Se davvero per la destra il presidenzialismo è una questione ideologicamente così importante, addirittura identitaria, è però tra i leader della stessa destra che se ne trovano i testimonial meno convincenti. Questo succede soprattutto a causa di un modo di intendere la rappresentanza istituzionale che spesso tende a confondere, con un’inquietante inconsapevolezza, potere, partito e istituzioni.

Si prenda per esempio Ignazio la Russa. Il presidente del senato nei giorni scorsi ha spiegato di non essere andato a un incontro tra Sami Modiano, sopravvissuto alla shoah, e gli studenti di un liceo romano “per non dare neanche il minimo accenno di politicizzazione di un tema che deve appartenere a tutti”. L’incontro si era svolto nei giorni che hanno preceduto la celebrazione del giorno della Memoria e La Russa, con quella sua dichiarazione, ha mostrato ancora una volta di avere le idee un po’ confuse sulla natura del ruolo di presidente del senato, che pure riveste ormai da alcuni mesi.

Non intervenire a un’iniziativa di natura istituzionale per evitare di politicizzarla, infatti, non ha alcun senso se si rappresenta una carica istituzionale che svolge una funzione di garanzia democratica, come è appunto la presidenza del senato. Questo, naturalmente, a meno che non si sia convinti che quella carica sia invece una carica politica, e quindi di parte. Di questa bizzarra idea, a quanto pare, sembra essersi convinto La Russa, che peraltro aveva iniziato a ricevere critiche già nei giorni successivi alla sua elezione per il fatto di comportarsi più da leader politico che da rappresentante di una istituzione.

Si ricorderanno forse le polemiche per la sua partecipazione a incontri di partito, o quelle innescate da alcune sue dichiarazioni sulle trattative in corso nella maggioranza per dare vita al governo, o anche sui rapporti tra le forze politiche della stessa maggioranza. Nonostante le molte critiche dovute alla inopportunità di quei comportamenti, La Russa ha sempre tirato dritto, come se niente fosse. E così, per esempio, in tempi più recenti ha concesso un’intervista al Corriere della Sera per annunciare, lui presidente del senato, che il governo non avrebbe posto vincoli a tutela dello stadio milanese di San Siro, che potrebbe essere abbattuto in vista della costruzione di un nuovo stadio. Poi, per non farsi mancare niente, ha celebrato i 76 anni dalla fondazione del Movimento sociale italiano (Msi). In questo caso si è attirato anche le critiche dell’Unione delle comunità ebraiche italiane la cui presidente Noemi Di Segni ha ricordato che l’Msi, “dopo la caduta del regime fascista, si è posto in continuità ideologica e politica con la Rsi, governo dei fascisti irriducibili che ha attivamente collaborato per la deportazione degli ebrei italiani”, sottolineando quanto sia “grave che siano i portatori di alte cariche istituzionali” a legittimare certi “sentimenti nostalgici”. Ma non è ancora tutto.

Infatti in questi giorni La Russa è anche intervenuto nella campagna elettorale per le elezioni regionali in Lombardia. E, a un giornalista che gli chiedeva in che veste fosse presente a una manifestazione di partito, ha risposto: “Metti in po’ quel che cazzo vuoi tu”, per poi ripensarci e specificare di essere lì come presidente del senato. Insieme ai comportamenti, insomma, c’è anche il linguaggio a raccontare come la destra fatichi ad assumere una postura istituzionalmente accettabile. E questo anche quando la carica occupata legittimerebbe fino in fondo atteggiamenti di parte. È il caso per esempio della presidenza del consiglio, ruolo che consente atteggiamenti e linguaggi più coloriti, per così dire, nel presentarsi di fronte ai cittadini, dei quali l’attuale capo del governo Giorgia Meloni fa largo uso.

Tuttavia, leggere espressioni come: “Spiace deludere, ma il clima in consiglio dei ministri è ottimo” in una nota proveniente da palazzo Chigi fa comunque una certa impressione, proprio a causa del tono usato: un tono che potrebbe andare bene in una nota di partito, ma diventa imbarazzante se quel documento proviene dalla presidenza del consiglio. Ignazio La Russa resta comunque uno dei leader della destra a farsi notare di più anche sotto il profilo del linguaggio. Basti ricordare l’ampio uso del verbo “rosicare” riservato ai suoi avversari, o il modo con cui il presidente del senato ha liquidato i propri critici intervenendo alla trasmissione televisiva Controcorrente: “Qual è il problema? Che La Russa è di destra? Gli brucia che c’è uno di destra a presidente del senato? Se gli brucia se lo facciano spegnere il fuocherello”.

La seconda repubblica

D’altra parte, l’unico argomento di una qualche serietà che La Russa ha utilizzato finora per difendere se stesso è che anche i suoi predecessori hanno fatto attività politica dopo l’elezione alla presidenza di una delle camere. Ed è vero, almeno se si considerano gli anni della cosiddetta seconda repubblica. Fino agli anni novanta del novecento, infatti, le cose funzionavano diversamente, ed era consuetudine che la presidenza di un ramo del parlamento, di norma la camera dei deputati, fosse occupata da un esponente dell’opposizione. Poi, negli ultimi trent’anni è cambiato tutto. La maggioranza si è presa entrambe le presidenze, di solito eleggendo alla camera il leader del secondo partito della coalizione, dando così a esso una rappresentanza stabile nelle istituzioni a discapito delle opposizioni.

Si pensi per esempio a Fausto Bertinotti, a Pierferdinando Casini e, soprattutto, a Gianfranco Fini. In questo modo le istituzioni hanno iniziato a perdere autorevolezza man mano che venivano trasformate in tribune politiche. Anche questo processo ha contribuito alla crisi politica e istituzionale che ha attraversato la seconda repubblica. E stupisce che La Russa non sembri rendersene conto, e che anzi utilizzi proprio questi esempi per giustificare i propri comportamenti che quella crisi possono solo aggravare.

Comunque sia, da tutti questi esempi emerge con sufficiente chiarezza una certa inadeguatezza della destra nel rivestire ruoli di così alta rappresentanza, e una difficoltà nel considerare le istituzioni come patrimonio comune dell’intera comunità nazionale. Sembra invece prevalere la tendenza a impossessarsi delle istituzioni, piegandole alla propaganda, arrivando perfino a liquidare gli avversari con irrisione da quelle tribune che dovrebbero invece svolgere un ruolo di garanzia. E se questo è il modo in cui la destra intende la rappresentanza democratica, emerge un serio problema che potrebbe aggravarsi se introdotto all’interno di un sistema presidenziale. Su questo punto, peraltro, presto potrebbero esserci novità.

Il 27 gennaio infatti si sono concluse le consultazioni che la ministra per le riforme istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati ha condotto nell’ultimo mese con tutte le forze politiche. A breve dovrebbe incontrare la presidente del consiglio Meloni per stabilire come andare avanti con le riforme, se direttamente in parlamento o se, per esempio, creando una commissione bicamerale. I tempi saranno comunque lunghi, trattandosi di una riforma costituzionale. Quanto invece al contenuto, il confronto si è svolto finora attorno alle ipotesi di presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato.

Una riforma rischiosa

Nei sistemi presidenziali, come quello statunitense, e semipresidenziali, come quello francese, il presidente della repubblica viene eletto direttamente dai cittadini, possiede poteri propri e può arrivare a guidare il governo in prima persona. Inoltre, resta in carica per un periodo di tempo determinato proprio in virtù dell’elezione diretta che è fonte autonoma di legittimazione politica. Il premierato, che ha nel sistema britannico uno dei suoi modelli più rappresentativi, vede invece un rafforzamento del ruolo del capo del governo.

La destra preferirebbe procedere con una riforma in senso presidenzialista o semipresidenzialista. Le opposizioni preferirebbero intervenire sulla figura del capo del governo, senza arrivare a prevederne l’elezione diretta. Da qui probabilmente ripartirà la discussione. Ma è proprio l’elezione diretta uno dei nodi che potrebbero essere più difficili da sciogliere, poiché questo per la destra resta un punto difficilmente negoziabile. Più in generale, poiché l’obiettivo è di rafforzare e rendere più stabile il potere esecutivo, sarà indispensabile realizzare un cospicuo sistema di contrappesi per evitare che troppo potere si concentri nelle mani di una sola persona. Si dovrà insomma rimettere mano all’intera architettura istituzionale.

Inoltre, questa riforma, che è una bandiera di Fratelli d’Italia, si incrocia con quella che prevede la cosiddetta autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario, che è invece una bandiera della Lega. Il ministro per gli affari regionali, il leghista Roberto Calderoli, il 31 gennaio dovrebbe portare il tema in preconsiglio dei ministri. Ma già da tempo in molti – opposizioni, amministratori locali e da ultima anche Confindustria – hanno manifestato più di una preoccupazione per le conseguenze che questa riforma potrebbe avere sull’unità sostanziale del paese.

Si tratta di rischi per ora del tutto teorici, e che vanno comunque considerati anche all’interno di una questione di natura politica più generale. Infatti, per quanto nel realizzare queste riforme si proverà a tenere in equilibrio il sistema, blindando unità del paese e rappresentanza democratica, già adesso la presidenza della repubblica è rimasta l’unica carica che a tutti gli effetti si colloca al di sopra delle parti, dal punto di vista politico e simbolico. Questa solitudine è una delle conseguenze più negative di quel processo che ha visto le presidenze delle camere mettersi a fare politica. Una riforma presidenziale trasformerebbe anche la presidenza della repubblica in una carica politica. Ogni palazzo, ogni luogo, ogni potere della repubblica diventerebbe insomma di parte. Non ci sarebbero più né porti franchi né camere di compensazione né arbitri, salvo forse la corte costituzionale.

Considerata la storia italiana degli ultimi trent’anni e il ruolo fondamentale svolto dalla presidenza della repubblica nel tenere unito il paese, e assodato che questo sforzo ha avuto successo in virtù della capacità del Quirinale di rappresentare l’unità di tutti i cittadini, non è del tutto evidente il vantaggio di una operazione come quella che ha in mente la destra sul presidenzialismo. E, anzi, è la stessa classe dirigente della destra, con i propri comportamenti quotidiani, a renderne evidenti tutti i rischi per il paese.

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