Questo articolo è uscito il 5 marzo 2022 a pagina 19 del numero 17 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

Ci troviamo in campo Santa Margherita, a Venezia, davanti all’Orient experience, un ristorante fondato e gestito da rifugiati e richiedenti asilo, che serve una miscela di cucine asiatiche e mediorientali. È un posto molto internazionale, ma anche molto veneziano, legato al territorio e al tuo tessuto sociale, insomma, il luogo ideale per incontrare ­Jane da Mosto.

Nata in Sudafrica e cresciuta a Londra, vive a Venezia da quasi trent’anni: “Vorrei essere considerata veneziana”, dice con un leggero accento britannico, quasi a giustificarsi. La cosa mi fa un po’ sorridere, perché tutti quelli che s’interessano di cose veneziane la considerano uno dei punti di riferimento della società civile locale, di quella fetta della popolazione che si batte contro lo spopolamento della città, il turismo di massa incontrollato e, più in generale, i danni ambientali alla laguna.

Qualche mese fa, il mondo l’ha conosciuta come la signora sulla piccola barca: alla protesta pacifica organizzata dai veneziani contro le grandi navi da crociera, incompatibili con il delicato ambiente lagunare, c’era anche lei, nel canale della Giudecca, in piedi a bordo di una piccola imbarcazione a remi. La foto, scattata per caso dal fotografo Michele Gallucci, che l’ha immortalata, così minuta e così decisa, di fianco a un’enorme nave da crociera, è finita su molti giornali, in Italia e all’estero.

Impegno basato sui fatti

Jane da Mosto, 55 anni, è una scienziata e un’attivista. Mi pare l’esatto opposto di una pasionaria: parla in modo pacato, tanto che nel frastuono del ristorante fatico un po’ a sentirla, ha una cortesia quasi d’altri tempi. Ma nel suo tono c’è anche una precisione chirurgica, scandisce bene le parole, preoccupata che fraintenda qualche termine scientifico. Ordina un trio di piatti vegetariani, riso con noci, verdure al curry e palak sabzi, la pietanza a base di spinaci diffusa nel subcontinente indiano, e mi racconta la sua storia.

Dopo essersi laureata in zoologia a Oxford, ha conseguito un master in tecnologia ambientale all’Imperial college di Londra: “Il nome può essere fuorviante, si trattava di applicare il metodo scientifico ai temi ambientali, di cui ci si cominciava a interessare in ambito accademico proprio in quel periodo”.

Era l’inizio degli anni novanta, “gli anni di Rio” li chiama lei, riferendosi alla prima conferenza mondiale dei capi di stato sull’ambiente: “Si discuteva di sviluppo sostenibile, un’espressione che in pochissimi usavano prima”. Completati gli studi, si è trasferita a Milano, per una fellowship alla Fondazione Eni Enrico Mattei: “Il nostro lavoro consisteva nel cercare di capire come integrare i cambiamenti climatici nei modelli econometrici e aiutare a creare indicatori per lo sviluppo sostenibile”. Nel 1994 ha sposato un veneziano, e si è trasferita.

Vivendo a Venezia, da Mosto si è subito resa conto che la città e la laguna che la circondano sono “un microcosmo che racchiude in sé molti temi che sono importanti dappertutto”, ha visto “la rilevanza del tessuto sociale, lo sfruttamento imposto dal turismo di massa, il cambiamento climatico, il livello del mare che si alza, e la necessità impellente di un cambiamento radicale”. Ha capito anche che, nonostante la popolazione che cala e gli appartamenti che cedono il passo ai bed and breakfast, la società civile veneziana è viva e attiva, ci sono molte persone che vorrebbero cambiare le cose. Si è convinta che, come scienziata, poteva dare un contributo importante: “Volevo trovare il modo di unire l’esperienza locale con la scienza basata sui fatti.”

Scambi di conoscenze

Nel 2015 ha fondato, insieme all’architetta Liza Fior, We are here Venice, un’associazione non profit che, come si legge sul sito, è in parte centro studi e in parte piattaforma di attivismo. We are here Venice ha partecipato alle manifestazioni organizzate dal Comitato no grandi navi che hanno spinto le autorità ad allontanare dal cuore della città le navi da crociera di maggiore portata, a partire dalla scorsa estate.

In collaborazione con l’università Ca’ Foscari, l’associazione sta lavorando a un progetto finanziato dall’Unione europea sulle barene, cioè quelle aree della laguna che sono emerse o sommerse a seconda della marea (“zone umide” come vengono chiamate), e che svolgono un ruolo fondamentale per l’ecosistema locale: l’obiettivo, che rientra nel progetto europeo WaterLANDS, è “accelerare la rinaturalizzazione di tutta la laguna, a partire dalle specie tipiche delle barene”, mi spiega. Poi ci sono i workshop e gli incontri, sempre con un atteggiamento di apertura verso la comunità locale: “È uno scambio di conoscenze, non sono solo occasioni per sensibilizzare gli altri, ma anche per imparare”.

Chiacchierando con lei, mi accorgo che finora ho sempre considerato i problemi sociali e i problemi ambientali di Venezia come due questioni separate: da un lato il fatto che la città si sta trasformando in un luogo per turisti più che per gli abitanti, dall’altro il livello del mare che si alza per il riscaldamento globale, l’erosione del suolo, la flora e la fauna che vanno scomparendo. Da Mosto è convinta che non sia così: “Sono due percorsi paralleli, a specchio. Venezia si sta spopolando proprio come le barene si stanno spopolando ed erodendo, e se vogliamo mantenere in vita la città dobbiamo invertire entrambi i percorsi”, mi spiega. “Venezia è la laguna. Non si può salvare Venezia senza salvare la laguna, e viceversa”.

Il conto

Orient experience
Dorsoduro 2920, Campo Santa Margherita, Venezia

Menù tris: biryani, kofta e melanzane 
€ 11,00
Menù tris: riso con noci, verdure al curry e palak sabzi 
€ 11,00
1 birra piccola
€ 3,00
2 bicchieri di tè verde 
€ 6,00
1 caffè
€ 1,50

Totale€ 32,50


Questo articolo è uscito il 5 marzo 2022 a pagina 19 del numero 17 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

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