L’idea che la destra radicale ora al governo sembra avere del potere si sta svelando sempre di più per quello che è: un brutale esercizio di solipsismo politico. La voglia di riscatto non spiega da sola quello che sta succedendo. Non siamo più di fronte a una lottizzazione, né alla selezione della classe dirigente mediante spoils system, ma a un’occupazione totale del potere, necessaria per costruire da zero un’egemonia culturale e politica che investa e poi governi l’intero apparato statale, dalle burocrazie fino ai vertici delle grandi aziende pubbliche.

Siamo insomma alla costruzione di un nuovo blocco di potere che sembra già non tollerare più controlli, tanto che nel mirino è finita perfino la corte dei conti.

Con il cosiddetto decreto pubblica amministrazione, che è in discussione proprio in queste ore, potrebbe infatti essere rivisto il sistema di controllo della corte sullo stato di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Tutto nasce dal fatto che la magistratura contabile di recente aveva rilevato dei ritardi nella gestione di alcune parti dello stesso Pnrr, scatenando l’irritazione del governo. A ciò si aggiunge poi una possibile proroga del cosiddetto scudo erariale, che limita le contestazioni per danno erariale ai casi di dolo o inerzia.

Significativamente, negli stessi giorni la destra ha mostrato la propria contrarietà alla nomina del governatore Stefano Bonaccini a commissario per l’emergenza causata dall’alluvione in Emilia-Romagna. E questo nonostante il fatto che perfino alcuni presidenti di regione di centrodestra – come il ligure Giovanni Toti e il calabrese Roberto Occhiuto – abbiano osservato che sarebbe meglio avere in quel ruolo qualcuno che conosca bene il territorio, come è appunto un presidente di regione. Ha provocato un diffuso sconcerto anche il fatto che la destra abbia deciso di aprire questa partita mentre intere zone della Romagna erano ancora sott’acqua. Così alla fine si è affermata la sensazione che l’obiettivo della destra non sia tanto trovare una persona particolarmente competente ma nominare commissario un proprio esponente per gestire direttamente l’emergenza, e con essa anche l’ingente quantità di denaro che servirà per affrontarla. Si tratta di alcuni miliardi di euro. Di fatto un mini Pnrr.

Il consenso serve per arrivare al potere, ma da solo non basta per mantenerlo

Come è noto, infatti, chi gestisce le risorse gestisce il potere. Poterlo fare direttamente, gestendo l’emergenza in Emilia-Romagna, e poterlo fare senza controlli o con controlli più laschi, riducendo le competenze della magistratura contabile, significa gestire un potere senza incontrare limiti, per quanto possibile. E sul territorio può trasformarsi molto rapidamente anche in nuovo consenso. Ma non c’è solo questo.

Il consenso infatti è la base di ogni ragionamento politico. E, peraltro, quello di cui gode la destra continua a essere alto, come dimostra l’esito delle recenti elezioni amministrative. Il consenso serve per arrivare al potere, ma da solo non basta per mantenerlo. Figurarsi poi se basta per ridefinirlo in funzione di quella sorta di rivoluzione culturale che hanno in mente Giorgia Meloni e il suo circolo politico. Per consolidarlo occorre anche saper governare. Dunque, mandare avanti il paese e riformare ciò che si deve, terreno sul quale per il momento il governo non sta brillando.

Governare, diceva Giulio Andreotti, significa soprattutto nominare. Andreotti del potere conosceva ogni piega, non solo per essere stato per ben sette volte presidente del consiglio. Miguel Gotor su Robinson di Repubblica raccontava già nel 2020 delle centinaia di promozioni “in ogni ambito della vita del paese, cui il presidente del consiglio […] apponeva il suo placet, rimanendo apparentemente neutrale, se non addirittura indifferente”, in virtù del proprio “rispetto per la burocrazia ministeriale e i suoi criteri di avanzamento interni”. Oggi il clima sembra un po’ cambiato. Guido Crosetto, per esempio, intervistato dal Messaggero poco dopo essere diventato ministro della difesa, affermò la necessità di usare il machete “contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no”. Si riferiva allo sviluppo del paese, ma il tono e il linguaggio utilizzati destarono scalpore.

Pur senza usare il machete, nelle ultime settimane il governo ha comunque deciso decine di nomine in ogni settore, molte delle quali per mandati scaduti o comunque in scadenza. Da questa ondata sono stati investiti i vertici di società ed enti pubblici come Enel, Eni, Leonardo, Poste, Terna, Inps e Inail, oltre a quelli di polizia e guardia di finanza. E molte altre nomine si dovranno fare nei prossimi mesi. Finora, al di là delle fisiologiche proteste delle opposizioni, tutto è avvenuto passando attraverso un duro scontro interno alla stessa maggioranza. Le polemiche che ne sono derivate hanno occupato per settimane le cronache quotidiane, che hanno puntualmente dato conto delle modalità scelte dalla destra per costruire il proprio nuovo potere.

Anche in Rai sono cambiati i vertici aziendali. E sono cambiati anche quelli delle testate giornalistiche. Per chi governa l’importanza della Rai sta non tanto nella possibilità di gestire una grande industria culturale, quanto in quella di controllare la narrazione sul potere, e favorire così le condizioni affinché l’orizzonte culturale e politico di chi siede al governo si affermi. Una volta, si era nei primi anni novanta del novecento, Bruno Vespa disse che la Democrazia cristiana era il suo editore di riferimento. È sempre andata così. E, a giudicare da come si è conclusa la tornata di nomine, le cose non cambieranno neppure questa volta.

E dire che Giorgia Meloni, nel comizio con il quale a Catania ha chiuso la recente campagna elettorale per le amministrative, aveva proclamato di voler puntare a “un sistema meritocratico e plurale che rappresenti tutti, che dia spazio a tutti e soprattutto a quelli che se lo meritano, non in base alla tessera di partito che hanno in tasca”. Tuttavia, opposizioni a parte, anche un intellettuale che forse in altri tempi si sarebbe definito di area come lo storico Franco Cardini, intervistato dalla Stampa ha affermato: “Troppa lottizzazione”. E poi ha aggiunto: “L’occupazione di sedie e strapuntini è un sistema verso cui il governo non mostra discontinuità”.

La situazione ha raggiunto un punto tale che di recente perfino Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista del Corriere della Sera, ha avvertito la destra che deve decidere “se vuole rappresentare solo il potere oppure un autentico motore di cambiamento. Ricordando allora, però, che ogni autentico cambiamento non comincia dal numero degli uscieri o dei redattori di un Tg che si riesce a nominare. Comincia dalle idee”. Sarà forse che di questi tempi le idee scarseggiano e le poltrone da occupare no, ma per il momento l’unica idea che la destra sia apparsa capace di esprimere è quella dell’occupazione sistematica di ogni posto disponibile, nonostante i proclami.

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