09 settembre 2016 11:39

L’appuntamento è fissato per le cinque e mezzo del mattino. “Ci alleniamo di buon’ora, per evitare il caldo e non dare troppo nell’occhio”, dice la capitana Sabrina Nawrozi. “E poi perché”, aggiunge con tono rassegnato, “le altre ore sono riservate ai maschi”.

L’indomani alle prime luci dell’alba ritrovo Sabrina e le sue compagne puntuali allo stadio comunale di Herat: scarpe da ginnastica, capelli avvolti nell’hijab, magliette lunghe e calze a coprire le ginocchia. Sono una ventina, tra i sedici e i ventidue anni. Tutte studenti, si riuniscono prima dei corsi in questo grande stadio deserto due o tre volte alla settimana, per allenarsi e praticare lo sport che amano più di qualsiasi altra cosa: il calcio.

Intorno a loro, c’è l’allenatore Najibullah Nawrozi (nessuna parentela con la capitana), un uomo robusto, dagli occhi di ghiaccio e i modi apparentemente bruschi, che le ragazze sembrano adorare come un padre. È imperturbabile. Al centro del gruppo, dà ordini secchi e concisi. Le incita a scaldarsi i muscoli. A fare stretching. A saltare gli ostacoli. E a lanciarsi il pallone. Loro eseguono. Faticano. Sudano. E si divertono.

Allenamento semiclandestino
“Per me il calcio è come l’ossigeno. Non potrei farne a meno”, dice ansimando Maryam Merzhad, 19 anni, che gioca nel ruolo di terzina e corre come una pazza dietro la palla. “È nutrimento per la vita, come il cibo o l’acqua”, le fa eco la centrocampista Zahra, anche lei di 19 anni. Le altre annuiscono, si mettono in due file parallele per stirarsi i muscoli a vicenda.

Dopo una lunga sessione di riscaldamento, viene approntata la partitella di metà allenamento. Alcuni ostacoli mobili sono spostati e usati come pali per segnare le porte. Perché loro non giocano sul terreno vero e proprio: sia il match sia l’allenamento si svolgono in uno spazio dietro la rete, a bordo campo. “Non abbiamo gli scarpini e non ci fanno stare sul manto erboso. Dicono che lo roviniamo”, spiega un po’ mortificata la capitana Sabrina.

L’allenatore Najibullah Nawrozi e l’allenatrice Abeda Nafieh all’ingresso dello stadio di Herat, luglio 2016. (Stefano Liberti)

Lo stadio è nuovo e scintillante. Il prato, curatissimo. Rinnovato con fondi di donatori internazionali – in parte anche della cooperazione italiana, come indica una targa proprio all’ingresso – l’impianto sembra per lo più destinato ai maschi. Relegate a giocare a queste ore antelucane in uno spicchio del campo, le ragazze sembrano far parte di una squadra semiclandestina.

E in un certo senso è proprio così. “Convochiamo gli allenamenti via sms. E ogni volta cambiamo il giorno. I taliban e gli altri islamisti radicali odiano quello che facciamo e preferiamo non esporci troppo”, racconta l’allenatore, che ha ricevuto anche minacce dirette dagli ex studenti coranici. “I taliban me l’hanno giurata. Ma io certo non mi fermo. Vedere i progressi di queste ragazze è per me fonte di enorme soddisfazione”.

Veicolo per la libertà
Ex giocatore di basket, Najibullah ha 45 anni ed è il capo del comitato sportivo di Herat. Allena sia le squadre maschili sia quelle femminili. Dice di svolgere il doppio incarico con uguale entusiasmo, ma vedere queste sue allieve correre dietro il pallone sembra dargli un senso di felicità e di fierezza estrema. “Siamo amanti della libertà”, dice con gli occhi che brillano. “Lo sport è un veicolo per la libertà”.

Durante il regime dei taliban, dal 1996 al 2001, quando alle donne era perfino vietato andare a scuola o uscire di casa da sole, gli sport erano banditi per tutti. Dopo averli definiti “antislamici”, il regime oscurantista aveva deciso di utilizzare gli stadi per le esecuzioni pubbliche. Oggi, nel nuovo Afghanistan, gli impianti sono tornati alla loro funzione originaria e il calcio ha cominciato a diffondersi anche tra le ragazze. Un fenomeno del tutto nuovo e in crescita: ci sono più di mille giocatrici registrate nelle federazioni attive in sei province del paese – Herat, Bamyan, Ghazni, Jowzjan, Balkh, e la capitale Kabul, dove si contano ben 22 squadre. C’è un campionato e anche una nazionale femminile che ha partecipato negli ultimi anni a qualche torneo internazionale (nel 2014, è arrivata terza ai Giochi dell’Asia del sud).

Ma le difficoltà sono tante: non tutti vedono questa cosa di buon occhio. Al di là dei taliban, che sia pure nell’ombra fanno ancora pesare le loro minacce, la società afgana resta profondamente conservatrice. L’opinione più comune è che un campo da pallone non sia un luogo adatto a una ragazza. Qualche mese fa, un parlamentare di Herat si è espresso contro questa “prassi peccaminosa” pubblicamente: “Non manderei mai mia figlia a giocare a calcio”. Molti la pensano come lui. “Le nostre famiglie ci sostengono”, dice Maryam, “ma ci dicono anche di fare attenzione. Noi andiamo a giocare in incognito”.

Senza doversi nascondere
“Non abbiamo grandi appoggi. Siamo cronicamente a corto di fondi”, lamenta Abeda Nafieh, allenatrice e leader del Women’s soccer commitee di Herat. “Non riusciamo neanche a comprare gli scarpini alle ragazze”. Insieme a Najibullah Nawrozi, Abeda è l’anima di questa squadra che sfida le convenzioni sociali. Anche lei a bordo campo durante gli allenamenti, coordina il lavoro con le altre associazioni femminili in giro per il paese. “Ci piacerebbe avere anche luoghi nostri in cui poterci allenare e non dover necessariamente farlo all’alba”.

Le calciatrici si allenano nello stadio di Herat, luglio 2016.

Ma l’alba è anche un modo per sfuggire al caldo soffocante. Poiché in Afghanistan è un crimine per una donna mostrare in pubblico anche un semplice lembo di pelle scoperta, le ragazze sono costrette a giocare in tenuta intera, calze e magliette a maniche lunghe, oltre ovviamente al velo. Fanno venire caldo al solo guardarle, ma la cosa per loro non costituisce particolare motivo di preoccupazione. “Siamo musulmane. È giusto coprirci”, dice Maryam. Le altre annuiscono con la testa. Viste da bordo campo qui allo stadio di Herat, le polemiche sul burkini in spiaggia in Francia o sulle tenute islamiche alle Olimpiadi di Rio sembrano lontane anni luce.

“Non è l’hijab o la calza lunga il problema. Piuttosto, il fatto di non poter giocare liberamente. A volte è come se dovessimo nasconderci”, lamenta Maryam.
Tutte sognano di partecipare a tornei agonistici. Di confrontarsi con altre squadre. “Quando abbiamo giocato contro l’Italia è stato divertentissimo”, dice la capitana Sabrina, mostrando le foto dell’evento sul cellulare. Si riferisce alla partita che hanno disputato contro le soldate italiane del contingente Isaf, all’interno della base di Camp Arena. “È stato un giorno di festa. Non solo perché la nostra squadra ha vinto, ma perché abbiamo mostrato al mondo che un altro Afghanistan è possibile”, dice ancora Nafieh.

Il sole comincia a battere alto. La partita e l’allenamento volgono al termine. Le ragazze raccolgono palloni e attrezzi. Tornano negli spogliatoi per cambiarsi e andare a seguire i corsi universitari. Sostituiti pantaloncini e scarpe da ginnastica con i lunghi vestiti afgani, passano a salutare l’allenatore nel piccolo ufficio della federazione all’ingresso dello stadio. In attesa del prossimo sms e della prossima convocazione mattutina da parte di Najibullah, il mister dagli occhi di ghiaccio che insieme a loro sfida i taliban e che per tutte loro è una specie di padre.

Questo reportage è il secondo di una serie sulla condizione delle donne e degli attivisti per i diritti umani in Afghanistan realizzato nell’ambito del progetto Ahram (Afghanistan human rights action and mobilisation) portato avanti da Cospe-onlus e sostenuto dall’Unione europea. Il progetto sostiene difensori dei diritti umani che ogni giorno rischiano la vita per affermare le libertà fondamentali del popolo afgano (educazione, sanità, pari opportunità). Grazie al progetto sono stati creati spazi sicuri per i difensori degli attivisti e delle attiviste e una rete di protezione e di allerta in 34 province del Paese. Il primo è uscito qui.

Stefano Liberti sarà al festival di Internazionale a Ferrara, dal 30 settembre al 2 ottobre 2016.

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