“Non ho il carattere per fare un mestiere che dipenda completamente da scelte altrui: stare ferma ad aspettare che qualcuno ti chiami o ti scelga. Quindi ho sempre scritto e fatto cose mie, oltre a fare l’attrice”, Emanuela Fanelli, 36 anni, è sull’isola di Ventotene, sul set dell’ultimo film di Paolo Virzì, un sequel di Ferie d’agosto, la commedia del 1996 dello stesso regista che metteva in scena l’Italia del berlusconismo, divisa tra destra e sinistra, nei costumi, nelle abitudini quotidiane e perfino nelle vacanze.

Le riprese del film termineranno alla fine di giugno. “Per me Ferie d’agosto è stato un film cult, l’ho rivisto un sacco di volte, quindi sono felicissima ora di fare parte di questo progetto”. Fanelli è una delle attrici più brillanti e originali della sua generazione: talento comico, autrice, David di Donatello 2023 come migliore attrice non protagonista per l’interpretazione di un’ereditiera ricca e infelice, in un altro film diretto da Virzì, Siccità. È forse l’esponente più famosa di una nuova ondata di attrici e autrici comiche romane, che stanno rinnovando il teatro e il cinema italiano. Ma non si prende troppo sul serio.

Ha cominciato a recitare a teatro al liceo: “Da ragazzina le mie cugine erano costrette a mettere in scena le ‘recitine’ che io scrivevo, poi al liceo il regista del corso di teatro della scuola mi ha chiesto di entrare a fare parte della sua compagnia, così è cominciato tutto”.

Ma non è mai stata un’attrice e basta: “Mi piace anche fare l’attrice, essere qualcuno molto distante da me. Ma non smetterò mai di scrivere, mi pare che professionalmente le cose migliori sono venute proprio quando ho cominciato a parlare con la mia voce”. L’umorismo, la comicità sono delle caratteristiche naturali: “Vengono dalla mia famiglia. Anche se avessi fatto altro, avrei avuto questo sguardo. Anche se avessi fatto la commercialista sarei stata una simpatica, insomma”.

Ha cominciato molto presto a scrivere monologhi ed erano sempre pezzi comici. Ma per dieci anni, Fanelli ha fatto la maestra in una scuola materna. Poi è stata notata da un’agente mentre partecipava a una jam session teatrale che si chiamava Pedigree, in un centro sociale romano. Ha recitato nell’ultimo film girato da Claudio Caligari, Non essere cattivo (2015). Ma il successo è arrivato nel 2020, l’anno della pandemia, con la tv per il programma di Giovanni Benincasa e Valerio Lundini Una pezza di Lundini.

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“Io venivo dal cinema e dal teatro e non era per niente scontato che i miei pezzi funzionassero anche in tv, i tempi comici della tv sono molto diversi”, racconta. Invece la televisione l’ha fatta conoscere a un pubblico più largo: “Anche i social hanno avuto un ruolo molto importate: c’è stata l’intuizione di lavorare proprio sul fatto che i pezzi fossero ripresi anche online, girassero anche sui social network”.

I suoi sketch più famosi sono Gli annunci, Simonetta, la truccatrice della Magnani e A piedi scarzi, una serie in cui si prende gioco di una certa mitizzazione della periferia romana e del sottoproletariato nel cinema italiano, che viene dal neorealismo e dalla commedia all’italiana, fino a diventare una retorica.

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Tra gli autori di Una pezza di Lundini, Fanelli era l’unica donna: “Le donne autrici sono relegate a certi temi considerati ‘da donne’. È come se le donne potessero scherzare solo su certe questioni: i peli, le cerette, gli uomini che ti tradiscono. Io credo che invece le donne debbano scrivere pezzi comici su tutto”. I modelli a cui si è ispirata sono attrici di diverse generazioni, soprattutto Franca Valeri. Ma poi Anna Marchesini, Paola Cortellesi e Monica Vitti. Tra gli uomini: Carlo Verdone, Massimo Troisi e Corrado Guzzanti.

“Da ragazzina non mi perdevo una puntata dell’Ottavo nano e di Mai dire gol”. È vero che nella tradizione italiana le donne sono soprattutto spalle, difficilmente sono protagoniste. Ma le cose sono cambiate con attrici, che sono anche autrici, come Valeri, Marchesini e Cortellesi. “Si è aperto uno spazio”.

Per Fanelli, l’umorismo deve prendere di mira “la natura umana e le sue vulnerabilità, ma senza giudizio, senza il dito puntato”. Il comico non deve “spiegare le cose”, né “giudicare”. Di tutto si deve potere scherzare, anche del femminismo per esempio.

“Spesso ho scherzato e ho scritto su questo senso di inadeguatezza che mi prende ogni tanto di fronte alle grandi questioni sollevate dalle femministe, con attenzione e limando le parole il più possibile. Ma penso di avere colto un punto, perché poi tante mi hanno scritto che si erano ritrovate”.

Il personaggio di Marilena Ricozzi, per esempio, è quello di una poliziotta che dice sempre: ‘Lo dico da donna’. “Ma usa questa frase a sproposito. Invece quando le fanno dei soprusi, ride”. Quando ha partecipato a Sanremo si è posta l’annosa questione dei fiori: “Il problema era: se mi danno questo mazzo di fiori che devo fare? Se li accetto, sono un’ancella del patriarcato? A me i fiori piacciono. Questa storia è diventata uno sketch: ho scherzato su questo mio sentimento rispetto alle tante questioni che giustamente il femminismo solleva”.

Il successo della stand-up comedy

Un’esibizione di Luisa Merloni a Roma. (Giovanna Onofri)

La commedia ha avuto un ruolo fondamentale nella tradizione cinematografica italiana, un genere in grado di rappresentare il paese e i suoi vizi in anticipo sui tempi e senza retorica. Ma tra gli attori comici, le donne sono sempre state relegate al ruolo di spalla, a parte qualche eccezione.

Da qualche anno, tuttavia, le cose stanno cambiando e c’è una nuova generazione di attrici e autrici che vogliono essere al centro della scena, anche grazie all’influenza della stand-up comedy di origine statunitense e in generale anglosassone, che in Italia però si è innestata in una tradizione autoctona di teatro d’improvvisazione, avanspettacolo, quello che Luisa Merloni definisce “il teatro dello scantinato”. Merloni, attrice, autrice comica e performer romana, ha addirittura dedicato un corso dell’accademia Molly Bloom alle donne che si vogliono cimentare nella scrittura comica. Insegna a comporre pezzi comici, ma al corso possono iscriversi solo le donne.

“Le ragazze hanno molta voglia di fare questo tipo di comicità, che tradizionalmente è appannaggio degli uomini e addirittura mette al centro dei temi un po’ misogini. La moglie e la suocera rompiscatole sono spesso un obiettivo polemico di questo tipo di comicità, per esempio”, spiega Merloni. La fortuna della stand-up è molto legata alla radio e ora vive una nuova stagione di successo grazie ai social network, ai podcast e a tutte le piattaforme in streaming.

Su Amazon prime la serie LOL: chi ride è fuori dedicata alla stand-up ha avuto un grande seguito, ma anche podcast come Cashmere e Tintoria sono molto amati. L’attrice italiana di stand-up comedy più famosa è sicuramente Michela Giraud, romana, 35 anni, concorrente di LOL, conduttrice di Comedy Central News, autrice di diversi spettacoli tra cui Michela Giraud e altri animali, protagonista di una serie su Amazon prime inspirata all’americana The marvelous mrs. Maisel intitolata La fantastica signora Giraud. “In America se fai la comica puoi avere un tuo special, una serie, un film, un programma, teatri pieni. Mentre in Italia… Ecco”, dice Giraud nel monologo del primo episodio della serie.

“Qui le cose sono un po’ diverse: non ci sono jazz club, non c’è l’Upper west side, il numero delle comiche donne è inferiore a quello degli scontrini emessi”. In una cosa siamo uguali all’America degli anni sessanta: “Una madre di famiglia che faceva la comica era vista come la figlia del demonio. Anche qui in Italia. Sessant’anni dopo. E non sono nemmeno una madre di famiglia”.

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I programmi di stand-up in streaming hanno preso il posto dei programmi della tv generalista, che per molto tempo sono stati un trampolino di lancio per alcuni dei migliori autori e attori italiani di satira negli anni ottanta e novanta: La tv delle ragazze, Avanzi, l’Ottavo nano, Pippo Chennedy show, Parla con me, Propaganda live. Soprattutto La tv delle ragazze – condotto e ideato da Serena Dandini nel 1988 – è stato un palcoscenico per la comicità femminile, portando alla ribalta attrici come Angela Finocchiaro, Syusy Blady, Cinzia Leone, Francesca Reggiani, Alessandra Casella, Sabina Guzzanti e Lella Costa.

In uno degli episodi della trasmissione, Syusy Blady, vestita da cameriera, si infila nella camera da letto di Franca Valeri e le chiede che ne pensa dell’ironia femminile. “L’ironia non è una cosa femminile, è ironia e basta. O ce l’hai o non ce l’hai”, risponde categorica Valeri, che poi aggiunge: “L’ironia è una cosa crudele, perché bisogna mettere in rilievo le debolezze delle persone, non è una villanata come usa ora. Ma è una cosa crudele”.

Anche per Luisa Merloni, Franca Valeri è stata un modello imprescindibile. “I miei grandi amori sono stati Franca Valeri e Massimo Troisi”, racconta. “In Italia la televisione ha fagocitato i comici che venivano dal teatro, invece ora c’è una specie di ritorno al teatro”. Anche se poi i pezzi finiscono su YouTube o su Netflix o nella tv generalista, ma c’è un ritorno al teatro e al locale in cui si esibiscono gli stand up comedian. “Nella stand-up è necessario il pubblico, il rapporto con il pubblico dal vivo”, spiega Merloni, che s’ispira molto anche alle stand-up comedian americane come Sarah Silverman, Ali Wong, Lynne Koplitz, Amy Schumer. “In America ogni minoranza scherza sulle discriminazioni che la riguardano e sul politicamente corretto”.

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Per Merloni, la stand-up ha portato nella comicità italiana la possibilità di scherzare anche su temi molto seri, politici o addirittura tabù come la malattia, la genitorialità, la discriminazione, il femminismo, il politicamente corretto.
Il suo monologo Aristotele’s Bermuda prende in giro i tic e le rigidità del femminismo, il patriarcato è un mostro che si manifesta con un vocione: “Il politicamente corretto è un arma a doppio taglio, è censorio, rischia di diventare una forma di conformismo. Quindi è molto difficile, un crinale delicato, ma è importante renderlo oggetto di ironia”.

“Se sei un comico, sei subito un autore, non puoi essere un oggetto passivo, per questo per le donne è anche un elemento di empowerment, di rottura degli stereotipi, di presa di parola”, spiega Merloni. Nella tradizione italiana, più caratterizzata dalla comicità del teatro dell’arte, del comico come maschera, la stand-up ha portato l’elemento dell’autenticità e della spietatezza. “C’è un lato perfino intellettuale nella stand-up, che tuttavia non perde l’aspetto popolare”, continua.

“La comicità è dura: se una cosa funziona le persone ridono, se non funziona lo capisci subito. Però per scrivere bisogna essere libere da questo tipo di condizionamenti: ho aiutato le mie allieve a non cercare sempre il risultato immediato, il riconoscimento”. A un certo punto “ho addirittura cominciato a esclamare: ‘Bravette’, quando facevano qualcosa di convincente, invece del solito ‘brave’, per non spingerle alla competizione. Mi sembra che tutti siamo troppo influenzati da questo desiderio di riconoscimenti, di apprezzamenti. E la creatività non ne guadagna”.

C’è poco da ridere

Gioia Salvatori. (Alessandro Cantarini)

Sempre romana, Gioia Salvatori, non si definisce una “stand-up comedian”, anche se i suoi spettacoli sono dei monologhi dal vivo di cui è anche autrice e la sua fama è arrivata da Instagram, il social network in cui ha aperto un diario video in cui mette in scena le quotidiane inadeguatezze di una ragazza, Cuoro. “L’alternativa sexy alla pulsione di morte”, è il sottotitolo del blog. Continua a fare anche l’attrice di prosa: è stata per esempio la protagonista di uno spettacolo di Lucia Calamaro, Darwin inconsolabile, in scena al teatro Argentina di Roma e al Piccolo di Milano nella scorsa stagione. Ma il suo grande amore rimane il teatro comico.

“Vengo dalla comicità classica, ho studiato la commedia dell’arte”, racconta. Una tesi di laurea su Franca Valeri, anche per lei sono punti di riferimento Anna Marchesini, Bice Valori, Paola Cortellesi. Ha scelto la comicità perché,”sono un’autrice e la comicità mi permette di dire sempre la mia, di metterci sempre anche del mio, uno sguardo poetico e politico”. Ogni sketch di Cuoro si conclude con la frase: “Sono felice, ho detto la mia”.

È critica rispetto alla stand-up e la relativa fortuna che sta conoscendo, perché si sente esponente di una comicità meno assertiva, più poetica, che parte proprio dalla consapevolezza della fallibilità degli esseri umani. “Ho preso a modello i clown e anche un po’ i cartoni animati; una comicità che si sottrae, che rivendica anche il diritto di essere scemi”, racconta. Un po’ come Franca Valeri si è esercitata a descrivere i modelli troppo normativi della femminilità e le loro nevrosi.

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“Per esempio ho riscritto le eroine dei romanzi: madame Bovary è una di quelle che ho smontato. La sua infelicità era proprio frutto di questa mancanza di emancipazione. Nella speranza di trovare qualcuna che mi ispirasse, ho riscritto le eroine della letteratura, ma niente”, racconta. La sua ispirazione viene spesso dalla retorica dominante, dal desiderio di smascherarne l’ipocrisia: “Viviamo in un tempo in cui non c’è molto da ridere, invece c’è una grande rimozione. Sarebbe da elaborare un grande lutto, per esempio per la crisi ambientale. Da questo attingo per ridere e fare ridere. Rompere questa retorica del ‘va tutto bene’”.

Cuoro rivendica il diritto di spostarsi dalla realtà, di sparire, di non rispondere, di non reagire, di non essere utile. S’ispira alla presenza magica e sorprendente dei cartoni animati e all’improvvisazione del jazz: “L’inutilità è di grande conforto, da qui nasce la mia poetica e la mia comicità. Mi piace chi riesce a essere aggressivo, ma io vado su un registro più surreale, assurdo, non voglio essere costretta a commentare continuamente il presente, come fanno in tanti”.

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Le piace viaggiare tra i generi, mischiare i linguaggi: ha una trasmissione alla radio con Daniele Parisi, Christian Raimo e Ivan Talarico, Le ripetizioni, che è nata da un collettivo comico romano che si chiamava Sgombro e che si è sviluppata intorno al Cinema Palazzo occupato di San Lorenzo, uno degli spazi che come il Rialto oppure il collettivo Ugo, è stato un incubatore di attori e attrici comiche nella capitale.

“L’arrivo della stand-up ha aperto altri spazi di sperimentazione dal vivo”, sottolinea. Ma la tentazione per i romani è quella di cadere nel sarcasmo: “Per me il sarcasmo è l’orrore: una lontananza dalla vita per cui la guardi addirittura da fuori. Il romano deve stare sempre attento a questo: a non perdere il rapporto con la fragilità, con il cuore, a non scivolare nel sarcasmo”. Del femminismo dice: “Può essere un discorso per signorine di sinistra di buona famiglia, non mi convince se non è insieme anche lotta di classe”.

Scrive per il web, ha un blog, fa l’attrice in teatro, ogni tanto va in tv. “Il tempo della pandemia ha necessitato che si aprisse uno spazio di vulnerabilità, di fragilità senza insistere sull’autocommiserazione”, continua. Per molti invece è stato uno spazio di paura e quasi di dissociazione, per questo la parola poetica e la comicità (che non può fare a meno della fragilità dell’essere umano) sono uno strumento per riconnetersi alla propria fragilità, per superare quella dissociazione e quella rimozione che ha generato disumanità e violenza. Di ridere, di piangere, di paura è il suo ultimo spettacolo che andrà in scena al Kilowatt festival di Sansepolcro a luglio: “Si tratta di poesie che ho scritto durante il confinamento, sono comiche”.

Per Cuoro la comicità mette al centro la parola, ma sottolinea, “solo quella messa in una forma artistica”. Non le interessa l’autofiction che è tanto in voga: “I contenuti senza una forma non mi interessano”. L’arte, per Cuoro, è sempre finzione: “In scena, anche sui social network, sono sempre un personaggio, mai me stessa. Quello mi permette un’apertura vera”. Anche perché, conclude, “come persona sono noiosa. Vuoi mettere Zeno della Coscienza di Zeno? Chi sono io per insegnare qualcosa?”.

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