per smistare i richiedenti asilo veri da quelli “finti”. Le autorità belghe si erano infatti accorte che, da quando il canale dell’immigrazione economica era stato ufficialmente chiuso nel 1974, molti stranieri si presentavano alla frontiera come richiedenti asilo, nel tentativo di entrare in territorio belga.

Quella struttura teoricamente temporanea – un prefabbricato rimasto operativo per più di vent’anni – aveva esattamente la stessa funzione degli attuali hotspot, che sono un filtro alla frontiera per trattenere, identificare e rimpatriare chi non può accedere al territorio europeo.

Negli anni i Cie si sono moltiplicati in Belgio e negli altri stati europei, sempre con lo stesso obiettivo, ma senza limitarsi alle persone appena arrivate alle frontiere esterne dell’Unione. Nei centri di detenzione per stranieri finiscono uomini, donne e minori che vivono nell’Unione europea da mesi, anni, a volte decenni.

I Cie contribuiscono alla ‘messa in scena del potere dello stato’

E se fino a poco tempo fa la gestione di questi centri, come altri aspetti delle politiche migratorie europee, era di competenza in gran parte nazionale, la Commissione è ora decisa a rafforzare il suo controllo sulle procedure di trattenimento, identificazione ed espulsione di quelli che chiama “migranti irregolari”. Parlare di Cie prescindendo dalla dimensione europea della questione è ormai completamente fuorviante.

Simbolo efficace

Anche volendo denunciare la situazione in un solo paese, c’è un argomento che non andrebbe mai usato: quello dell’inutilità dei Cie. In un recente articolo pubblicato sul manifesto, Luigi Manconi e Valentina Brinis scrivono: “I costi umani ed eco­no­mici che la per­ma­nenza nei Cie com­porta sono ormai troppo alti se con­fron­tati con il numero di rim­pa­tri effettivamente realizzati. Ancora oggi, appena il 50 per cento dei trattenuti viene ripor­tato nel paese di ori­gine. Un mezzo fal­li­mento pro­prio rispetto allo scopo per il quale quei luo­ghi orri­bili sono stati creati”.

Se si esclude la parola “orribili”, questo passaggio potrebbe essere tratto da un documento della Commissione europea, che è infatti la prima a voler aumentare il tasso di detenuti rimpatriati. Più che un fallimento, il fatto che oggi “appena il 50 per cento dei trat­te­nuti” sia espulso è il segno che il peggio deve ancora venire.

Sul piano simbolico, poi, i Cie sono estremamente efficaci, e lo sono stati fin dall’inizio (non mi soffermerò qui sugli interessi economici legati alla detenzione amministrativa degli stranieri, interessi già considerevoli nei paesi dove il settore è stato privatizzato).

L’obiettivo non è ottenere dei Cie vivibili, ma contestarne l’esistenza

La loro semplice esistenza, il loro rappresentare fisicamente, più di ogni altra cosa, la criminalizzazione di una fetta della popolazione straniera in Europa, è un successo. I Cie trattengono e rimpatriano solo una piccola parte delle persone sprovviste di un titolo di soggiorno valido, ma a tutte ricordano la loro condizione di clandestinità. Contribuiscono alla “messa in scena del potere dello stato”, per riprendere un’espressione usata dai ricercatori Grégoire Cousin e Olivier Legros in uno studio sullo sgomberi dei campi rom in Francia.

È esclusa una terza possibilità

In questo senso i centri di detenzione per stranieri, come i controlli alle frontiere, funzionano, anche se la metà dei detenuti non è rimpatriata, anche se centinaia di migliaia di persone aggirano quei controlli. Discriminano, separano, spaventano, a volte uccidono, in nome di un principio burocratico-manicheo: “Qualunque cittadino di uno stato terzo fisicamente presente sul territorio di uno stato membro dell’Ue vi risiede legalmente o illegalmente. Non esiste una terza possibilità” (dal Manuale sul rimpatrio che la Commissione ha elaborato a uso degli stati membri).

Nel loro articolo Manconi e Brinis parlano delle persone “inespellibili”, cittadini di paesi terzi che non possono essere rimpatriati nel loro paese di origine e che nonostante questo si trovano dietro le sbarre di un Cie. È una distinzione accettabile da parte di un avvocato, che vuole ottenere la liberazione del proprio cliente. Non lo è se si sta cercando di dimostrare che i Cie vanno chiusi. Nessun essere umano può essere privato della sua libertà a causa di un pezzo di carta: se siamo d’accordo su questo, non ci sono distinzioni né ragionamenti su costi ed efficacia che tengano.

Non è neanche accettabile difendere le “misure alternative al trattenimento e altre forme di rimpatrio”, a meno di voler aiutare governi e istituzioni a promuovere le loro variazioni sul tema dell’esclusione dello straniero. Le misure alternative di detenzione sono una forma di detenzione, il rimpatrio volontario lo è per modo di dire, poiché le persone non possono declinare l’offerta e rimanere in Europa.

Sui Cie c’è “ancora molto da fare”, osservano Manconi e Brinis. È vero, e non è sempre facile portare avanti il lavoro di denuncia muovendosi tra il piano generale e quello dei casi individuali, degli abusi, degli scandali. Ma non si può dimenticare che l’obiettivo non è ottenere dei Cie vivibili ed economici né sottolinearne l’inefficacia. L’obiettivo è contestare l’esistenza stessa di questi luoghi, smascherando la violenza del sistema che li ha originati.

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