In parlamento in questi ultimi anni si sono moltiplicati partiti, sigle e gruppi politici, frutto di scissioni e fusioni di quelli approdati alle camere con le elezioni del 2018. In questa legislatura si sono anche infoltiti in modo anomalo i gruppi misti di camera e senato, che vantano numeri pari o addirittura superiori a quelli di partiti radicati nella società.

La mobilità dei parlamentari da un gruppo politico all’altro non è certo un fatto nuovo.
Spesso, chi cambia collocazione viene liquidato come voltagabbana, ma il cambiare in sé non rappresenta per forza un malfunzionamento della politica. Si pensi ai casi nei quali un partito decida di appoggiare un governo contro il quale si era battuto in campagna elettorale. In questi casi singoli parlamentari dissenzienti possono decidere di abbandonare il partito, e quindi il gruppo parlamentare. Ci possono essere insomma motivazioni legittime dietro a un cambio di casacca. E, più in generale, si deve considerare che la libertà di ciascun eletto anche nei confronti del proprio stesso partito – il cosiddetto divieto del vincolo di mandato – è uno dei fondamenti delle democrazie parlamentari. Quello che però impressiona è la consistenza che questo fenomeno ha raggiunto nelle legislature più recenti, e le ragioni spesso opache su cui i cambi di casacca si fondano.

Tra le ragioni che spiegano questo fenomeno, la principale ha a che fare con la trasformazione subìta dalla politica con l’avvento della cosiddetta seconda repubblica, all’inizio degli anni novanta del novecento. È allora che i partiti popolari fondati sulle idee scompaiono e vengono sostituiti da organizzazioni simili a comitati elettorali raccolti attorno alla figura di un leader carismatico. E di quei leader spesso prendono perfino il nome. Venute meno le idee, l’obiettivo per cui si agisce non è più l’affermazione di un progetto ideale ma la semplice gestione del potere. Allo stesso tempo, lo scontro politico si trasforma in una perenne campagna elettorale dai toni spicci e che sconfinano spesso nell’attacco personale.

Tutto ciò ha funzionato per un po’, sollecitando anche nuove forme di partecipazione dei cittadini, ma aprendo anche la strada al populiusmo. Da tempo, però, l’aver ridotto la politica quasi esclusivamente alla comunicazione, e il ricorso a toni destinati per lo più a esaltare le proprie leadership e non progetti politici, non paga più. Partiti e movimenti non riescono più a mobilitare neppure la propria base, mentre molti elettori semplicemente si allontanano da ogni forma di partecipazione. La dimostrazione sta nelle percentuali di astensionismo che hanno dimensioni tali da mettere in crisi la legittimazione della rappresentanza politica democraticamente eletta.

Nessun partito sembra però voler fare davvero i conti con questa crisi, anche perché significherebbe assumersi una responsabilità storica, della quale appaiono ancora inconsapevoli. Ma alla realtà è comunque difficile sfuggire: presentandosi senza idee, alla fine si resta anche senza voti.

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