“Mi concentrerei su altre priorità”, ha detto qualche giorno fa la presidente del consiglio Giorgia Meloni. Il suggerimento, garbato nei modi ma decisamente ruvido nella sostanza, era rivolto al ministro della giustizia Carlo Nordio, che in quelle stesse ore si era reso protagonista di una nuova polemica politico-giudiziaria. L’ultima di una serie già piuttosto corposa per un governo in carica solo da pochi mesi.

In questo caso l’argomento era il concorso esterno in associazione mafiosa sul quale, secondo Nordio, si dovrebbe intervenire con una norma che lo preveda in modo esplicito come reato. Attualmente infatti il concorso esterno è il risultato della combinazione di due diverse norme: il concorso di più persone nel reato e l’associazione di tipo mafioso. Trattandosi di una costruzione giurisprudenziale, è da sempre oggetto di dibattito. Il timore di molti è che qualunque intervento finirebbe per travolgere le condanne già pronunciate. Si capisce allora quanto sia delicata una questione che, non per caso, ha sempre innescato un confronto molto acceso tra le forze politiche, e tra il mondo politico e quello giudiziario.

Irritazione, polemiche e imbarazzi

Riaprire la questione in un momento molto difficile per il governo, già impegnato in un polemico confronto con la magistratura su altre questioni, e per di più alla vigilia delle celebrazioni della strage mafiosa di via D’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta non deve essere sembrata una buona idea a Meloni. E infatti la presidente del consiglio ha spiegato che sul concorso esterno non sarà presa nessuna iniziativa. Di fatto, si è trattato di una sconfessione del proprio ministro. “Le cose che si devono fare si fanno, mentre del resto si può evitare di parlare”, ha detto infatti Meloni, invitando poi Nordio a essere “più politico”.

Va però detto che, al di là delle difficoltà del governo per il riacutizzarsi dello scontro interno alla maggioranza, l’irritazione della presidente del consiglio in questo caso è del tutto comprensibile anche sul piano della sua stessa storia personale. Come Meloni ha raccontato spesso, il suo impegno politico è nato proprio all’indomani dell’uccisione di Borsellino. E Meloni lo ha ricordato nei giorni scorsi con una lettera al Corriere della Sera che, peraltro, è servita anche a spiegare il perché quest’anno non sarebbe stata presente alle celebrazioni in Sicilia. Ma quella lettera si è resa necessaria soprattutto per provare a mitigare almeno in parte polemiche e imbarazzi provocati dall’uscita di Nordio sul concorso esterno in associazione mafiosa proprio in quei giorni.

Sembra insomma che la memoria proceda incerta, ricordando e dimenticando, alternando condanne e silenzi

E infatti in quella lettera Meloni ha anche affermato che “la lotta alla mafia è parte di noi, è un pezzo fondante della nostra identità”. E allora si capisce ancor meglio come mai chi insinui dubbi sulle sue intenzioni arrivi a scatenare una reazione tanto netta. Molto meno loquace la presidente del consiglio si è invece dimostrata in altre occasioni. Per esempio nell’anniversario della strage di piazza della Loggia, a Brescia, dove il 28 maggio del 1974 un attentato provocò otto morti e 102 feriti.

L’obiettivo di quell’attacco allo stato, come ha ricordato il presidente della repubblica Sergio Mattarella, era la destabilizzazione della democrazia. Ma, ha detto ancora Mattarella, “i piani eversivi del terrorismo neofascista vennero contrastati e sventati”, e “le sentenze sono riuscite a ricostruire circostanze e responsabilità dell’attentato di Brescia, evidenziandone la matrice e i suoi legami con l’eversione di destra”. In molti, come lui, hanno ricordato quei morti, insieme al pericolo che la democrazia ha corso in quegli anni, anche a causa delle tante bombe neofasciste, da piazza Fontana alla stazione di Bologna, iscritte nella cosiddetta strategia della tensione che, attraverso la destabilizzazione dell’ordine democratico, intendeva imprimere una decisa svolta a destra nella conduzione politica del paese.

Come Mattarella, tutte le alte cariche dello stato hanno fatto lo stesso. Tutte tranne una: Giorgia Meloni. La quale è rimasta in silenzio. E, tuttavia, solo il giorno prima aveva ricordato un’altra tragica ricorrenza, quella della strage di via dei Georgofili anch’essa di matrice mafiosa, come quella di via D’Amelio, avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 a Firenze, e che provocò la morte di cinque persone e decine di feriti.

Sembra insomma che la memoria proceda incerta, ricordando e dimenticando, alternando condanne e silenzi. E però certi silenzi rischiano di fondare il sospetto che vi sia ancora qualche imbarazzo ad affrontare la questione dell’eversione di destra con la stessa chiarezza e la stessa fermezza giustamente usate con i fatti che hanno avuto come protagonista cosa nostra.

Opportunità istituzionale

Tra pochi giorni sarà il 2 agosto, e l’Italia intera ricorderà uno dei fatti più tragici della propria storia. Alle 10.25 del 2 agosto del 1980 una bomba esplose alla stazione di Bologna. I morti furono 85. I feriti almeno 200. La bomba era collocata nella sala d’aspetto di seconda classe. Un’intera ala della stazione fu cancellata. Le immagini trasmesse dalla televisione testimoniarono a un paese ammutolito e spaventato la dimensione della distruzione che in quella mattina d’estate aveva straziato l’esistenza stessa della città. Un autobus rosso, quello che percorreva la linea numero 37, fu utilizzato prima come pronto soccorso improvvisato, poi come un immenso carro funebre per trasportare i tanti corpi senza vita. E divenne così uno dei simboli di quella giornata.

Su quella strage la magistratura è riuscita a scoprire quasi tutto. Le sentenze hanno stabilito la matrice neofascista di quell’attentato, anch’esso inserito nell’orizzonte più vasto della strategia della tensione, come ha confermato da ultimo la sentenza emessa nel 2022 dalla corte di assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo in primo grado il neofascista di Avanguardia nazionale Paolo Bellini come uno degli esecutori della strage del 2 agosto 1980. E, peraltro, lo stesso Bellini risulta ora indagato dalla procura di Caltanissetta per la strage mafiosa di Capaci nella quale morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta.

Negli anni scorsi, però, Giorgia Meloni è parsa ignorare completamente il contenuto delle sentenze, facendo affermazioni a dir poco sconcertanti. Nel 2017, per esempio, disse: “2 agosto 1980: 37 anni senza giustizia, 37 anni senza verità”. Nel 2018: “38 anni dalla #StragediBologna. Ancora oggi tutto avvolto nel mistero, nessuna verità, nessuna giustizia”. Nel 2021: “A oltre 40 anni dalla strage di Bologna, tra ombre e depistaggi, continuiamo a ricordare tutte le vittime e a chiedere verità e giustizia”. E anche lo scorso anno si è ripetuta: “La strage alla stazione di Bologna di 42 anni fa rappresenta una ferita aperta per tutta la Nazione. Gli 85 morti e gli oltre 200 feriti meritano giustizia, per questo continueremo a chiederla insieme alla verità”.

Tutte queste dichiarazioni Meloni le ha rilasciate come esponente politica, assumendo su di sé la responsabilità politica di quanto diceva. Per la prima volta, quest’anno si arriva al 2 agosto con Meloni alla presidenza del consiglio. E in questa posizione sarà davvero difficile ripetere ciò che ha affermato in passato, se non altro per una questione di opportunità istituzionale. Tuttavia la destra radicale che oggi è al governo del paese già in molte occasioni ha dato una lettura della storia recente piuttosto controversa. Lo dimostra, tra l’altro, il rapporto orgogliosamente non risolto del proprio rapporto con l’antifascismo. Il rischio ora è quello di spaccare ulteriormente il paese. Se questa è la strada, allora forse per il prossimo 2 agosto meglio augurarsi un altro imbarazzante silenzio.

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