14 settembre 2015 12:30

Il 9 luglio 2015 una squadra di tecnici si è addentrata in una zona acquitrinosa del delta del fiume Niger, nella Nigeria meridionale, per riparare un oleodotto danneggiato da cui usciva petrolio.

Incidenti del genere sono frequenti nel delta, la regione che produce gran parte del greggio della Nigeria: rotture, perdite e bitume nerastro che si sparge tra terreni, lagune e canali. Qui siamo nello stato di Bayelsa, oleodotto Tebidaba-Clough Creek, nel territorio Ijaw Meridionale. La squadra doveva verificare la situazione e procedere al clamping, in sostanza riparare la falla per bloccare lo sversamento. Routine.

Quel giorno però è finita male: mentre i tecnici erano al lavoro è scoppiato un incendio e un’esplosione ha ucciso l’intera squadra, 14 persone. Secondo i mezzi d’informazione locali il botto è stato così forte che l’hanno sentito fino ad Azuzuama, il più vicino centro abitato, a circa cinque chilometri di distanza.

La mattina dopo le fiamme divampavano ancora, raccontano gli abitanti. Le vittime sono rimaste intrappolate nell’acquitrino: “Non hanno avuto scampo, non c’era via di fuga”, mi dice Godwin Ojo, che qualche giorno dopo ha visitato il luogo.

L’incidente di Azuzuama è tra i più gravi segnalati negli ultimi tempi ma non è certo un caso raro: e ha rinfocolato polemiche ormai annose sulla sicurezza e l’inquinamento negli stati petroliferi del delta nigeriano.

In questo caso l’oleodotto appartiene alla Naoc, Nigeria Agip oil company, l’azienda sussidiaria di proprietà dell’italiana Eni. La manutenzione invece è appaltata a una ditta locale, la Vowgas limited. Tra le vittime infatti ci sono sei addetti dell’appaltatore, tutte persone della zona, insieme a due dipendenti locali dell’Agip, un funzionario del ministero dell’ambiente dello stato di Bayelsa, due dell’ente per la sicurezza nell’industria petrolifera, e un soldato.

“Dalle testimonianze che abbiamo raccolto, le scintille provocate da un macchinario durante il clamping sono state la causa principale del disastro”, continua Godwin Ojo, che è il direttore di Environmental rights action (Era), un’organizzazione nigeriana per la giustizia ambientale aderente alla rete internazionale Friends of the earth.

Il 16 luglio Ojo ha partecipato a un sopralluogo, con personale dell’Agip, del ministero dell’ambiente di Bayelsa, dell’ente per la sicurezza (Nosrda). Per raggiungere il luogo del disastro hanno usato uno Swamp Buggy, il solo veicolo capace di muoversi nel fango degli acquitrini.

Lavoratori in subappalto senza qualifica

Il sopralluogo e le testimonianze, spiega l’attivista, indicano che c’è stato un malfunzionamento dei macchinari e che non sono state seguite le procedure di sicurezza: “Non è stato chiuso il flusso nell’oleodotto, obbligatorio prima di intervenire su una falla. Non c’erano standard di precauzione da seguire o vie di fuga pianificate, a quanto pare la squadra non era equipaggiata per spegnere rapidamente un incendio”, dice Ojo.

Sembra che non abbiano “neutralizzato” la zona con le schiume chimiche del caso. Invece, “quando è cominciato il primo incendio hanno pensato di spegnerlo gettandoci sopra fango. Ma c’erano già stati altri sversamenti, il fango era intriso di idrocarburi. A quel punto c’è stata l’esplosione”, spiega Ojo. Flagrante negligenza, insiste: “Hanno usato metodi substandard. L’Agip deve smetterla di mandare lavoratori in subappalto non qualificati”.

Un operaio nello stabilimento Eni nella regione del delta del Niger, in Nigeria, il 29 maggio 2007. (Jacob Silberberg, Panos/Luzphoto)

Il rapporto compilato da Era dopo il sopralluogo cita diverse testimonianze a sostegno di questa prima ricostruzione, tra cui quelle di funzionari del ministero statale dell’ambiente.

Una ricostruzione più dettagliata e ufficiale non c’è ancora, l’indagine ordinata dal governo dello stato di Bayelsa non è ancora conclusa. Di prassi anche l’Agip Nigeria compie la sua indagine interna, ma neppure questa è conclusa – o perlomeno non ce n’è notizia pubblica.

Alla casa madre italiana si trincerano dietro le indagini in corso: per l’Eni le circostanze dell’incidente non sono ancora chiarite. “Che qualcosa sia andato storto è innegabile, visto l’esito. Ma non possiamo dire cosa, se un errore, procedure non rispettate: aspettiamo le conclusioni dell’indagine”, rispondono gli addetti stampa.

Un tale numero di sversamenti fa sospettare ‘potenziali negligenze risalenti a molti anni addietro’

Resta il fatto che rotture, falle e sversamenti di greggio sono eventi quasi quotidiani nel delta del Niger. Quest’anno se ne contano 656 nei soli impianti dell’Agip nigeriana, ha dichiarato giorni fa Iniruo Wills, commissario all’ambiente del governo di Bayelsa: “Una statistica allarmante”.

L’azienda petrolifera non nega che gli sversamenti avvengano spesso. Anzi, sul sito web dell’Eni, sotto Naoc, alla voce “sostenibilità” si può trovare tra l’altro un elenco dettagliato di episodi di oil spill registrati in Nigeria: impianto oppure oleodotto, zona, data, causa, quantità di barili sversati, anche foto della falla (ma non le eventuali vittime umane). Sono decine di episodi ogni mese, e la compagnia afferma che sono aumentati di 40 volte tra il 2007 e il 2014. Curioso però: nell’elenco di luglio il disastro di Azuzuama non compare – “perché la causa è ancora da determinare”, spiegano all’Eni.

Secondo l’Eni la gran parte degli oil spill è provocata da sabotaggi, per lo più tentativi di furto: abitanti che aprono una falla per “cannibalizzare” l’oleodotto e impadronirsi di qualche tanica di greggio. In effetti non è raro.

In passato è anche successo che mentre la folla si accalcava attorno a una falla aperta sia scoppiato qualcosa, una scintilla, fiamme, esplosioni, e sia finita in tragedia. Certo è che la Agip, la Shell, la Chevron, tutte le compagnie petrolifere si dicono vittima di simili furti, o di sabotaggi. “Vandalismo”, secondo la polizia nigeriana, che ha lanciato ricorrenti campagne d’ordine contro questi furti.

La Naoc, come tutte le altre compagnie petrolifere, sostiene che sversamenti e inquinamento sono appunto la conseguenza dei sabotaggi. L’Eni tiene a precisare che usa misure di sicurezza molto avanzate. Secondo gli attivisti di Environmental rights action la realtà è diversa: gran parte degli sversamenti è provocata da cedimenti tecnici, scarsa manutenzione, impianti vecchi e difettosi. Ma non sono solo gli ambientalisti nigeriani a sostenerlo.

“Le compagnie petrolifere attribuiscono a furti e sabotaggi la gran parte degli sversamenti, ma le comunità locali e le organizzazioni non governative non sono d’accordo”, afferma Amnesty international.

L’impianto della Nigeria Lng Limited a Bonny Island, Nigeria, il 12 giugno 2006. (Ed Kashi, VII/Luzphoto)

In marzo l’organizzazione per i diritti umani faceva notare che la anglolandese Royal Dutch Shell e l’italiana Eni hanno ammesso oltre 550 casi di oil spill nel 2014 nel delta del Niger: 204 la Shell e 349 l’Eni, che pure opera in un’area più ristretta di quella della concorrente (se fosse vera la cifra di 656 fornita dal ministro dell’ambiente del Bayelsa vorrebbe dire che negli ultimi mesi c’è stata un’impennata).

Alcuni attivisti sono convinti che siano di più: ma anche quelli dichiarati dalle compagnie sono un numero impressionante.

“Per contro, in media ci sono stati dieci casi di sversamento all’anno nell’intera Europa tra il 1971 e il 2011”, osserva Amnesty. L’accusa è chiara: le compagnie petrolifere non usano in Nigeria gli stessi standard di sicurezza adottati nei paesi più ricchi.

“Eni ha chiaramente perso il controllo delle sue operazioni nel delta del Niger”, insiste Amnesty, “il governo italiano deve indagare su cosa succede nelle operazioni nigeriane dell’Eni”. Un tale numero di sversamenti fa sospettare “potenziali negligenze risalenti a molti anni addietro”, dice. Le compagnie dovrebbero far conoscere l’età e le condizioni delle loro infrastrutture, e rivedere le loro pratiche: “in qualunque altro paese una situazione simile sarebbe un’emergenza nazionale”.

Metafora degli altri incidenti

Anche perché, quale che sia la causa iniziale, in base alla legge nigeriana le aziende hanno la responsabilità di contenere e ripulire gli sversamenti di petrolio.

Devono farlo anche in base ad altre legislazioni, del resto: nel novembre 2014 la Shell ha dovuto ammettere in un tribunale londinese di aver pesantemente sottostimato le dimensioni di due grandi sversamenti avvenuti in Nigeria, dopo averlo negato per anni, ed è stata condannata a bonificare la zona inquinata oltre a pagare risarcimenti per 55 milioni di sterline alla comunità danneggiata (al tempo dell’incidente aveva offerto quattromila sterline).

Godwin Ojo si chiede quanti casi, però, passino sotto silenzio rispetto a quelli arrivati in tribunale. “Molti incidenti non sono neppure registrati. Sono semplicemente considerati normali”. Secondo lui, “il disastro di Azuzuama è una metafora di tutti gli incidenti petroliferi provocati da tutte le compagnie”.

Le luci dell’impianto Agip viste da Akala-Olu, Nigeria, il 31 gennaio 2008. (Kadir van Lohuizen, Noor/Luzphoto)

Bisogna immaginare una regione immensa (il delta comprende sei stati produttori di petrolio, con 30 milioni di abitanti e 185 governi locali), disseminata di acquitrini e lagune e foreste di mangrovie, solcata da corsi d’acqua – e costellata di pozzi, stazioni di pompaggio e una ragnatela di oleodotti che vanno verso i terminal sulla costa. E di soffioni di gas bruciati, prodotto collaterale dell’estrazione del petrolio (il gas flaring è uno dei problemi ambientali irrisolti).

La Nigeria è uno dei grandi produttori mondiali di greggio, estrae circa 2,4 milioni di barili al giorno e ne esporta circa 2,1 milioni (sono dati del dipartimento dell’energia statunitense).

Ma tanta attività estrattiva ha lasciato poco nel delta del Niger: ha arricchito compagnie straniere e una piccola élite locale, magari un pugno di subappaltatori. Le risorse andate agli stati produttori hanno consolidato pochi notabili e amministratori locali negli stati produttori, ma ben poco è andato nello sviluppo sociale, o nella costruzione di una economia diversificata.

La lettura dei rapporti sullo sviluppo umano fa impressione: la popolazione considerata sotto la “soglia di povertà” ufficiale, il 28 per cento nel 1980, era schizzata al 65 per cento nel 1996 (nel 2004 era scesa al 54 per cento). Due terzi della popolazione del delta continuano a dipendere da pesca e agricoltura di sussistenza, dice l’Undp: “La povertà è diventata un modo di vita a causa della stagnazione economica, la mancanza di beni e servizi essenziali (elettricità, acqua corrente, sanità), un ambiente malsano e l’insensibilità del governo”.

Un crimine ambientale contro l’umanità sta avvenendo nel delta del Niger, e tutti lo sanno

Certo, tutte le compagnie petrolifere mettono un po’ di soldi in quello che chiamano “responsabilità sociale”: piccole opere nelle comunità, un progetto pilota per l’agricoltura qua, una scuola là, qualche borsa di studio (sul sito dell’Eni si troverà un lungo elenco di opere meritorie). Ma per la grande maggioranza degli abitanti del delta, la ricchezza del petrolio è scivolata via. Invece, per decenni l’industria ha disseminato bitume e impestato l’atmosfera, fino a devastare anche la pesca e l’agricoltura, cioè la sopravvivenza dei più.

“È tempo di dichiarare lo stato d’emergenza ambientale nello stato di Bayelsa, e in generale in tutto il delta del Niger”, dice un comunicato stampa firmato dal commissario all’ambiente del Bayelsa Iniruo Wills il 21 agosto.

Il comunicato riprende ciò che Wills aveva detto al funerale di una delle vittime di Azuzuama, il tecnico del suo dipartimento: che “un crimine ambientale contro l’umanità sta avvenendo nel delta del Niger, e tutti lo sanno”.

Il commissario del governo di Bayelsa accusa l’industria degli idrocarburi di “irresponsabilità”, denuncia una “consolidata cultura di impunità delle imprese del settore petrolifero”. Si spinge a dire perfino che bisogna “mettere tutte le opzioni sul tavolo, anche una moratoria sulla produzione petrolifera o la revoca o la sospensione delle concessioni” (non pare che sia la politica del governo federale, che anzi “non ha detto proprio nulla sul disastro di Azuzuama”, afferma Godwin Ojo).

Più concretamente, il governo del Bayelsa ha emanato nuove linee guida sulle operazioni per affrontare gli sversamenti di petrolio (il documento è intitolato Lives before oil – Vite, prima del petrolio). E sta negoziando con la Naoc i risarcimenti per le famiglie delle vittime.

“La compagnia non ha ancora neppure fatto un’offerta. In quei villaggi ci sono padri, vedove e orfani che hanno perso chi portava a casa uno stipendio”, fa notare Ojo. “Noi vogliamo che l’Agip si assuma le sue responsabilità”.

Godwin Ojo cita altri casi. Per esempio quello della comunità di Ikebiri, un altro territorio della comunità ijaw nello stato di Bayelsa, dove l’Agip lavora dal 1969. Incidenti con dispersione di petrolio anche qui sono ricorrenti, ma quello avvenuto nell’aprile 2010 ha letteralmente devastato quei villaggi che vivono di pesca, di raccolta dei frutti della palma, un po’ di coltivazioni. In questo caso la Naoc ha ammesso la sua responsabilità: “Ma rifiuta di pagare risarcimenti adeguati”, spiega Ojo.

Ikebiri potrebbe diventare una nuova grana legale per la Naoc, quindi per l’Eni. La compagnia afferma di aver bonificato l’area, ma gli abitanti negano, dicono che terreni e lagune sono ancora impregnati di bitume. La comunità si è rivolta a uno studio legale italiano, che ha provveduto a “mettere in mora” sia la Naoc sia l’Eni: ora sono in corso negoziati (su questo però all’Eni non commentano: dicono che riguarda la Naoc, non hanno informazioni).

“Chiediamo che l’Agip, come del resto tutte le compagnie petrolifere, rivedano le loro procedure di sicurezza e i metodi di bonifica”, insiste Godwin Ojo. Troppo casi di inquinamento, troppe vittime, “bisogna mettere la sicurezza delle persone e dell’ambiente prima della produzione. Gli standard di sicurezza che rispettano altrove, devono rispettarli anche nel delta del Niger”.

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