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Il fallimento delle quote rosa nel parlamento afgano

Kabul, 2016. (Stefano Liberti)

“In quindici anni i progressi sono stati enormi. Abbiamo un sistema di quote rosa in parlamento, quattro ministre nel governo, un numero crescente di donne attive nella società civile”. Quando paragona il presente al passato recente, l’Afghanistan di oggi a quello dei taliban, Freshta Karimi non ha dubbi. “La strada è ancora lunga e accidentata, ma la direzione è quella giusta”.

Fondatrice e direttrice di Da qanoon ghushtonky (cercatori di legge, in lingua pashto), organizzazione che fornisce assistenza legale gratuita, questa donna di 32 anni è uno dei volti più rappresentativi della nuova generazione di attiviste afgane per i diritti umani. La sua organizzazione è presente in quasi tutte le province del paese, con i suoi avvocati, i suoi uffici legali mobili, le sue sessioni di sensibilizzazione nei villaggi. Molto dinamica, anche se per scelta lontana dai mezzi d’informazione, Karimi ha un rapporto di concreta collaborazione con il governo, tanto che è stata invitata a parlare come rappresentante della società civile alla conferenza dei donatori afgani che si è svolta a Londra nel 2014.

Il sistema di quote è uno specchietto per le allodole, un contentino per la comunità internazionale

Seduta nel suo ufficio al centro di Kabul, in un edificio protetto da guardie armate ma impreziosito da un bel giardino, ribadisce il concetto: “Fino a quindici anni fa, la donna semplicemente non esisteva nello spazio pubblico. Non aveva voce. Oggi svolge un ruolo imprescindibile nel processo di cambiamento”.

La costituzione afgana, approvata nel 2004, ha stabilito una quota obbligatoria del 25 per cento di donne in parlamento (ridotta poi al 20 per cento nel 2013): oggi nell’istituzione afgana ci sono in proporzione più donne che nell’assemblea nazionale francese o nel congresso degli Stati Uniti – e poco meno che nel parlamento italiano.

Forti resistenze
Nel 2002, subito dopo la caduta dei taliban, è stato creato il ministero per i diritti delle donne e messa in piedi un’unità per la parità di genere in ogni ministero. In diverse occasioni, tanto il presidente Ashraf Ghani che il cosiddetto chief executive del governo Abdullah Abdullah (sorta di primo ministro esecutivo stabilito dopo le elezioni contese nel 2014 e lo stallo politico che ne è conseguito) si sono detti a favore di una maggiore partecipazione femminile alla politica.

Kabul, 2016.

Ma le resistenze sono forti: quando Ghani ha cercato di nominare alla corte suprema una giudice, Anisa Rassouli, si è scontrato con l’opposizione dei parlamentari più conservatori e di alcune autorità religiose. Un deputato è arrivato a dire che la nomina era “un crimine” perché le donne durante il ciclo sono considerate impure dall’islam e quindi Rassouli non avrebbe potuto giurare sul Corano e svolgere le sue funzioni per una settimana al mese.

Alla fine, il presidente ha ritirato la nomina. Anche farsi approvare le quattro ministre non è stata cosa facile: il parlamento ha respinto in blocco le prime scelte del presidente e lo ha costretto a cercare altri nomi.

“Il sistema di quote è solo uno specchietto per le allodole, un contentino alla comunità internazionale. La realtà è che le donne sono ancora trattate come merce e non hanno alcun potere”. Belquis Roshan è categorica. Secondo lei, la rappresentanza femminile non esiste.

È stata messa in piedi perché richiesta dalla comunità dei donatori. Roshan, una donna di 45 anni sorridente e dalla voce profonda, ha fatto parte per dieci anni della camera alta. Insieme a Malalai Joya è stata tra le poche a portare avanti iniziative legislative in favore dei diritti delle donne e a parlare apertamente contro i signori della guerra. Dopo che la sua famosa collega è stata sospesa dal parlamento, perché in un’intervista televisiva ha paragonato la wolesi jirga (la camera bassa) a “uno zoo”, è rimasta sola. Alle elezioni del 2010, ha deciso di non ricandidarsi e continuare il suo lavoro all’interno della società civile.

Solo pubbliche relazioni
Nel salotto di una villetta in un quartiere residenziale di Kabul, presidiata da un metal detector e da un manipolo di guardie armate che perquisiscono da cima a fondo chiunque entri, Roshan riassume in una frase il suo pensiero sulla partecipazione femminile in politica: “È una pagliacciata”. L’ex senatrice non è propriamente una diplomatica. Rimane celebre il suo alterco in uno show televisivo con un portavoce del partito islamista Hezb islami dell’ex primo ministro ed ex signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar. Quando il tono della discussione è salito e il suo interlocutore le ha detto che non la picchiava solo perché era una donna, lei gli ha lanciato in faccia una bottiglietta d’acqua, in una scena rapidamente diventata virale.

“I signori della guerra hanno ancora un potere enorme in Afghanistan. Per la prima volta negli ultimi trent’anni, nel 2001 abbiamo accettato che gli stranieri venissero nel nostro paese, per aiutarci a ricostruirlo e far ripartire le infrastrutture. Cosa abbiamo ottenuto? Il crimine è aumentato, la corruzione è alle stelle, la produzione di oppio è più fiorente che mai”. Secondo Roshan tutti i progressi sui diritti delle donne sono “operazioni di pubbliche relazioni con cui il governo vuole compiacere la comunità internazionale”.

L’ex senatrice lamenta che la commissione dei diritti umani, che pure è guidata da una donna, non ha mai pubblicato documenti sui crimini commessi dai signori della guerra. Sostiene che le parlamentari non curano gli interessi delle donne, ma del partito o del gruppo che le ha portate all’interno del parlamento. “Sono solo dei fantocci”.

Lo scarto tra città e campagna
Ziya Gul Akbri è disincantata quanto l’ex senatrice, ma meno radicale. Questa signora di 66 anni è una pioniera: è stata la prima donna a laurearsi nella provincia di Nangarhar. Ha poi sempre lavorato per i diritti femminili, sia nell’epoca buia dei taliban, quando doveva farlo di nascosto, sia in questi tempi più liberi, in cui deve comunque far fronte all’insicurezza, agli attentati, alla violenza.

Oggi lavora come professoressa e formatrice per l’organizzazione Women for afghan women. Come Belquis non ha una grande opinione dell’operato delle parlamentari. “Non tornano mai nelle province in cui sono state elette. Non mantengono alcun legame con il territorio e con il loro elettorato. Poi, quando sono in parlamento, non parlano mai. Sono sedute e non prendono posizione. Si vede che le loro priorità sono altre”.

L’attivista afgana Freshta Karimi a Kabul, luglio 2016.

Ziya Gul Akbri non butterebbe però a mare tutto il sistema. “Il meccanismo delle quote è buono, perché permette di avere una rappresentanza. Ma le donne non hanno potere negli altri settori chiave: nell’economia, nella sanità, nei mezzi d’informazione. Quella afgana rimane una società dominata dai maschi. Ed è caratterizzata da un divario enorme tra le città e le campagne”.

Se a Kabul e nei grandi centri urbani i programmi per un coinvolgimento delle donne nella vita sociale ed economica funzionano in parte, altrove nulla è cambiato. “Perfino a Jalalabad, non esistono scuole per ragazze dopo un certo grado”. Secondo l’attivista, bisogna ripartire da qui, dallo scarto tra il centro e la periferia, tra quello che vedono i donatori internazionali e il paese reale, dove i donatori non vanno anche per ragioni di sicurezza.

Le donne devono continuare a lavorare insieme al di fuori dei palazzi, nelle città e nelle campagne

Freshta Karimi, Belquis Roshan e Ziya Gul Akbri: tre generazioni, tre visioni e tre atteggiamenti diversi. La prima crede nei politici di oggi e in un processo graduale di miglioramento; la seconda, che del ceto politico ha fatto parte e ne è uscita disgustata, ha posizioni più radicali, a partire dal ritiro delle truppe straniere e dall’annientamento dei signori della guerra. La terza ritiene semplicemente sia meglio non mischiarsi con la politica.

Eppure, tutte e tre sono unite da una convinzione: la società civile esiste e non si è mai spenta. Ha resistito allo sconquasso dei taliban; non si è piegata all’oscurantismo del loro regime e ha messo in piedi scuole, sessioni di sensibilizzazione, forme di partecipazione clandestine. “Questa società civile oggi può esprimersi liberamente e deve riuscire a pesare sui processi decisionali e sulla politica”, dice Ziya Gul Akbri. “La società civile svolge un ruolo importantissimo anche fuori dei centri urbani sensibilizzando e informando”, le fa eco Freshta Karimi. “Le donne devono continuare a lavorare insieme al di fuori dei palazzi, nelle città e nelle campagne”, aggiunge Belquis Roshan.

Su questo sono d’accordo tutte e tre. Dalle loro convinzioni – e da quelle di tutte le altre donne che costituiscono la vibrante società civile afgana – sembra dipendere il futuro di questo martoriato paese e anche la possibilità per le donne di avere infine una rappresentanza che non resti solo sulla carta.

Questo reportage è il quarto e ultimo di una serie sulla condizione delle donne e degli attivisti per i diritti umani in Afghanistan realizzato nell’ambito del progetto Ahram (Afghanistan human rights action and mobilisation) portato avanti da Cospe-onlus e sostenuto dall’Unione europea. Il progetto sostiene difensori dei diritti umani che ogni giorno rischiano la vita per affermare le libertà fondamentali del popolo afgano (educazione, sanità, pari opportunità). Grazie al progetto sono stati creati spazi sicuri per i difensori degli attivisti e delle attiviste e una rete di protezione e di allerta in 34 province del paese.

Le puntate precedenti sono qui, qui e qui.

Stefano Liberti sarà al festival di Internazionale a Ferrara dal 30 settembre al 2 ottobre 2016.

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