Il carcere non è mai stato un tema da campagna elettorale. Ma in quella che si avvia alla conclusione il silenzio è stato “pressoché assoluto”, nonostante gli spaventosi numeri sui suicidi: “57 nei primi otto mesi dell’anno, quattro in meno del totale nei dodici mesi del 2021, a cui si aggiungono 19 decessi ‘per cause da accertare’”. Sono parole di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, cadute nel vuoto o quasi, come molte altre.

In campagna elettorale si continua a ignorare l’esistenza dei detenuti, così come non si parla di giustizia né, in generale, della vita quotidiana delle persone. Non una parola o quasi viene pronunciata su scuola e sanità, se non per formule stereotipate, mentre il dibattito pubblico è monopolizzato dalle questioni che riguardano il potere, a partire dalle alleanze presenti e future tra leader e partiti, e quasi sempre senza che ne siano spiegati l’orizzonte politico e gli obiettivi.

“La politica attuale pecca di irrealtà”, ha scritto il giurista Sabino Cassese sul Corriere della Sera, poiché “fa programmi che sono tutti al presente, senza prospettare un futuro. Elenca promesse, ma non indica tempi e costi”. Così, alla fine produce promesse elettorali molto simili tra loro, tanto che “un cittadino che leggesse i diversi programmi elettorali, senza conoscerne la provenienza, potrebbe con molta difficoltà stabilire da quale forza politica sono stati scritti”.

Più dura è stata la filosofa Giorgia Serughetti, che sul quotidiano Domani ha osservato come “i partiti presentano tutti i vizi che ne hanno decretato la crisi degli ultimi decenni: la deriva oligarchica, l’irresponsabilità politica, il personalismo, il vuoto di visione, la convergenza programmatica che li rende, sotto diversi aspetti, indistinguibili”. È difficile in questo modo catturare l’attenzione dei cittadini. Ma forse gli obiettivi dei partiti finora sono stati soprattutto altri.

Stefano Feltri, direttore di Domani, sostiene che stiano fruttando la campagna elettorale “per contendersi il consenso dell’establishment, non quello degli elettori”. Lo dimostrerebbe la recente partecipazione dei leader a confronti pubblici – da quello di Rimini di Comunione e Liberazione al forum Ambrosetti di Cernobbio – i cui “contenuti sono irrilevanti, tanto che la performance è misurata come in un talent show dall’applausometro” da platee formate da “gruppi organizzati portatori di interessi particolari”. E questo, scrive Feltri, “va soprattutto a beneficio del primo partito italiano. Quello degli astenuti”.

Voto utile

Anche così si spiegano le previsioni sull’affluenza, mai così allarmanti. A ormai pochi giorni dal voto del 25 settembre, il dato sull’astensionismo sembra infatti resistere intatto, oscillando a seconda delle rilevazioni fra il 35 e il 40 per cento, inclusi gli indecisi. Questo fa apparire tendenzialmente meno solida la percentuale di consenso attribuita finora ai singoli partiti. Non a caso molti – come Antonio Polito sul Corriere della Sera o Michele Ainis su Repubblica – in questi giorni si stanno interrogando su quei numeri e sulla possibilità che il voto riservi sorprese o che comunque smentisca, come in passato è già accaduto molto spesso, le previsioni della vigilia. Ma questa incertezza sui numeri autorizza anche i dubbi sulle strategie elettorali che su quei numeri si sono basate finora.

Questo spiega in parte – e non solo perché il momento del voto è ormai vicino – la forte accelerazione che ha avuto negli ultimi giorni la campagna elettorale, che ha visto anche un parziale cambio di strategia di molti partiti.
Oggi il voto che le forze politiche cercano con maggior determinazione, infatti, non è più quello da sottrarre al campo avversario, ma è quello dei partiti che militano all’interno del loro stesso schieramento. Di fatto un tentativo di cannibalizzare i compagni di strada, e perfino gli alleati, che non viene più neppure mascherato.

D’altra parte, se non è possibile prevedere cosa faranno davvero gli elettori che ancora a pochi giorni dal voto si dichiarano astenuti o indecisi, e se a questo si aggiunge la ragionevole certezza che a vincere sarà comunque la destra, l’elettorato più facilmente contendibile diventa quello di area, ossia quello disponibile all’interno del proprio stesso schieramento. E questo accade sia nel campo della destra sia in quello del centrosinistra.

Come era prevedibile, tutto ciò si traduce oggi in una richiesta pressante di voto utile, ossia nella richiesta del partito più forte di uno schieramento di essere votato per evitare di disperdere il voto scegliendo i partiti minori della coalizione. È una necessità contingente, ma la deriva verso la logica del cosiddetto male minore è ormai un elemento strutturale delle strategie politiche nella seconda repubblica, soprattutto nel centrosinistra.

Anche a destra la competizione si sta sviluppando sempre più tra i leader

Non stupisce, quindi, che in questi giorni a parlare in modo esplicito di voto utile, e a farne argomento centrale di campagna elettorale, sia stato proprio il Partito democratico (Pd), con il segretario Enrico Letta. Tuttavia, anche per i modi e i tempi, questa accelerazione denuncia soprattutto gli errori commessi finora dallo stesso Pd. E sono stati tanti.

Puntare tutto sul pericolo del ritorno del fascismo e l’insistenza iniziale, politicamente sterile, sulla cosiddetta agenda Draghi, hanno confermato la sensazione di un partito senza una fisionomia definita, e per questo capace di esistere soprattutto in relazione con il potere.

Nel frattempo, il Movimento 5 stelle è riuscito ad accreditarsi come forza di sinistra, anche perché una parte dello stesso Pd ha contribuito a indicare Giuseppe Conte come punto di riferimento dei progressisti, nonostante la storia politica del movimento racconti tutt’altro. Da qui la necessità di quesi giorni del Pd di coprirsi a sinistra, che traspare anche da un’intervista significativamente rilasciata da Letta al Manifesto. Qui Letta attacca i cinquestelle per il loro tentativo di occupare lo spazio a sinistra, e poi attacca anche Carlo Calenda e Matteo Renzi che, sul fianco destro, stanno compiendo un’analoga operazione di erosione del voto democratico.

Anche a destra la competizione da qualche giorno si sta sviluppando sempre più tra i leader della coalizione. La rivalità tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni per la leadership della destra non è una novità, ma il consolidarsi del primato di Meloni sta portando Salvini a prendere sempre più spesso posizioni molto diverse da lei, e in modo sempre più esplicito e rumoroso.

Così, mentre Meloni si sforza di accreditare il proprio atlantismo per rassicurare chi in Italia e all’estero coltiva dubbi sul suo essere adatta a governare il paese, e quasi sposa l’agenda Draghi, Salvini apre il dibattito sull’efficacia delle sanzioni contro la Russia, costringendo l’alleata a reagire con nettezza.

Per il bene dell’Italia

Ma a destra, lo scontro tra i leader ha a che fare soprattutto con un eventuale incarico alla presidenza del consiglio. Secondo i patti interni alla coalizione, dovrebbe spettare a chi otterrà più voti, e quindi secondo i sondaggi a Meloni. Ma alcuni osservatori pensano che un’ipotesi del genere non sgradita soltanto nel centrosinistra: l’inasprimento dei toni tra Salvini e Meloni negli ultimi giorni starebbe lì a confermarlo.

Meloni, insomma, potrebbe vincere le elezioni ma perdere il governo, anche perché il sistema elettorale non prevede automatismi di questo genere. D’altra parte, secondo il Foglio, Meloni “non si fida di Matteo Salvini” ed “è convinta che possa tradirla in corso d’opera”, così che alla fine “potrebbe rinunciare a Palazzo Chigi”.

Ma c’è anche chi ritiene che sarà proprio la Russia il terreno sul quale potrebbe entrare in crisi il rapporto tra gli alleati, una volta al governo. E chi, come Dagospia, si spinge a ipotizzare un nuovo governo di unità nazionale, che potrebbe nascere anche se Lega e Forza Italia andassero male alle elezioni. Guido Crosetto, cofondatore di Fratelli d’Italia e ascoltato consigliere di Giorgia Meloni, in un’intervista ad Avvenire ha a sua volta affermato: “Per il bene dell’Italia, Giorgia, se servisse in un momento particolarmente difficile o tragico, parlerebbe con Letta e chiamerebbe Letta senza nessuna esitazione, così come Conte o Calenda. Se è in gioco il destino dell’Italia, tutti devono collaborare. Penso che i primi ad averne piena consapevolezza siano Mattarella e Draghi”.

Sono per il momento soltanto voci, certo. Sono analisi e previsioni. Pronte a essere smentite come anche i sondaggi elettorali.

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