Aumentare la sicurezza stradale, soprattutto per i cittadini più fragili. Promuovere la mobilità sostenibile riducendo l’inquinamento e le emissioni. Favorire l’economia di prossimità e i negozi di vicinato. Ma anche rendere lo spazio pubblico più bello e democratico. Questi sono gli obiettivi delle città30, dove il limite di velocità per tutti i mezzi è fissato a 30 chilometri orari: un nuovo modello che ha già preso piede in diversi paesi del mondo, e che ora si sta affacciando anche in Italia.

Da questo giugno Bologna è la prima grande città italiana a 30 chilometri orari. Prima c’era stata Cesena, che aveva fatto da apripista nel 1998, seguita nel 2021 da Olbia. Per diventare una città30, però, non basta solo abbassare il limite di velocità: si tratta di un intervento più ampio e complesso, infrastrutturale ma anche culturale, per riqualificare l’ambiente urbano con lo scopo di restituire lo spazio pubblico ai pedoni e ai ciclisti.

“In Italia consideriamo ancora la strada come il regno dell’auto”, dice l’urbanista Matteo Dondè, specializzato in pianificazione della mobilità ciclistica, moderazione del traffico e riqualificazione degli spazi pubblici. “È un problema in primis culturale: siamo l’unico paese dove il pedone ringrazia l’automobilista per essersi fermato alle strisce pedonali. La bici è ancora considerata ‘di sinistra’, l’auto ‘di destra’, e se rispetti il limite di velocità sei visto come uno sfigato”.

Dondè spiega che all’estero sono decenni che si ragiona su un altro paradigma: “Nel Regno Unito già negli anni settanta veniva teorizzato il concetto diliving street, per ridare la strada alle persone. A Parigi cinque anni fa il lungosenna è stato chiuso al traffico. All’inizio ci sono state grandi polemiche, ora è diventato la nuova piazza della città. A Firenze invece il lungarno, uno dei panorami più belli al mondo, è ancora invaso dalle auto”.

Scarsa sicurezza

La strada rappresenta l’80 per cento dello spazio pubblico delle nostre città. Eppure, vivere quello spazio è ancora pericoloso: in Italia ogni anno rimangono ferite in strada un numero di persone pari agli abitanti di Padova o Trieste. Nel 2021 l’Istat ha registrato più di 200mila feriti e 2.875 vittime di incidenti stradali. Più della metà delle morti avvenute in città è dovuta a sole tre cause: eccesso di velocità, guida distratta e mancata precedenza ai pedoni sulle strisce.

I dati pubblicati dalla Commissione europea mostrano che nel 2022 l’Italia ha visto un aumento delle vittime degli incidenti stradali del 9 per cento rispetto al 2021 (anno in cui la mobilità era ancora in parte ridotta a causa della pandemia), contro una crescita media europea del 3 per cento. Nel nostro paese hanno perso la vita 53 persone per milione di abitanti (in Europa la media è 46): un dato che ci vede ottavi per numero di vittime pro capite dopo Romania, Bulgaria, Croazia, Portogallo, Lettonia, Grecia e Ungheria.

Solo nei primi quattro mesi del 2023 sono stati investiti 135 pedoni, più di uno al giorno. Ci sono studi che mostrano come in città il principale deterrente all’uso delle bicicletta (e alla mobilità pedonale) è proprio la scarsa sicurezza. E infatti il commercio di biciclette sta diminuendo: nel 2021 in Italia ne sono state vendute poco meno di due milioni, 30mila in meno rispetto all’anno precedente. Allo stesso tempo il nostro tasso di motorizzazione resta tra i più alti in Europa: le auto in circolazione sono quasi 40 milioni, 67 ogni 100 abitanti, 9 in più della Germania, 10 in più della Francia e 15 in più della Spagna. Roma è la seconda città al mondo per ore perse nel traffico solo dopo Bogotà, Milano è settima.

“Da anni si sta discutendo della necessità di cambiare il linguaggio delle nostre strade”, spiega Dondè. “Dobbiamo passare dal linguaggio dell’automobile al linguaggio delle persone: puntare sul verde urbano, fare spazio a marciapiedi più ampi, favorire la socialità con tavolini e panchine. È una questione di democrazia dello spazio pubblico, che deve essere distribuito equamente a tutti gli utenti della strada”.

“Bisogna preparare le persone affinché comprendano il cambiamento, lo desiderino e lo mettano in atto”

Nel mondo esistono già diverse città30, da Grenoble a Helsinki, da Graz a Edimburgo, da Bilbao a Toronto. In Spagna, nel 2021 è stata approvata una modifica al codice della strada che impone il limite dei 30 chilometri orari in tutti i centri urbani del paese. Laddove è stato implementato, questo nuovo modello ha avuto risultati positivi: a Bruxelles, nei primi sei mesi di sperimentazione gli incidenti sono calati del 22 per cento, le vittime della strada sono la metà, ed è stato dimezzato l’inquinamento acustico. I chilometri percorsi dagli abitanti in una giornata sono aumentati di cinque milioni. La quota delle auto è diminuita del 15 per cento, mentre gli spostamenti a piedi o in bici sono cresciuti rispettivamente del cinque e sette per cento, il che ha favorito anche la riduzione del traffico. A Edimburgo, il numero di incidenti è calato del 40 per cento, il numero di feriti del 33 per cento e le vittime del 23.

A Barcellona per la prima volta è stato studiato anche l’impatto di questo modello sulla salute: si stima che vengano prevenute 667 morti premature all’anno, l’aspettativa di vita aumenti di quasi 200 giorni in media a persona e si generi un risparmio annuo di 1,7 miliardi di euro. Questo anche grazie alla riduzione dell’inquinamento atmosferico da biossido di azoto, che diminuisce del 24 per cento. Lo studio scientifico più completo è stato condotto a Londra per vent’anni, dal 1986 al 2006: il risultato è stato il dimezzamento di morti e incidenti gravi, con numeri anche migliori per quanto riguarda i bambini.

A seguito di questi risultati, nel maggio del 2021 le Nazioni Unite hanno lanciato la campagna #love30, per chiedere ai politici di abbassare il limite di velocità a 30 chilometri orari in tutte le città e i paesi del mondo. A ottobre dello stesso anno una risoluzione del Parlamento europeo ha proposto l’introduzione del limite in tutte le città europee dove siano presenti zone residenziali e un elevato numero di ciclisti e pedoni. L’Unione europea punta a ridurre del 50 per cento le morti stradali e i feriti gravi entro il 2030, l’obiettivo è contenuto nel piano d’azione strategico della Commissione sulla sicurezza stradale e fa parte della strategia “Vision Zero”, volta a raggiungere l’azzeramento delle vittime della strada entro il 2050.

Capovolgere il principio

In Italia è stata la morte dell’ex campione di ciclismo Davide Ribellin, travolto da un camion il 30 novembre 2022 mentre andava in bicicletta nel vicentino, ad accelerare il percorso verso le città30: la piattaforma Città30, che mette insieme diverse organizzazioni che si occupano del tema, ha pubblicato un vademecum di intenti comuni. Nei mesi successivi sono state organizzate mobilitazioni, flash mob, piste ciclabili e strisce pedonali umane. E lo scorso 6 maggio è stata lanciata la prima proposta di legge nazionale sulle città30.

“Oggi in città la norma è il limite a 50 chilometri orari, tranne alcune eccezioni di zone con limite a 30”, spiega Andrea Colombo, esperto di mobilità sostenibile, tra gli autori della proposta di legge. “Vogliamo capovolgere questo principio: la norma deve essere il limite ai 30, con alcune eccezioni di arterie a grande scorrimento dove si potrà arrivare ai 50. E poi in alcune zone residenziali o intorno alle scuole non si potranno superare i 20”. Oltre a questo, sono ipotizzati interventi di urbanismo tattico per obbligare chi guida a ridurre la velocità, vengono dati più poteri ai comuni e alla polizia locale, e sono previste attività di educazione alla sicurezza stradale e alla mobilità sostenibile.

“La città30 non è solo un impianto tecnico-amministrativo, ma implica anche un processo sociale e culturale”, spiega Alessandra Bonfanti, responsabile per la mobilità di Legambiente, che fa parte della piattaforma Città30. “Bisogna preparare le persone affinché comprendano il cambiamento, lo desiderino e lo mettano in atto. Il ruolo della società civile è fondamentale, la città30 vincerà solo se riuscirà a coinvolgere attivamente anche i cittadini”.

È quello che è successo a Bologna. “Le città che intraprendono questo percorso devono sfidare una cultura vigente e leggi nazionali che non ci sono”, spiega l’assessora comunale alla mobilità, Valentina Orioli. “Nel nostro paese le sfere della mobilità e della sicurezza stradale sono ancora considerate separatamente.

A Bologna le prime zone 30 sono nate tra gli anni ottanta e novanta. Dal 2019, quando è stato approvato il Piano urbano della mobilità sostenibile, abbiamo iniziato a ragionare su un’intera città30. I ciclisti continuano ad aumentare e il tasso di motorizzazione è tra i più bassi d’Italia: abbiamo una tradizione che ci aiuta in questo processo”.

Nel 2022 la giunta ha approvato le linee di indirizzo per la realizzazione del piano “Bologna città30”, con un investimento di oltre 18 milioni di euro per la ciclabilità, la pedonalità, l’abbattimento delle barriere architettoniche e la sicurezza stradale. Ma il percorso era già cominciato molti anni prima. “La nostra prima campagna sulle zone 30 risale al 2014”, racconta Simona Larghetti, fondatrice dell’associazione Salvaciclisti Bologna e per anni presidente della Consulta comunale della bicicletta, oggi consigliera comunale con deleghe alla mobilità ciclistica e sicurezza stradale. “Dieci anni fa la maggior parte delle persone ci mandava a quel paese, oggi c’è maggiore sensibilità. L’introduzione della città30 non rappresenta un cambiamento improvviso dal bianco al nero, ma un graduale spostamento di prospettiva: Bologna resta la stessa, a trasformarsi è il punto di vista con cui la guardiamo”.

Dodici secondi

Per misurare il benessere sociale che deriva dalla città30, il comune ha realizzato un’analisi quantitativa costi-benefici. A Bologna c’è una rete di circa 600 chilometri di strade, ogni giorno si registrano poco meno di tre milioni di spostamenti motorizzati su veicoli privati, più un milione su trasporto pubblico e mezzo milione tra pedoni e ciclisti.

“Il ritardo medio dovuto alla città30 è stato calcolato in 12 secondi per ogni viaggio di ciascun automobilista”, spiega Alfredo Drufuca, consulente esperto nella pianificazione del traffico e dei trasporti per il comune di Bologna. “Ma 12 secondi non valgono il numero assurdo di incidenti che registriamo sulle nostre strade. Che senso ha paragonare 12 secondi alla vita di una persona?”

I costi della città30 a Bologna sono stati stimati in 23 milioni e 600mila euro all’anno per i ritardi causati ai veicoli privati, a cui vanno aggiunti due milioni e 300mila euro per i ritardi nel trasporto pubblico. Dall’altro lato però ci sono i benefici: si calcola un risparmio di 21 milioni di euro all’anno per la riduzione dell’incidentalità, più altri due milioni di euro per l’aumento della mobilità attiva e la relativa riduzione della mortalità, e infine due milioni e mezzo di euro per la riduzione del traffico e l’impatto sull’ambiente.

“Abbiamo fatto i conti in modo molto prudente: i parametri scelti tendono a sottostimare i benefici e sovrastimare i costi, affinché il risultato ottenuto non sia contestabile”, conclude Drufuca. “I dati, comunque, non sono tutto: dobbiamo renderci conto che la città30 migliora la vita dei cittadini, e questo non ha prezzo. L’auto ha una pericolosità molto maggiore rispetto a tutti gli altri strumenti della nostra quotidianità: la usiamo con grande disinvoltura, senza pensare che abbiamo un’arma tra le mani. In Italia abbiamo un ritardo ingiustificabile su questi temi: abbiamo dormito sui nostri morti per troppi anni. È arrivato il momento di trovare nuove risposte”. ◆

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it