“Ci sono dei momenti in cui la rabbia prende il sopravvento. Allora vorrei rompere tutto”. J., 17 anni, nomina l’impulso che s’impossessa di lui quando non si sente creduto, quando pensa di avere subìto un’ingiustizia, quando chi lo guarda non lo vede: una rabbia cieca.

“In quei momenti non faccio male alle persone, piuttosto mi faccio del male. Do pugni al muro, alle porte. Distruggo le cose e mi distruggo le mani”. Naso all’insù e capelli legati a cipolla sulla testa, tra poco compirà 18 anni e da due mesi vive nella comunità educativa Kayrós di Vimodrone, periferia nordest di Milano, perché è in custodia cautelare con l’accusa di avere commesso un furto.

Era convinto di finire all’istituto penale per minorenni Cesare Beccaria, ma dopo l’udienza di convalida è stato assegnato alla comunità Kayrós, fondata da uno dei cappellani del Beccaria, don Claudio Burgio, un centro in cui vivono una cinquantina di ragazzi tra i quattordici e i vent’anni che hanno commesso qualche reato. “Avrei potuto essere io uno di quei ragazzini evasi a Natale dal Beccaria. Se fossi finito in carcere, non so cosa avrei fatto. Sarei impazzito”, confessa il ragazzo che parla della sua esperienza con proprietà di linguaggio, soppesando le parole.

“Io sono uno che non riesce a stare nelle regole. Se mi dici che non posso uscire, ho un forte istinto a scappare, anche se poi ne pago le conseguenze. Ma è più forte di me, devo sentirmi libero”, confessa, provando a definire quell’inquietudine che l’accompagna da sempre e che ha contribuito a metterlo in difficoltà in diverse occasioni. “Non riesco a stare nelle regole”, insiste.

Una catena d’infelicità

È complicato ricostruire la catena di cause ed effetti che lo hanno portato un anno fa ad andare a vivere per strada e a delinquere, ma J. è convinto che l’origine dei suoi problemi sia nella sua storia, nei legami complicati e dolorosi che ha avuto fin da bambino con la sua famiglia d’origine. “Io sono stato adottato”, dice all’inizio del nostro incontro, seduto sul letto della camera che condivide con un altro diciassettenne: una sciarpa del Real Madrid appesa alla parete, le scarpe da ginnastica impilate accanto al letto.

Il tono con cui ne parla fa apparire l’adozione uno stigma, una macchia che lo rende diverso da tutti gli altri, che lo definisce come persona. È nato nel sud della Polonia, ultimo figlio di una coppia di tossicodipendenti. A cinque anni è stato trasferito in un orfanotrofio, perché i servizi sociali avevano deciso di togliere la patria potestà ai genitori.

“I miei fratelli maggiori erano stati affidati alla nonna e agli zii. Io ero l’ultimo. Mi ricordo ancora quando è arrivata la lettera, in casa c’era una festa e io ho capito che sarei dovuto andare via”, racconta. Dell’infanzia in Polonia ricorda le liti continue tra i genitori, che spesso diventavano anche violente, i suoi fratelli e le sue sorelle più grandi che sono ancora in quella città da cui è andato via e con cui è in contatto su Instagram.

“Avevo dieci anni quando sono stato adottato da una famiglia italiana: quando ho incontrato i miei genitori adottivi ho provato subito dell’affetto per loro e in soli tre mesi ho imparato l’italiano e ho dimenticato la mia lingua madre”, racconta.
J. si è trasferito in Italia a dieci anni, uno zainetto con dentro poche cose e nella testa le parole della nonna: “Potrai lasciarti il passato alle spalle, avrai molte possibilità in Italia”.

Ma il passato invece non lo ha lasciato: ha preso la forma di un malessere che lo tormenta e si manifesta con i tagli che si fa sulle braccia e di cui i suoi genitori adottivi non si sono accorti per diversi anni.

Un ragazzo nella sua stanza nel centro Kayrós di Vimodrone, gennaio 2023. (Lorenzo Palmieri per L'Essenziale)

Durante l’adolescenza voleva andare alle feste, voleva trasgredire, ma i genitori adottivi sono diventati sempre più rigidi e il padre a volte reagiva in maniera violenta ai suoi eccessi, lo picchiava. A quindici anni J. ha deciso di scappare da casa, un giorno è uscito per andare a scuola e non è tornato: si è rifugiato in una comunità di salesiani, ha chiesto aiuto a un prete.

Poi – dopo i colloqui con l’assistente sociale e con le autorità – è stato portato in una casa famiglia. Le norme della vita comunitaria gli stavano strette, non riusciva ad adattarsi. Allora ha cominciato a vivere per strada, è stato ospitato da un amico, poi ha fatto amicizia con un gruppo di ragazzi senegalesi più grandi di lui.

“Nell’ultimo anno per vivere ho spacciato e ho rubato, entravo nei negozi e prendevo quello di cui avevo bisogno, vestiti, scarpe”, racconta. Dal nuovo gruppo di amici si sente finalmente accolto: “Mi sentivo uno di loro, mi dicevano che sembravo un africano, anche se sono bianco”.

Ma con uno dei suoi più cari amici viene arrestato a Milano. L’amico più grande è maggiorenne e finisce nel carcere di San Vittore, mentre J. è assegnato alla comunità di don Burgio. “Qui mi trovo bene, facciamo molte attività durante il giorno, sport, cucina”. Ma continua a soffrire della vecchia inquietudine: “Mi mancano i miei amici, a volte ho voglia di scappare, ma poi cerco di trattenermi, bisogna avere la testa sulle spalle”.

La sua camera è al secondo piano di un edificio prefabbricato arancione: la finestra guarda sull’enorme campo da calcio che è al centro dello spazio condiviso e che viene impegnato ogni sera per partite amatoriali tra le squadre degli ospiti della struttura.

Educare alla libertà

Il cancello è sempre aperto, di notte e di giorno. E su un cartello bianco all’ingresso è scritto il motto della comunità: “Non esistono ragazzi cattivi”. “Lavoriamo sulla responsabilizzazione: quindi le porte sono aperte. I ragazzi sanno che se sono in custodia cautelare non posso uscire, se lo fanno li dobbiamo segnalare alla polizia. Ma nessuno di loro fugge, è capitato molto raramente. Non ci sono secondini, né grate o cancelli. Qui puoi scappare quando vuoi, nessuno ti trattiene. Ma nessuno scappa”, racconta Claudio Burgio, fondatore della comunità educativa Kayrós, nata nel 2000 come centro di accoglienza per minori stranieri non accompagnati, per poi diventare nel 2005 una comunità socioeducativa per i ragazzi che hanno compiuto reati.

“Il nostro metodo comporta il rispetto della loro libertà e della loro intelligenza. Sono ragazzi problematici, ma sono molto intelligenti, vogliamo che si mettano in gioco”, racconta il prete, 53 anni, autore di diversi libri sulla sua esperienza con i ragazzi degli istituti penali, tra cui Non esistono ragazzi cattivi (Edizioni Paoline).

“La regola non viene prima della persona, non ci sono delle regole a priori, molte regole le creiamo insieme, le condividiamo. Quando sbagliano, non ci interessa soltanto il principio ‘Se sbagli, paghi’. Cerchiamo di capire insieme perché lo hanno fatto. Sono adolescenti, non smettono di fare cavolate”, continua il sacerdote che è stato ispirato dal lavoro e dalla vita di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana che nel 1965 scriveva che bisognava “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù”.

Burgio ammette che questo metodo non funziona con tutti i ragazzi, ma con la maggior parte di loro sì: “Abbiamo avuto anche molti fallimenti: da qui sono passati due ragazzi siriani che si sono arruolati con il gruppo Stato islamico, non ci eravamo accorti della loro radicalizzazione che è avvenuta in un mese e attraverso internet. Siamo rimasti in contatto con loro: uno è morto, uno si è consegnato alle autorità. Abbiamo avuto ragazzi che quando sono usciti hanno ripreso a delinquere: uno è tornato da noi per undici volte”. Ma i ragazzi che invece ce l’hanno fatta sono tanti: alcuni sono diventati a loro volta educatori, altri hanno scoperto dei talenti artistici o hanno imparato un mestiere, grazie alle attività svolte nella comunità. Uno ha scritto un libro, che presenta nelle scuole: Ero un bullo (De Agostini).

Don Claudio Burgio nel campo da calcio del centro di Vimodrone, gennaio 2023. (Lorenzo Palmieri per L'Essenziale)

“Li accompagniamo da quando sono in misura cautelare fino alla loro libertà nella ricerca di una casa o di un lavoro. Arrivano da tutta la Lombardia, hanno commesso dei reati, alcuni di loro hanno problemi di alcol e di dipendenza da sostanze”, racconta il prete. Alcuni sono immigrati di seconda o terza generazione, sono nati in Italia da genitori stranieri. Altri sono italiani, vengono anche da famiglie medie o benestanti, ma spacciano o fanno uso di sostanze per sfuggire a modelli “troppo performativi”, “alle troppe pressioni” della famiglia.

Altri ancora sono stranieri minorenni, senza famiglia, che delinquono per mandare i soldi a casa o per sopravvivere. “Noi non pensiamo che la comunità sia un contenitore di devianza o di malattia: pensiamo che si debba tentare con questi ragazzi un percorso educativo serio, fatto di attività artistiche, culturali, sport, ma anche di attività che permettano una formazione al lavoro. In media questi ragazzi passano con noi quasi due anni”, sottolinea.

Alcuni nel corso degli anni hanno scoperto la loro passione per la musica, che è diventata un mezzo potente di espressione del proprio disagio e di racconto della loro storia. Dalla comunità di Vimodrone per esempio sono passati alcuni dei trapper più famosi della scena musicale milanese: Baby Gang, Simba La Rue, Saki. Con i loro video hanno raggiunto milioni di utenti su Youtube.

“Per diciott’anni ho visto solo merda / La faccia di mia madre alla sentenza / Non ci credevo, lei non ci credeva, colloqui in galera / Non c’è un cazzo di bello, o fai gli abusi, o ti abusano in galera”, canta Simba La Rue, nome d’arte di Mohamed Lamine Saida, vent’anni, nato in Tunisia e residente in provincia di Como.

“Nelle loro canzoni questi ragazzi esprimono violenza e critiche al sistema. Noi crediamo che sia giusto favorire questo tipo di espressione, non dobbiamo reprimerli e accettare anche le critiche che arrivano dalle loro parole”, sottolinea Burgio, che spesso è stato contestato per i testi molto violenti dei cantanti che hanno frequentato la sua comunità.

Un sistema al collasso

In Italia ci sono 17 istituti penali minorili e secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone Ragazzi dentro il carcere ha un ruolo sempre più limitato nel sistema penale per minorenni. Infatti a gennaio del 2023 sono circa quattrocento i minori e giovani adulti detenuti nelle carceri minorili italiane, a fronte di 14.200 complessivamente in carico al servizi della giustizia minorile. Di questi, quasi la metà sono stranieri. “Dall’approvazione del nuovo codice di procedura penale minorile, nel 1988, la detenzione è diventata residuale. Nell’insieme la giustizia minorile si deve fare carico dei ragazzi con un approccio educativo”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone.

Nonostante la legislazione italiana per i minorenni sia all’avanguardia in Europa, nelle ultime settimane ci sono stati diversi disordini negli istituti penali minorili italiani: dal Beccaria di Milano sono evasi sette ragazzi il giorno di Natale, un altro è evaso dal carcere di Torino, nel carcere minorile di Casal del Marmo a Roma ci sono state delle rivolte ed è stato appiccato un incendio, un episodio simile era avvenuto anche nell’istituto penale minorile di Bologna. Dopo la pandemia, a causa dell’aumento dei reati successivo alla crisi sanitaria (secondo l’Istat, si è passati da 26.271 denunce di reato a carico di minorenni nel 2020 a 30.405 nel 2021) e dei tagli alle comunità che offrono misure alternative, gli istituti penali minorili sembrano in difficoltà.

La denuncia è arrivata anche dal procuratore Ciro Cascone, il magistrato che guida la procura minorile di Milano, la più impegnata d’Italia sul fronte dei reati commessi da minorenni. “Abbiamo immediatamente bisogno di risorse e personale”, aveva detto Cascone rivolgendosi al ministro della giustizia Carlo Nordio. “Un carcere minorile è cosa molto diversa da un carcere per adulti: occorrono investimenti, risorse e personale specializzato, con una formazione specifica”. E poi aveva aggiunto: “Dietro ognuno di quei ragazzi c’è una famiglia che non funziona, una forma di malessere e di disagio che affligge tantissimi minorenni. Noi sappiamo tutto, li vediamo, anzi è come se sfilassero davanti a noi che abbiamo anche ottime norme, soluzioni che teoricamente altrove ci invidiano, ma è come se non riuscissimo a intercettarli”.

Dopo l’evasione del Beccaria, alcuni hanno chiesto l’irrigidimento delle misure di detenzione: “Davanti a questi episodi, ritorna spesso questo approccio securitario che chiede di gestire le carceri minorili come quelle per gli adulti, ma io suggerirei di analizzare la situazione specifica con attenzione”, continua Marietti di Antigone. “Le comunità sono un tassello fondamentale, considerando che ospitano circa mille minori autori di reati, e c’è un annoso problema di finanziamento di queste strutture”.

Due ospiti del centro Kayrós, gennaio 2023. (Lorenzo Palmieri per L'Essenziale)

“Il carcere per i minorenni dovrebbe essere l’extrema ratio, ma in Lombardia ci sono sempre meno posti nelle comunità che stanno chiudendo per i tagli e per la mancanza di figure professionali come gli educatori, quindi sempre più spesso chi dovrebbe andare in comunità rimane in carcere”, racconta Claudio Burgio, commentando l’evasione dei sette ragazzi dal Beccaria.

“Alcuni di quei ragazzi non avrebbero dovuto essere dietro le sbarre: penso in particolare a un minore straniero non accompagnato. Era finito in carcere per un furto, era appena arrivato in Italia, non parlava una parola di italiano. Era in carcere perché era in attesa di essere trasferito in una comunità”, racconta Burgio, secondo cui durante le vacanze di Natale le attività sono sospese per tre settimane. “Questo significa che durante le feste i ragazzi sono nelle loro celle, da soli, con un isolamento ancora maggiore che in tempi normali”, continua il sacerdote. Questo sarebbe uno dei motivi che ha spinto alcuni di loro a evadere dall’istituto il giorno di Natale per raggiungere le loro famiglie.

Nel carcere inoltre ci sono lavori di ristrutturazione che vanno avanti da quindici anni. “Dovevano durare tre anni, ma si sono trasformati in un cantiere perenne, questo significa che la capacità dell’istituto è dimezzata, metà della struttura è interessata dal cantiere. E quando ci sono troppi ingressi i ragazzi sono trasferiti in altre carceri, così vivono nel terrore di essere spostati in altre città dove non possono ricevere le visite dei loro genitori e dei loro parenti”.

Questo elemento è confermato da Michele Miravalle, ricercatore e coordinatore dell’Osservatorio carceri dell’associazione Antigone, che ha visitato il Beccaria il 16 gennaio 2023, a un mese dalla sua ultima visita. “Il Beccaria è stato considerato un modello. Ha una quantità di aiuti da parte degli enti locali molto alta, non paragonabile ad altri istituti. Ma a fronte di quella massa di risorse, è disturbante vedere le condizioni di fatto della struttura. Il Beccaria è una cattedrale del nulla, in una città in piena speculazione”.

Per Miravalle, la situazione è ulteriormente peggiorata rispetto a dicembre: i ragazzi sono chiusi in cella, con la porta blindata. E poi “c’è un’enorme problema di dipendenze da sostanze stupefacenti. I ragazzi sono spesso dipendenti da più sostanze e c’è una totale inadeguatezza da parte dei servizi sociali a rispondere a questa situazione, non riescono neppure a capire che tipo di sostanze assumono. La cattività non aiuta”.

“Dopo la rivolta, il numero dei detenuti si è abbassato: attualmente sono 24”, aggiunge Miravalle. “Ma il clima è ancora di grande tensione, anche se poi nessuno degli evasi è rientrato al Beccaria, perché sono stati trasferiti in altri istituti”.

Delle 24 persone in carcere al Beccaria, tre di loro dovrebbero stare in comunità, secondo Miravalle. “Le strutture residenziali sono quasi completamente affidate al privato sociale, in Italia ci sono solo due comunità pubbliche. Il privato fa delle selezioni all’ingresso: va in comunità solo chi ha i mezzi. Se non hai nessuno, rimani in carcere”, spiega il ricercatore, che conferma la mancanza di posti.

Le comunità educative nel 2022 hanno ospitato nel complesso un migliaio di ragazzi, la maggior parte di loro in custodia cautelare o in regime di messa alla prova. I reati più frequenti commessi dai minorenni sono contro il patrimonio: furti, spaccio, rapine.

“Gli ultimi ricollocamenti da Milano sono stati fatti in Sardegna, ma che senso ha spostare così tanto questi ragazzi? Che tipo di investimento per la loro vita possono fare così lontani da casa?”, conclude Miravalle.

I ragazzi della Kayrós

Quando si è reso conto di quello che aveva fatto si è messo a piangere: ha rapinato un ragazzo per strada con una pistola scacciacani. E. ha 17 anni e vive per strada da quando ha litigato con il nuovo compagno della madre. È un ragazzo timido, molto magro e alto, il volto scavato. “La persona che ho rapinato si è messa a piangere, io gli ho preso le cose e sono scappato, lui non smetteva di piangere. Una volta a casa, ho ripensato alla sua faccia, alle sue lacrime e non riuscivo a pensare ad altro”, racconta nella sua stanza nel centro Kayrós.

È nato a Milano da una coppia di romeni, ma è stato abbandonato dal padre quando aveva due anni, quindi è stato portato dalla madre in Romania, dove è vissuto con la nonna fino ai cinque anni, quando la madre è tornata a prenderlo per riportarlo in Italia. Ha un rapporto molto complicato con i genitori, da cui si sente trascurato e abbandonato: “Non ho mai avuto una famiglia, quando qualcuno dice che va a cena fuori con la famiglia io penso che quello io non l’ho mai avuto. Non mi sono mai sentito a casa, nemmeno a casa mia”. Quando parla della sua storia assume un tono infantile, sembra più piccolo della sua età e si esprime con un filo di voce. “A scuola mi prendevano in giro perché sono romeno, mi chiamavano ‘zingaro’”.

Anche se ha vissuto sempre in Italia e ha frequentato le scuole italiane non ha la cittadinanza. Gli piaceva studiare, era anche bravo a scuola, ma poi ha smesso di frequentare le lezioni per lunghi periodi, perché se ne è andato di casa e ha cominciato a delinquere. “Entro e esco da casa di mia madre, non vado d’accordo con il suo compagno e con lei. Andavo a dormire e già sapevo che mi sarei svegliato con le botte, con le urla, con le cinghiate”, racconta con il cappuccio della felpa nera calzato sulla testa. Vive nel terrore di finire in carcere: “Entri che sai fare rapine, esci che fai reati anche peggiori”.

Una storia simile la racconta anche D., 17 anni, anche lui affidato ai servizi sociali e a una casa famiglia fin da piccolo: italiano, padre tossicodipendente, madre disoccupata e alcolista, cinque fratelli. “Ho conosciuto il carcere fin da bambino, mio padre è stato a lungo detenuto, prima in carcere poi agli arresti domiciliari”. La madre invece è sempre stata dipendente dall’alcol: “Non gliene faccio una colpa, a noi figli ci vuole bene, vive per noi, ma è fragile”.

Anche il fratello maggiore è tossicodipendente: “Vive per strada, è entrato e uscito dal carcere, ora è latitante. Spero quasi che finisca in cella, così si allontana dalla droga, perché si è ridotto malissimo e ho paura che muoia”. Il secondogenito, invece, è il suo punto fermo: “Ha giocato nell’Inter, lavora, ha la testa sulle spalle, è il padre che non ho mai avuto: mi stimola sempre a essere migliore, a non fare cavolate, a non drogarmi, a risollevarmi”.

D. ha le mani rovinate dall’ansia, se le distrugge, fa gesti di autolesionismo: “La mia famiglia mi ha messo addosso un sacco di insicurezza, mio padre ha guardato sempre solo ai soldi”. Ha un intercalare ricorrente: dice “sincero”, per garantire che sta dicendo tutta la verità. “Ho sempre avuto la strada dentro, ma non ho mai voluto fare la vita di strada”.

D. è cresciuto con l’ansia di apparire benestante: “Se voglio, ti faccio credere di essere ricco, di essere quello che non sono, sono sempre stato bravo in questo”. Qui mi sto ritrovando: “Non faccio più finta”. Ha ricordi confusi dell’infanzia, ma i pensieri tornano di continuo nella sua testa: quella volta che i genitori hanno litigato sulla porta di casa, le botte la vigilia di Natale, i tradimenti, la casa famiglia, le famiglie affidatarie. Da qualche tempo ha una fidanzata. “Una tipa”, la chiama lui. Con la madre si scambia dei messaggi ogni sera. Ha composto anche una canzone per lei con un amico. Gliel’ha mandata e poi le ha scritto: “Ti voglio bene”.

La canzone dice così: “Mia madre che piange a casa / perché mi è arrivata un’altra carta / Non voglio più stare nella merda / non voglio stare in galera. Stai tranquillo, mon frère / Ero solo senza il cash, ero solo nella street / papà non c’è mai stato con me / Stai tranquillo, mon frère”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it