01 agosto 2014 17:34

Manifestazione di solidarietà alla Palestina, Bruxelles, 19 luglio 2014 (foto di Isabelle Marchal).

“Sa che nella rete di cui facciamo parte ci sono anche degli italiani?”. Mi accoglie così Serge Simon, togliendomi la prima domanda di bocca. La rete, European jews for a just peace, è stata creata nel 2002 dall’Union juive française pour la paix e oggi riunisce undici organizzazioni di dieci paesi europei. In Italia ha aderito la Rete-Eco (Ebrei contro l’occupazione), anche se finora sono state soprattutto singole personalità, da Gad Lerner a Moni Ovadia, ad alimentare il dibattito sull’adesione della maggior parte delle comunità ebraiche europee alle posizioni di Israele.

Mercoledì, sul manifesto, Luciana Castellina s’interrogava sul “silenzio del movimento pacifista” in Italia intitolando il suo editoriale “Perché Gaza è sola?”. In Belgio, invece, il movimento si fa sentire de settimane, e tra le voci presenti c’è quella dell’Union des progressistes juifs de Belgique (Upjb), voce di minoranza all’interno della comunità ebraica locale, ma con decenni di impegno alle spalle. Serge Simon rappresenta l’Upjb presso la rete European jews for a just peace.

L’Upjb è nata nel 1939 per venire in aiuto agli immigrati ebrei in Belgio, poi, dal 1967, ha preso posizione sul conflitto in Palestina. Come si spiega questo impegno di lunga data, soprattutto se paragonato a quello di altre associazioni di ebrei progressisti in Europa?

Alcune figure importanti, come quella di Marcel Liebman, professore all’Université libre de Bruxelles e autore di numerosi testi sul conflitto, hanno fortemente influenzato la nostra associazione. Inoltre l’Upjb in origine era legata al Partito comunista belga, da cui si allontanò nel 1969 rimanendo però fedele ai valori della sinistra.

Quante persone riunisce l’Upjb e in che rapporti è con le altre comunità ebraiche belghe?

L’associazione ha circa duecento membri, mentre i sostenitori sono varie migliaia. Siamo considerati i “diversi” della comunità ebraica belga. Molti degli attacchi, spesso violenti, che riceviamo via Facebook o email arrivano da ebrei. Non abbiamo mai voluto far parte del Ccojb (Comité de coordination des organisations juives de Belgique) per via del loro allineamento automatico sulle posizioni d’Israele. Noi riconosciamo il popolo ebraico, le sue radici, la sua storia, ma non la centralità di Israele. Non auspichiamo nemmeno la scomparsa di Israele. La nostra associazione riunisce sensibilità diverse, ma siamo tutti a favore del rispetto del diritto internazionale, contro la colonizzazione, contro le politiche dell’attuale governo israeliano. Come Upjb non saremo mai a favore di Hamas, perché siamo contrari alla violenza, ma riconosciamo che i razzi di Hamas nascono dalla disperazione causata da un embargo illegale e da decenni di occupazione.

Domenica scorsa avete partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Palestina che si è svolta a Bruxelles. Molti mezzi d’informazione hanno messo in primo piano i disordini. Quel è stata la sua impressione?

Ero nel servizio d’ordine dell’Upjb e ho visto che c’erano dei provocatori: dieci, venti persone davvero decise a fare casino e qualche decina di adolescenti che gli andavano appresso. Erano comunque pochi rispetto all’insieme dei manifestanti. È un peccato che i mezzi d’informazione si siano soffermati su questo aspetto. Non tutti, però: la principale emittente pubblica, la Rtbf, si è mostrata più equilibrata.

In Francia le autorità hanno vietato le manifestazioni a sostegno della Palestina dopo gli scontri scatenati – come si è scoperto in seguito – da alcuni esponenti della Lega di difesa ebraica. Questo movimento è presente anche in Belgio?

C’è qualche membro, ma sono davvero pochi. Non penso che oserebbero fare nulla, per una semplice questione di numeri. Detto ciò, siamo convinti che la comunità ebraica debba fare pulizia nelle proprie fila. Va bene dire “non importiamo il conflitto, è importante dialogare”, ma bisogna anche esortare alla calma. Il Ccojb lo fa, ma non sistematicamente.

Negli ultimi comunicati sembra soprattutto preoccupato dall’aumento dell’antisemitismo.

Sì, e ovviamente la cosa preoccupa anche noi. Pensi all’attentato del 24 maggio al Museo ebraico di Bruxelles… Mia madre esponeva lì e si trovava nel museo proprio in quel momento, in un’altra sala. Ma per noi è chiaro che è spesso lo stato di Israele a favorire l’amalgama tra antisionismo e antisemitismo.

Come altri paesi europei, il Belgio ha recentemente sconsigliato a imprese e cittadini di “partecipare ad attività economiche e finanziarie nelle colonie israeliane”. L’Upjb, però, insieme ad altre organizzazioni, chiede un passo ulteriore.

L’adozione di queste linee guida è una buona notizia, ma non basta, perché si tratta di misure non vincolanti. Altro esempio: questa settimana il ministro dell’economia Johan Vande Lanotte ha annunciato che d’ora in poi l’origine dei prodotti alimentari provenienti dalle colonie potrà essere indicata sulle etichette. Non essendo obbligatoria, la misura sarà sicuramente aggirata. Con altre organizzazioni abbiamo quindi lanciato una campagna, Made in illegality, per chiedere al Belgio e al resto dell’Unione europea d’interrompere tutti i rapporti economici e commerciali con le colonie israeliane. Allo stesso modo abbiamo aderito alla campagna Boycott Désinvestissement Sanctions, anche se su un punto rimaniamo divisi al nostro interno, quello del boicottaggio accademico.

Avete molti contatti con i movimenti progressisti in Israele?

Sì, con organizzazioni come Breaking the silence, B’Teselem, Women in black e altre ancora. Cerchiamo di aumentare la loro visibilità invitando i loro rappresentanti in Belgio. A settembre, per esempio, parteciperemo a una settimana di eventi organizzata dalla piattaforma Watermael-Boitsfort Palestine. I progressisti in Israele subiscono pressioni terribili in un clima di isteria collettiva, frutto di una politica di estrema destra che dura da dieci anni. Le persone ormai hanno interiorizzato i Leitmotiv del governo.

Siete in contatto anche con i progressisti ebrei negli Stati Uniti?

Molti di noi sono membri o sostenitori di Jewish voice for peace. Personalmente mi piacerebbe provare a lanciare un Jewish voice for peace Europe, perché lo considero un movimento molto efficace.

Sul piano politico che soluzione auspicate al conflitto israelo-palestinese? In un articolo del 2006 un altro membro dell’Upjb, Michel Staszewski, si diceva a favore della soluzione di uno stato unico ricollegandola al movimento Brit Shalom, che negli anni venti e trenta del novecento difendeva il principio dell’uguaglianza completa tra arabi ed ebrei in Palestina.

Anche su questo punto siamo divisi tra chi appoggia la soluzione a due stati e chi la soluzione dello stato binazionale. La politica di colonizzazione d’Israele oggi rende sempre più improbabile la soluzione a due stati, a meno di chiedere lo smantellamento totale delle colonie, cosa che Israele difficilmente accetterebbe. In ogni caso non sta a noi decidere il quadro delle negoziazioni, il nostro obiettivo è far rispettare il diritto internazionale e ricordare che Israele non parla a nome di tutti gli ebrei. Inoltre rifiutiamo di presentare questo conflitto come una guerra di civiltà. Per noi è un conflitto classico, territoriale. È evidente che Israele non è interessato alla sicurezza, è solo un pretesto, e infatti il governo ha rifiutato la tregua di dieci anni proposta da Hamas. Non è un caso se l’attacco è cominciato quando si annunciava un principio di riconciliazione tra Hamas e Al Fatah. Un governo di unità nazionale è proprio quello che Israele non vuole, come non vuole che la Cisgiordania si militarizzi e che i palestinesi facciano ricorso alla Corte penale internazionale.

Qualche giorno fa l’avvocato francese ebreo Arié Alimi ha difeso sul sito Mediapart la sua decisione di difendere due ragazzi accusati di “violenze antisemite”. A chi lo considera un esempio di “odio di sé ebraico” risponde: “Forse. Ma allora è odio di quel sé sconsideratamente collettivo, tribale”.

Sì, l’ho letta, è una bella lettera. È un tema complesso, di cui si possono analizzare diversi aspetti. Per alcuni sarà il genocidio, per altri la diaspora, per altri ancora - è il mio caso - il fenomeno che potremmo chiamare di “simmetrizzazione”: gli israeliani cominciano ad adottare metodi simili a quelli che hanno portato al ghetto di Varsavia.

Un’attivista che ho intervistato al suo ritorno da Israele mi raccontava che nei centri per richiedenti asilo le persone sono identificate con un numero.

Già, i numeri non sono ancora tatuati, ma è una somiglianza che fa paura.

L’8 luglio European jews for a just peace ha inviato una lettera a Catherine Ashton, affermando, tra le altre cose: “Non ci si può aspettare che tutti i palestinesi si comportino sempre come Gandhi o Martin Luther King di fronte alle continue provocazioni” [di Israele]. A dodici anni dalla nascita di questa rete europea, qual è il bilancio della vostra azione?

Abbiamo creato la coalizione per mostrare che gli ebrei progressisti in Europa non sono isolati. Non è stato semplice, perché i movimenti nei vari paesi non hanno esattamente le stesse posizioni. Siamo d’accordo sugli obiettivi, è sul metodo che discutiamo. Ma la cosa evolve in modo positivo, come dimostra la lettera a Catherine Ashton. Ora vorremmo portare la nostra azione a un livello superiore, magari aprendo un ufficio qui a Bruxelles.

Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin

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