Il caso dello stupro di gruppo di una ragazza di diciannove anni compiuto da sette coetanei lo scorso luglio a Palermo è tornato a far parlare di sé e ha riacceso la discussione pubblica intorno alla violenza sessuale. La vicenda ha avuto una grande copertura sui mezzi d’informazione, ha occupato giornali e trasmissioni televisive per settimane, e provocato reazioni nel mondo politico e sui social network. Sono circolate informazioni sensibili e foto delle persone coinvolte, dettagli pruriginosi, stralci di chat e intercettazioni.

La settimana scorsa Nunzia De Girolamo ha ospitato ad Avanti popolo, su Rai 2, la ragazza che ha denunciato lo stupro. L’intervista è stata duramente criticata dalla commissione pari opportunità della Rai e dal sindacato dei giornalisti dell’azienda pubblica Usigrai. Nella nota che hanno diffuso hanno denunciato il fatto che alla diciannovenne non è stato risparmiato “di rivivere nei minimi dettagli il trauma subito, compresa la lettura delle agghiaccianti intercettazioni degli stupratori”. Il tutto in un contesto di “inaccettabile vittimizzazione secondaria: dal servizio introduttivo in cui si dà voce a chi dice che lei ‘vestiva in modo provocante’ e ‘postava su tik tok video osè’, alla sequela degli oltraggiosi e insultanti messaggi ricevuti sui social riprodotti graficamente, alla raccolta di ‘vox populi’ che la giudicano, le danno la colpa all’insegna del ‘ci stava’, ‘le piaceva bere’, ‘se l’è cercata’”. Anche una lettera aperta alla Rai di scrittrici, attiviste e intellettuali ha sottolineato la “spettacolarizzazione dello stupro” e la “vittimizzazione secondaria” andata in onda nella trasmissione di di De Girolamo.

Purtroppo quello di Palermo non è stato l’unico – e ultimo – caso di stupro avvenuto in Italia. Poco dopo è stata diffusa la notizia delle violenze sessuali subite da due cugine minorenni, compiute da un gruppo di adolescenti a Caivano, vicino Napoli. Questi e altri casi di violenza di genere fanno parte di quello che il New York Times ha definito un periodo di “crimini atroci, inclusi gli stupri di gruppo di giovani ragazze”, che ha “acceso una luce sull’atteggiamento del paese nei confronti delle donne”. La vicenda di Palermo mostra molto bene come in Italia sia difficile parlare di stupro e del sistema che produce stupratori. È bene tornarci per capire alcuni dei meccanismi di questo sistema.

I mostri e i lupi

Pochi giorni dopo ferragosto sette ragazzi tra i diciassette e i ventidue anni sono stati arrestati nel capoluogo siciliano con l’accusa di aver stuprato una diciannovenne e di aver filmato la violenza. La ragazza ha raccontato di aver incontrato un conoscente che era in compagnia di alcuni amici nella tarda serata del 6 luglio alla Vucciria, storico mercato del capoluogo siciliano, oggi molto frequentato nelle ore notturne per via di locali e chioschi dove bere e mangiare.

Secondo le ricostruzioni, lei aveva bevuto e loro l’hanno condotta verso il foro italico Umberto I, il lungomare di Palermo. In un cantiere della zona è stata stuprata da sei dei ragazzi, mentre uno riprendeva la scena. Dopo la violenza, il gruppo si è allontanato per andare a mangiare qualcosa. La ragazza, rimasta sola e dolorante, è stata soccorsa da due donne, ha chiamato il fidanzato e poi un’ambulanza. Successivamente, ha denunciato quello che le era successo.

Dopo essere stati individuati, i sette si sono difesi dicendo che si sarebbe trattato di un rapporto consensuale. Questa versione è però contraddetta dai video circolati tra i contatti del ragazzo che li ha girati. Le chat sul telefono degli accusati e le intercettazioni confermano il racconto della vittima. In una si sente dire a un ragazzo di essersi “schifato un poco”, ma che “la carne è carne”. In altre ci sono scambi di commenti espliciti che lasciano pochi dubbi. Da questi messaggi, ha scritto la giudice per le indagini preliminari Clelia Maltese, “si coglie la consapevolezza dell’azione violenta e della realizzazione dei rapporti sessuali con modalità aggressive e violente che avevano devastato fisicamente la ragazza”.

Doppia violenza
Una donna che subisce uno stupro a volte non reagisce. Per questo spesso non viene creduta o viene colpevolizzata. Ma la sua è una risposta involontaria dettata dall’istinto di sopravvivenza

Del caso si è parlato per settimane, con una copertura caratterizzata dal sensazionalismo e dalla morbosità nei confronti di dettagli e particolari della violenza, e delle persone coinvolte. Sotto accusa sono finiti il branco, le loro famiglie, il contesto sociale. Tra i termini più diffusi per descrivere gli autori della violenza ci sono stati “mostri”, “bestie” e “animali”. A questa narrazione si è opposto fin da subito le femministe di Non una di meno a Palermo, organizzando manifestazioni in città. “Lo chiamano branco, li chiamano mostri, urlano all’ergastolo: questa retorica e questo linguaggio non fanno altro in realtà che deresponsabilizzare e individualizzare soltanto sui sette ragazzi la cultura dello stupro che in realtà ci circonda tutti i giorni. Non erano mostri, né cani, né un branco in movimento: ragazzi, come i tanti che tutti i giorni dalle chat su WhatsApp al catcalling, dallo stalking ai mille processi di virilità tossica, sono figli del patriarcato di cui riproducono la violenza”, hanno scritto le responsabili del movimento.

Nel saggio Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale (Il Mulino 2017) Elisa Giomi e Sveva Magaraggia spiegano che la “mostrificazione” del violento nel discorso mediatico è “la strategia più ricorrente per esorcizzare la violenza, liquidandola come aberrazione individuale e degenderizzandone la lettura”.

La lettura di genere e l’analisi del sistema sono mandate in fumo da proposte come quella della Lega, che vuole introdurre la castrazione chimica nei confronti di chi è condannato per delitti di violenza sessuale. “Se stupri una donna o un bambino hai evidentemente un problema. La condanna in carcere non basta, meriti di essere curato”, ha detto il vicepremier Matteo Salvini.

Una convinzione diffusa è che chi subisce uno stupro deve fare tutto il possibile per evitarlo

Raccontare gli autori di stupro come bestie rafforza anche l’immaginario per cui la violenza sessuale sarebbe spinta da un desiderio carnale irrefrenabile, conseguenza di una sessualità maschile necessariamente animalesca. Oltre ad annullare qualsiasi aspetto riguardante il potere, si tiene fuori quella che è definita “cultura dello stupro”: “Un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta”, secondo la definizione che nel 1993 ne ha dato il saggio Transforming a rape culture.

Corollario di una concezione di questo tipo è che sia chi subisce uno stupro a dover fare tutto il possibile per evitarlo. È una convinzione molto radicata, specchio di una società che quando parla di violenza sessuale si rivolge il più delle volte alle donne. Come potrebbe essere altrimenti, se chi commette violenza è identificato come mostro o animale?

Poco dopo lo stupro di Palermo hanno fatto molto discutere le parole di Andrea Giambruno, giornalista ed ex partner della presidente del consiglio Giorgia Meloni, su Rete 4: “Se vai a ballare, tu hai tutto il diritto di ubriacarti (…) ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi”. Il concetto non è diverso da quello espresso quarantacinque anni prima dall’avvocato di uno dei quattro imputati per la violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza diciottenne, trasmesso nel documentario Processo per stupro: “Se questa ragazza fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente”.

In un articolo pubblicato all’indomani di un fatto di violenza di genere molto discusso nel Regno Unito, la giornalista Arwa Mahdawi scriveva che è come se le donne fossero tenute a rispettare una sorta di coprifuoco: “Siamo abituate al fatto che le libertà e i corpi delle donne siano oggetto di dibattito. Siamo abituate a sentirci dire che dobbiamo modificare il nostro comportamento in reazione alla violenza maschile”.

I grandi assenti

“Davanti a casi come quello di Palermo la mostrificazione degli autori permette agli uomini di dispiacersi ma tirarsi fuori dicendo: ‘Ecco, quello è il mostro, lui non è come me’. I mostri stanno alla base della piramide, vivono nell’Italia del sud, in un quartiere degradato, sono poco scolarizzati, e sono caratterizzati da qualunque cosa possa spiegare anche una serie di comportamenti socialmente spregevoli”, spiega il filosofo Lorenzo Gasparrini.

Questo modo di pensare rende i maschi adulti i grandi assenti dal dibattito: “Impedisce agli uomini di fare un discorso di genere. La domanda che dovrebbero farsi e non si fanno è: cos’abbiamo in comune con gli stupratori?”. Secondo Gasparrini vanno creati “momenti e luoghi in cui i maschi si riuniscano senza cameratismo. Quando gli uomini sono da soli in gruppo di solito rafforzano una certa immagine del maschile. E invece bisognerebbe smontarla. Occorrono occasioni in cui stare insieme da adulti e parlare di queste cose, fuori dai ruoli”. È un discorso che deve partire dalla scuola: “Bisogna che dia strumenti per gestire emozioni e situazioni, e per identificare quel modello patriarcale ancora proposto come se fosse ovvio e naturale, cosa che invece non è”, aggiunge.

Secondo un’indagine condotta da Ipsos per ActionAid su un campione di ragazze e ragazzi tra i quattordici e i diciannove anni, per quattro giovani su cinque una donna può sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole, mentre per uno su cinque le ragazze possono provocare la violenza sessuale con abbigliamenti o comportamenti provocanti, e non è violenza toccare le parti intime senza consenso. Per la responsabile del settore educativo dell’organizzazione, Maria Sole Piccoli, “la violenza tra adolescenti ha le radici nella società patriarcale, che ancora oggi influenza il processo di crescita delle nuove generazioni e non permette di sovvertire dalle fondamenta la cultura dello stupro”.

La giovane età di vittima e accusati è stata una delle questioni su cui si è concentrato il discorso pubblico intorno allo stupro di Palermo. Sull’onda del caso e della violenza di gruppo di Caivano, il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha annunciato un progetto di educazione alla sessualità nelle scuole di secondo grado, che però ha suscitato le critiche di associazioni ed esperti per modalità, durata e carattere emergenziale.

È vero che negli ultimi anni nei centri antiviolenza sono cresciuti i casi di violenza sessuale su ragazze giovani. “Negli ultimi due anni nelle nostre strutture abbiamo notato un aumento di circa il 10 per cento dei casi, con un’età che si è abbassata notevolmente, tra i diciotto e i venticinque anni. Dati poi confermati anche a livello nazionale”, dice Simona Ammerata, ex responsabile del centro antiviolenza di via Titano, a Roma, nei due anni in cui a gestirlo è stata l’associazione Lucha y siesta.

Rispetto a questi dati, ce n’è uno più difficile da monitorare, che è quello che riguarda la violenza online. “Prendiamo il caso di Palermo: i video, i nomi, gli indirizzi, tutto diventa pubblico. E si aggiunge alla violenza diretta già subìta. È difficile da elaborare, perché va oltre il gruppo di persone conosciute”, dice Ammerata.

Pensare che sia solo un problema dei ragazzi però è un errore. Quello che emerge dal caso di Palermo e dall’esperienza dei centri antiviolenza, è che “a livello individuale esiste di sicuro un’assoluta incapacità di capire l’abuso che si sta commettendo. Ma succede perché ci sono gli adulti e una società che aiutano a costruire questa sorta di colpevole inconsapevolezza: favorisce il comportamento di chi abusa, ma anche la stigmatizzazione di chi subisce quell’abuso e la normalizzazione del pensiero secondo cui donne e uomini hanno un valore diverso”, aggiunge Ammerata.

Qualche settimana fa su la Repubblica la sociologa Chiara Saraceno scriveva che per affrontare il tema della violenza di genere non servono minacce punitive come la castrazione chimica, ma un “lavoro culturale diffuso che aiuti a costruire un modello di maschilità che non dipenda da un malinteso senso di superiorità e possesso nei confronti delle donne”.

Un lavoro che deve coinvolgere la scuola, investire criticamente il mondo dei mezzi d’informazione, ma anche mettere in discussione la società intera, compresi i maschi adulti. “Sono anni che le associazioni che si occupano di questioni di genere e i movimenti transfemministi dicono che non serve concentrarsi esclusivamente sulle punizioni, se non si fa nulla a livello educativo e culturale. Non funziona, perché il problema è più grande e riguarda la società. Il punto è che non lo si vuole mettere in discussione”, afferma Ammerata. “È come tentare di fermare una crepa in una diga con un dito”.

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