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La lotta al traffico di migranti è solo un diversivo

Nel centro di detenzione di Tariq al Matar, nella periferia di Tripoli, in Libia, 27 novembre 2017. (Taha Jawashi, Afp)

Non era lo scopo della Cnn, ma con l’inchiesta sulle “aste di schiavi”, diffusa il 14 novembre, l’emittente statunitense ha reso un servizio ai governi e alle istituzioni europei, rafforzando l’idea che in materia di migrazione e asilo il problema principale sia il traffico di migranti. E non poteva succedere in un momento più propizio: alla vigilia del quinto vertice tra l’Unione africana e l’Unione europea, che si è svolto il 29 e 30 novembre ad Abidjan, in Costa d’Avorio.

Quelle immagini hanno infatti regalato un potente argomento ai leader europei, ormai abituati a sfruttare questo tipo di vertici per rafforzare l’orientamento repressivo delle loro politiche di migrazione e asilo (pensiamo alla conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan dell’ottobre 2016, in cui gli aiuti allo sviluppo sono stati usati come “incentivo positivo” per convincere il governo di Kabul a firmare a latere un’intesa sui rimpatri).

Un aspetto chiave della loro strategia è appunto la scelta strumentale di dare la priorità alla lotta contro i trafficanti di migranti. Un recente studio della Queen Mary university di Londra, intitolato Effects of Eu’s anti-smuggling policies on civil society actors e realizzato in collaborazione con Centre for european policy studies (Ceps) e l’ong Picum, s’interessa proprio all’elaborazione di questa strategia e alle sue conseguenze. Se in passato governi e istituzioni europee puntavano il dito principalmente contro l’immigrazione detta irregolare, dal 2015, anno dell’Agenda europea sulla migrazione, hanno aggiustato il tiro: i criminali non sono i migranti ma i trafficanti, che li derubano, li torturano e li mandano a morire nel loro tentativo di attraversare i confini europei.

È l’assenza di vie legali di accesso al territorio dell’Unione ad aver creato la trappola libica e le traversate mortali

Uno slittamento consolidato dal vertice di Abidjan, al termine del quale il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha dichiarato: “Dobbiamo fare sì che le persone bloccate in Libia e altrove possano tornare a casa in modo sicuro”, sorvolando sul fatto che l’obiettivo di quelle persone non è tornare nel paese che hanno lasciato ma raggiungere in modo sicuro l’Europa, e che è l’assenza di vie legali di accesso al territorio dell’Unione ad aver creato la trappola libica e le traversate mortali.

Nel comunicato diffuso il 1 dicembre i leader africani ed europei ribadiscono di voler “assicurare il benessere di migranti e rifugiati”, un impegno formulato fin dal primo giorno del vertice, in cui è stata annunciata la creazione di una “task force congiunta” contro le reti di trafficanti, per “salvare e proteggere le vite di migranti e rifugiati lungo le rotte e in particolare in Libia”.

Come osserva lo studio della Queen Mary university, dal 2015 sono già state adottate diverse misure per contrastare questo traffico: il rafforzamento del mandato dell’agenzia Frontex e delle operazioni navali Triton e Poseidon, la creazione di un Centro europeo contro il traffico di migranti dell’Europol, il lancio dell’operazione militare Eunavfor Med Sophia, la presenza di funzionari delle istituzioni europee negli hotspot in Italia e in Grecia per raccogliere informazioni sui trafficanti.

Concretamente i risultati sono stati pochi (e in alcuni casi disastrosi, come dimostra lo scandaloso processo contro Medhanie Tesfamariam Berhe, vittima di uno scambio di persona), ma si è radicata l’idea che la lotta al traffico di migranti sia di fondamentale importanza.

L’attacco alle ong
Secondo gli autori della ricerca, a subire gli effetti di queste misure è stata soprattutto la società civile, in particolare le ong attive al fianco dei migranti, oggetto di tre modalità di policing o controllo: l’intimidazione e il sospetto (alimentati anche da alcuni mezzi d’informazione); il disciplinamento (che si è concretizzato, per esempio, nel codice di condotta elaborato per le ong che prestano soccorso nel Mediterraneo); e i procedimenti penali, resi possibili dalle norme europee in materia di favoreggiamento dell’immigrazione detta irregolare, che lasciano agli stati membri ampia libertà nella definizione del reato (sia riguardo alla necessità di constatare o meno un profitto economico sia riguardo all’esenzione prevista per “motivi umanitari”).

Sostenendo di lottare contro il traffico di migranti, gli stati europei sono così riusciti a gettare un’ombra sulle ong, scomodi testimoni delle morti e delle sofferenze provocate dalla chiusura delle frontiere dell’Unione. Ma l’obiettivo principale rimane quello di ostacolare i movimenti delle persone in viaggio verso l’Europa, trattenendole sempre più a sud: dal Mediterraneo ai campi di detenzione in Libia, e ora dai campi libici verso i loro paesi di origine. Uno dei grandi successi dei governi europei al vertice di Abidjan è stato proprio quello di presentare come una partnership tra eguali la collaborazione dei paesi africani al piano urgente di rimpatrio dei loro cittadini detenuti nei campi libici, sempre in nome della lotta contro i trafficanti.

Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea-Conakry, Marocco, Nigeria, Senegal: sono alcuni dei paesi che negli ultimi giorni hanno avviato o annunciato delle operazioni di rimpatrio dei loro cittadini dalla Libia. I programmi di ritorno detto volontario, gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), esistono da tempo, ma stiamo per assistere a un’impennata. Secondo la Bbc, l’Oim conta di rimpatriare quindicimila persone entro Natale, mentre il quotidiano belga Le Soir evoca un “obiettivo ufficioso” più generico (tra le centomila e le duecentomila persone da rimandare in patria).

Tra le persone già rimpatriate c’è il camerunese Emile Monkam che, intervistato dall’emittente televisiva Africa News, ha lanciato un appello: “Non prendete la rotta libica”. Sono già alcuni mesi, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che i viaggi verso l’Europa si stanno diversificando. Come sempre quando i governi europei decidono di chiudere una rotta, se ne riaprono altre. E il traffico di migranti continua a prosperare.

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