18 novembre 2013 16:25

Tutti sappiamo cos’è uno stereotipo. Se c’è qualche dubbio basta guardare il dizionario, che parla di modelli convenzionali di atteggiamento e di discorso. Di opinioni o espressioni precostituite, generalizzate, meccaniche e banalizzate. E, infine, di pregiudizi negativi riferiti a gruppi sociali, etnici o professionali.

Del resto

stereotipo vuol dire “immagine rigida” e il termine in origine rimanda al cliché tipografico. Per questo chiamiamo stereotipi le idee e i giudizi che sembrano fatti con lo stampino.

In realtà lo stesso dizionario, che ne sottolinea la componente banalizzante e ripetitiva, finisce a sua volta per proporre una visione stereotipata degli stereotipi. Eppure – ce lo dice la psicologia sociale - senza stereotipi ci sentiremmo disorientati e passeremmo la vita a farci travolgere dalle domande più banali: gli spaghetti piacciono agli italiani? Sarà cortese regalare un mazzo di fiori? E da cosa mai si è travestito quel tizio con una tuta rossa aderente, la coda biforcuta, una barbetta a punta, due corna sul cranio e un forcone in mano?

Grazie agli stereotipi sappiamo cosa più o meno possiamo aspettarci da un cenone di Natale o da un colloquio di lavoro, e come vestirci per un funerale o per andare al mare. Senza stereotipi dovremmo buttar via un bel po’ di barzellette su tedeschi, francesi, inglesi e italiani, sui carabinieri, sulle suocere e le nuore. Dovremmo rinunciare a concetti come bovarismo o stacanovismo e non capiremmo tre quarti della pubblicità che passa in tv. E forse questo sarebbe il minore dei mali.

Ma se disporre di modelli di comportamento già pronti all’uso ci semplifica l’esistenza, proprio nell’accessibilità degli stereotipi si annida un rischio, quello del renderci impermeabili a ogni evidenza contraria trasformando lo stereotipo in pregiudizio: una faccenda pericolosa quando lo stereotipo riguarda temi sensibili come l’etnia, il genere, l’orientamento sessuale, la disabilità, l’età anagrafica, l’aspetto fisico.

In sostanza, gli stereotipi sono un po’ come il colesterolo “buono” o “cattivo”, che accresce la stabilità meccanica delle cellule ma può anche occludere i vasi sanguigni e uccidere l’organismo. Il livello di colesterolo è connesso con l’alimentazione, l’esercizio fisico, lo stress.

Con gli stereotipi succede (quasi) la stessa cosa. Una moderata quantità di stereotipi ci aiuta a mantenere un’identità stabile, ma quando un eccesso di stereotipi si consolida in un blocco di pregiudizi ostruisce ogni ragionamento. La malattia può derivare da un’alimentazione intellettuale costituita da idee spazzatura. Stress (paura, rabbia), manipolazione e disinformazione propagandistica, inerzia e passività possono peggiorare la situazione. E tutto questo può uccidere.

Così, in Florida nel 2012 muore Trayvon Martin, adolescente afroamericano ammazzato da un vigilante insospettito dal fatto che stesse camminando, di sera, in un quartiere bianco con il cappuccio della felpa alzato. Obama nel 2013 torna a parlarne e dice “when Trayvon Martin was first shot, I said this could’ve been my son. Another way of saying that is ‘Trayvon Martin could have been me 35 years ago’”.

Dicevamo che gli stereotipi sono “cattivi” quando alimentano pregiudizi. Li si può combattere migliorando la qualità della dieta intellettuale. Superando l’inerzia e muovendosi verso gli altri. Tenendo sotto controllo lo stress da disinformazione.

Ma – proprio come capita con il colesterolo – si possono combattere gli stereotipi cattivi anche promuovendo e valorizzando controstereotipi buoni, che fluidificano il pensiero e lo riportano più vicino alla realtà. È quanto fa Obama, proponendo se stesso come controstereotipo quando dice “Trayvon Martin è come me da ragazzo”.

Un controstereotipo antirazzista si sta consolidando attorno a Dante de Blasio, figlio del nuovo sindaco di New York. La stampa americana d’opinione ne intercetta immediatamente la potenza: il 12 novembre 2013 Time Magazine lo definisce “one of the year’s most influential teens”, insieme a Justin Bieber (e vabbè, facciamocene una ragione), a Malia (la figlia maggiore di Obama) e a Malala Yousafzai.

Ed eccoci a un altro punto interessante: da una parte gli stereotipi rimandano a modelli di ruolo condivisi, dall’altra i modelli di ruolo diffusi dai mezzi di comunicazione rafforzano gli stereotipi corrispondenti, sia quelli buoni e positivi, sia quelli cattivi, che conducono a pregiudizi e a discriminazione.

Pensiamo alle notizie di cronaca, ma non solo: talk show, serie televisive, spettacoli di varietà, reality show, sport, perfino i cartoni animati e naturalmente la pubblicità costituiscono, nel male e nel bene, enormi repertori di stereotipi.

In sostanza: è quasi impossibile sfuggire allo stereotipo, ma si può sempre scegliere quale stereotipo rafforzare e quale combattere. La storia pubblicitaria più divertente sullo stereotipo dello straniero viene da oltralpe. Siamo nel 2005: in Francia si diffonde lo spauracchio dell’invasione di manodopera a basso costo dall’Europa dell’est e lo spettro dell’invasione di idraulici polacchi e architetti estoni viene agitato dalla destra in funzione antieuropea.

Ovviamente l’invasione millantata non si verifica. In compenso l’ente del turismo polacco produce una spiritosa campagna pubblicitaria, testimonial un bell’idraulico (e anche una bella infermiera) che invitano i francesi a visitare il paese. Grande successo di pubblico.

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