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Prima la pandemia, poi la guerra, la crisi energetica ed economica, i disastri climatici, e infine la minaccia atomica: sono tanti gli eventi che stanno mettendo alla prova il nostro equilibrio psichico e che rischiano di compromettere il benessere mentale di una larga parte della popolazione.

“Nel lockdown dovevo gestire la casa e, contemporaneamente, fare smart working perché il mio ex si è trasferito all’estero e le nostre due figlie adolescenti vivono con me”, racconta Francesca, una delle molte madri single che durante la pandemia ha dovuto affrontare le difficoltà di un nucleo familiare monogenitoriale. Ha cominciato a soffrire d’ansia e si è rivolta a un’associazione per avere supporto psicologico e capire come gestire la relazione con le figlie che continuavano a ripetere di voler vivere con il padre, visto che lei era diventata “quella che le obbligava a seguire le lezioni online”. “È molto dura: non riesco più a essere una guida per loro, non riesco ad aiutarle né ad aiutare me stessa. Mi sembra un circolo vizioso che non riesco a interrompere”.
Secondo l’ultimo rapporto sulla salute mentale dell’Organizzazione mondiale della sanità, nel mondo una persona su otto convive con un disturbo psichico. In Italia si parla di circa 17 milioni di persone, un numero cresciuto negli ultimi anni: una ricerca dell’Istituto superiore di sanità (Iss) mostra che, durante il lockdown, l’87 per cento delle persone sopra i 16 anni ha sofferto di stress psicologico. Ad aumentare sono state soprattutto l’ansia e la depressione, rispettivamente dell’83 e del 72 per cento. Subito dopo ci sono i disturbi nell’adolescenza (più 62 per cento), le difficoltà relazionali (più 61 per cento), i problemi di coppia e con i figli (più 49 per cento) e i disagi scolastici (più 43 per cento). Sono state particolarmente colpite le donne e le persone disoccupate, ma anche e soprattutto i più giovani.

Adolescenza e disagio

Daniel, 16 anni, non ha mai conosciuto suo padre. Si è trasferito in Italia con la madre da bambino, ma non è mai riuscito a socializzare. È introverso, parla poco e sfugge agli sguardi, nascondendosi sotto al cappuccio della sua felpa. Durante il lockdown si è incupito, era sempre triste e i compagni di classe hanno allertato l’insegnante, temendo che potesse compiere un gesto estremo.

Circa la metà di tutti i disturbi mentali si manifesta prima dei 18 anni e con la pandemia il quadro è peggiorato: in Italia sono raddoppiati i casi di malessere emotivo nella fascia d’età tra i 14 e i 19 anni, per un totale di circa 220mila giovani con un basso punteggio dell’indice di salute mentale, elaborato dall’Istat sulla base delle risposte date a cinque specifiche domande.

Daniel è stato accompagnato a un Punto luce, uno spazio educativo gestito dall’organizzazione non governativa Save the children, dove ha cominciato un percorso psicologico e si è messo a suonare la chitarra. La musica lo ha portato a trovare un suo linguaggio, diverso da quello verbale, per comunicare con gli altri. Ma non sempre questo tipo di storie finisce così.

La Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza ha rilevato che nei primi nove mesi del 2021 i ricoveri negli ospedali di bambini e adolescenti per disturbi psichiatrici avevano superato il totale del 2019. “Dopo due anni di pandemia, sentiamo spesso dire che le ragazze e i ragazzi ‘non stanno bene’”, dice Daniela Fatarella, direttrice di Save the children Italia, presentando l’edizione 2022 dell’Atlante dell’infanzia a rischio. “Sempre più giovani sono depressi, intrappolati in qualche forma di dipendenza, apatici, autolesionisti; o all’estremo opposto esaltati dalle dinamiche del ‘branco’, incapaci di empatia, capaci di tutto. In realtà, è il mondo degli adulti a essere andato a pezzi, lasciando i ragazzi privi di coordinate”.

Da aprile del 2020 Save the children ha attivato un servizio di sostegno psicologico a distanza per giovani e famiglie. “Come sempre, chi ha sofferto maggiormente sono stati i più vulnerabili, cioè chi possiede meno risorse economiche, sociali e culturali”, spiega Erika Russo, responsabile dell’area psicosociale e case management di Save the children Italia. “Molti ragazzini non volevano più uscire di casa, e dopo tanti anni hanno ricominciato a dormire con i genitori e a fare la pipì a letto, segno dell’impossibilità di controllare una situazione troppo grande e spaventosa. Gli stessi fenomeni di bullismo, violenza e vandalismo sono manifestazioni estreme di una sofferenza diffusa”.

I problemi di salute mentale non colpiscono solo i più giovani. Secondo l’Oms, oggi sono tra le maggiori cause di assenteismo lavorativo al mondo. Nel 2030 la depressione sarà la malattia più invalidante del pianeta, con costi sociali ed economici altissimi: ogni anno si perdono in tutto il mondo 12 miliardi di giornate di lavoro a causa dell’ansia e della depressione.

In Italia, le persone che soffrono di depressione perdono in media 42 giorni lavorativi all’anno, circa uno a settimana, a cui vanno aggiunti quelli di chi si prende cura di loro. E anche per chi non si assenta dal lavoro si stima che la produttività si riduca dal 50 al 70 per cento. In totale, nel nostro paese il costo della depressione sul mercato del lavoro è di circa quattro miliardi di euro l’anno, come stimato da una ricerca dell’università di Roma Tor Vergata.

“Al lavoro il clima era estremamente competitivo, e in più era appena morto mio padre. Non avevo voglia di andare in ufficio, facevo molte assenze, dormivo male: è stato lì che ho capito che qualcosa non andava”. Carola (il nome è di fantasia), 66 anni, ha ricevuto varie lettere di richiamo e alla fine è stata licenziata. Quando si è rivolta al centro di salute mentale, le hanno diagnosticato una depressione maggiore, per cui le è stata riconosciuta un’invalidità civile del 46 per cento. “Per uscire dal tunnel ho frequentato corsi di formazione e ho cominciato un tirocinio. È stato molto difficile tornare al lavoro e stare là sei ore al giorno per 450 euro al mese”. Oggi Carola è stata assunta in una cooperativa sociale: “Vivo il mio malessere come un’onda che va e viene: ogni volta devo trovare la mia strategia per non rinchiudermi in me stessa”.

Il primo lockdown e le fasi successive della pandemia hanno aggravato i problemi legati alla salute mentale nei contesti lavorativi. “Nei disturbi mentali c’è spesso un episodio che crea la condizioni perché alcuni sintomi si palesino”, spiega Francesco Pace, professore all’università di Palermo e presidente della Società italiana di psicologia del lavoro e dell’organizzazione. “In questo caso tutti noi, a livello collettivo, siamo stati messi di fronte nello stesso momento a un evento eccezionale, che ci ha portato a fare un bilancio della nostra vita e a interrogarci sul futuro. Il covid-19 ha creato la tempesta perfetta”. La mia professione mi soddisfa? Sono ancora in tempo per cambiare? Sono domande diventate sempre più frequenti. “Il lavoro ha a che fare con la definizione della nostra identità”, continua Pace. “Ci permette di stabilire il nostro ruolo sociale e vedere riconosciute le nostre competenze. Ecco perché la condizione lavorativa ha un ruolo importante nella vita psichica delle persone”.

Un bene di lusso

Oggi le strutture pubbliche sono poco in grado di rispondere ai bisogni emergenti. La spesa sanitaria annuale destinata alla salute mentale rappresenta in media solo il 3,5 per cento del Fondo sanitario nazionale. “Già nel 2019, prima del covid-19, i servizi di salute mentale erano in grado di rispondere solo alla metà delle richieste”, spiega Gemma Calamandrei, direttrice del Centro di riferimento per le scienze comportamentali e la salute mentale dell’Iss. “Il pubblico gestisce solo i casi più seri e non riesce a dare risposta ai disturbi mentali più comuni, come ansia o depressione, perché mancano risorse e personale. Chi può permetterselo si rivolge al privato. Chi non può, smette di curarsi”.

Un’indagine dell’Iss sul funzionamento dei dipartimenti di salute mentale durante la pandemia mostra che molti servizi territoriali sono stati chiusi, così come i reparti di psichiatria, spesso convertiti in reparti per il covid. Al tempo stesso si è assistito a una riconversione del personale sanitario, che è stato impiegato nella gestione dell’emergenza, e a una diminuzione delle persone che si sono rivolte agli ospedali per un disturbo mentale, anche per paura del contagio.“La situazione variava molto in base al territorio”, continua Calamandrei. “Ci sono regioni che hanno investito meglio, che hanno avuto una maggiore pianificazione e che sono riuscite a fare rete con il terzo settore, come l’Emilia-Romagna, mentre altre hanno optato per una maggiore privatizzazione e ne hanno pagato il prezzo, come la Lombardia”.

L’indagine rileva anche quanto la psicologia e la psicoterapia siano ancora fortemente sottoutilizzate dal nostro sistema sanitario, nonostante siano relativamente poco costose e non abbiano effetti collaterali, come invece assumere farmaci: i dati del ministero della salute mostrano che nel 2020, su un totale di circa 8,3 milioni di prestazioni erogate dai servizi territoriali, solo il 6 per cento riguardava percorsi di psicologia o psicoterapia. “Le attività psicologiche e psicoterapiche sono state trattate, fino a oggi, come un bene di lusso non essenziale”, spiega David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, aggiungendo che nel servizio sanitario nazionale sono assunti solo cinquemila psicologi. “Lo stato spende più di tre miliardi all’anno per i servizi di salute mentale, ma queste risorse sono usate soprattutto per l’assistenza psichiatrica e per i casi più gravi. Il disagio lieve è sicuramente meno impattante, ma pregiudica ugualmente la qualità della vita delle persone: se trascurato si può trasformare in un malessere fisico o psichico più grave”.

Brooke DiDonato, VU'/Karma Press

Sarebbe importante puntare sulla prevenzione: per intercettare il malessere insorgente, gli psicologi dovrebbero garantire assistenza non solo negli ospedali, ma anche nei servizi territoriali, nelle case di comunità, nei consultori e negli ambulatori di pediatri e medici di base. “Serve una presenza articolata, a 360 gradi”, continua Lazzari. “Prendiamo le malattie oncologiche o croniche, le cure palliative, la disabilità, la genitorialità, l’affido, l’infertilità, l’aborto o la menopausa: sono tutte situazioni in cui un accompagnamento psicologico è necessario”.

A dicembre del 2021 il governo di Mario Draghi ha introdotto il bonus psicologo, un aiuto per sostenere le spese necessarie per le sedute di psicoterapia: per il 2022 sono stati stanziati 25 milioni di euro, erogati attraverso un voucher di massimo 600 euro che varia in base all’Isee. La misura però si sta rivelando insufficiente: a inizio ottobre sono arrivate oltre 300mila richieste (il 60 per cento delle persone ha meno di 35 anni) a fronte di una platea stimata di circa 40mila beneficiari. Tra i critici c’è chi evidenzia che questi fondi andranno a professionisti privati, invece che al settore pubblico, e che permetteranno di pagare solo una decina di incontri di psicoterapia: una consulenza minima rispetto a un percorso completo, che può durare anche anni.

Nonostante i tanti limiti, il bonus psicologo è dirompente dal punto di vista culturale: “Per la prima volta lo stato riconosce che il disagio psicologico merita attenzione, e ammette di non avere una rete pubblica per dare questo tipo di risposta”, commenta David Lazzari. “La politica ora è costretta a porsi il problema di come aiutare tutte le persone che hanno fatto richiesta ma non potranno usufruire del sussidio”.

Alcuni territori hanno avviato sperimentazioni per istituire la figura dello psicologo di base, che offre consulenza psicologica gratuita a tutti i cittadini che ne hanno bisogno. Nel 2014 un primo esperimento, durato un anno, è stato avviato in due Asl del Veneto, seguito nel 2015 da un progetto dell’associazione Centro studi e ricerche in terapia psicosomatica a Bologna. Nel 2020 la Campania, per rispondere ai nuovi bisogni emersi con la pandemia, è diventata la prima regione a istituire un vero e proprio servizio di psicologia di base presso le Asl, affidato a psicologi liberi professionisti convenzionati con le strutture sanitarie. Lo scorso gennaio il consiglio regionale della Lombardia ha riconosciuto la figura dello psicologo di base gratuito, che opererà nelle Case di comunità istituite con i fondi del Pnrr.

“In Italia manca ancora una legge nazionale”, spiega Virginia Martelli, responsabile del progetto di Bologna. “La consulenza psicologica dovrebbe diventare gratuita per tutti, come lo screening al collo dell’utero: la prevenzione ha un costo, ma nel lungo periodo porta a un risparmio per il servizio sanitario nazionale, perché riduce l’insorgere di patologie più gravi. E allo stesso tempo migliora il benessere delle persone”.

Stigma ed esclusione

Quando il disagio mentale diventa una vera e propria malattia emergono altri problemi. Chi soffre di una patologia psichiatrica viene spesso reso invisibile, stigmatizzato ed escluso dalla comunità. Nel 2020, sono stati 728.338 gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici: tra le patologie più frequenti tra gli uomini ci sono i disturbi schizofrenici, di personalità, legati all’abuso di sostanze e al ritardo mentale, mentre le donne presentano una maggiore incidenza di disturbi affettivi, nevrotici e depressivi.

“Dalla riforma Basaglia, l’Italia è considerata un modello per quanto riguarda il trattamento dei pazienti psichiatrici”, spiega Gisella Trincas, presidente dell’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale (Unasam). “Negli anni settanta eravamo i primi a smantellare l’istituto del manicomio e a riconoscere i malati mentali come esseri umani portatori non solo di bisogni, ma anche di diritti. Eppure, se guardiamo oggi alla qualità della vita delle persone con malattie mentali e delle loro famiglie, dobbiamo ricrederci. Certo, i grandi manicomi sono chiusi, ma nel frattempo sono fioriti altri luoghi di internamento: le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), le Rsa (residenze sanitarie assistenziali), le comunità terapeutiche, e anche le carceri, dove ci sono molte persone con problemi mentali”.

L’intervento che viene fatto in queste strutture e servizi, denuncia l’Unasam, è prevalentemente farmacologico: le persone assumono molti farmaci, risentono di forti effetti collaterali e spesso non sono nelle condizioni di intraprendere un percorso di ripresa della propria vita. “La maggior parte delle strutture residenziali si sta di fatto trasformando in contenitori dei malesseri e dei disagi più gravi”, continua Trincas. “Mancano le attività educative e di riabilitazione, e non viene avviato un reale percorso verso l’autonomia”.

Michela, 47 anni, cuoca in un ristorante, ha conosciuto la malattia mentale quando era piccola perché la madre aveva grossi problemi psichiatrici. Era chiamata “la figlia della matta”. “Cinque anni fa, quando è morto mio padre, ho avuto un crollo: non so quante volte mi hanno ricoverato in cliniche per pazienti psichiatrici, dove mi bombardavano di medicinali: ero diventata un vegetale”, racconta. “A ottobre del 2019 ho tentato il suicidio. C’ero quasi riuscita, ma poi la vita mi ha dato una seconda possibilità: quando sono uscita dalla terapia intensiva ho rifiutato di venire ricoverata di nuovo, sono tornata a casa e gradualmente ho ripreso in mano la mia vita”.

Uso delle parole

In Italia persiste ancora un forte stigma sulla malattia mentale: secondo un sondaggio condotto dall’istituto Piepoli per il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, il 42 per cento degli italiani è stato dallo psicologo almeno una volta nella vita, ma la maggior parte preferisce non parlarne. Il 34 per cento pensa che “la psicologia promette molto, ma serve a poco”. A creare lo stereotipo contribuiscono anche i media, attraverso rappresentazioni caricaturali e l’uso di termini discriminatori come “matto”, “pazzo” e “violento” associati ai malati psichiatrici.

Per promuovere un uso corretto delle parole e contrastare le stigmatizzazioni, da 16 anni a Bologna opera la redazione radiofonica Psicoradio, un progetto dell’associazione Arte e salute che mette insieme persone in cura presso i servizi di psichiatria ed esperti di comunicazione: nelle oltre 850 puntate realizzate, Psicoradio parla di malattia mentale, ma anche di attualità, arte e sport. “Quando lavorano, queste persone non sono più pazienti ma redattori veri e propri”, spiega la direttrice Cristina Lasagni. “Chi ascolta le nostre puntate non capisce se a parlare è un tutor o un paziente, e questo per noi è un grande risultato”.

Attivarsi, rendersi utili, dare un servizio alla comunità, socializzare, lavorare: sono tutti passaggi importanti attraverso i quali le persone riescono a ritrovare un loro equilibrio, in alcuni casi imparando a convivere con la propria malattia. È quello che ha fatto anche Michela. A febbraio del 2020 è entrata nella redazione di Psicoradio e oggi vive da sola e ha riallacciato i rapporti con la sua famiglia.“Da venti pastiglie al giorno, sono passata a prenderne una e mezzo prima di dormire”, racconta. “Le persone con una malattia mentale possono uscire dal buio, ma per farlo ci vogliono percorsi graduali che le aiutino a ritrovare un proprio ruolo nella comunità: io sono stata fortunata a incontrare persone che hanno creduto in me, ma questo dovrebbe essere un diritto che viene garantito a tutti”. ◆

Da sapere
Pratiche coercitive

Il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) prevede una serie di interventi che possono essere applicati in caso di necessità e urgenza e qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte del paziente sottoposto a cure mediche a prescindere dalla sua volontà: per esempio quando la persona minaccia di suicidarsi o di distruggere ciò che ha intorno, oppure quando rifiuta l’acqua o il cibo. È regolamentato dall’articolo 33 della legge 833 del 1978. In Italia solo nel 2020 sono stati effettuati 5.398 Tso. Tra le pratiche coercitive usate sui pazienti psichiatrici c’è anche la contenzione, praticata ancora in tanti luoghi di “cura”, come le Rems o le Rsa: può essere “manuale”, quando un operatore immobilizza il paziente, “meccanica”, quando si usano fasce e cinghie per legare una persona al letto o alla sedia a rotelle, e “ambientale”, con porte e finestre sbarrate. La finalità è ridurre la libertà di movimento del paziente.


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