La ricerca storica dibatte da tempo su quando cominci e finisca quel periodo che chiamiamo Medioevo. La ricerca archeologica cerca di rispondere andando a vederne le tracce materiali, che nelle città giacciono sepolte nel sottosuolo o emergono ancora nella loro monumentalità (pensiamo alle tante chiese più che millenarie), oppure sono nascoste sotto gli intonaci delle case in cui abitiamo.

L’archeologia urbana racconta questo paesaggio stratificato e arricchisce la percezione della città in cui passiamo le nostre esistenze. Ho avuto la fortuna di praticarla per tanti anni in un ettaro abbandonato in via delle Botteghe oscure a Roma o nel verde del primo miglio della via Appia antica fino alla cerchia delle mura.

I paesaggi sono organismi complessi, contesti che si sono sovrapposti nel corso dei secoli come il risultato di un’attività collettiva, dove ogni elemento vive un sistema di relazioni con ciò che gli sta accanto, sopra o sotto; dove ogni cosa ha un senso, a volte immediatamente percepibile, altre volte bisognoso di studio per essere colto.

La potenza fisica e mentale dello sguardo, grazie alla forza della nostra immaginazione, restituisce l’aspetto dei paesaggi perduti, mescolando l’immagine fantastica di un sogno a quella realistica di una fotografia. Per questo Roma si offre come un palcoscenico senza pari.

Possiamo puntare il nostro obiettivo su scheletro e corpo della città: sui suoi strati di terra e macerie, mobili e talora incoerenti, e sulle sue architetture, che delimitano e rendono riconoscibili gli spazi di vita, le esigenze, le conoscenze di chi vi ha abitato, le persone che Roma l’hanno fatta e subita.

Come in ciascuno di noi, in ogni città stratificata passato e presente convivono. La storia prosegue imperterrita, e i luoghi accolgono, antichi e nuovi a un tempo, questa continuità, che è fatta di larghe persistenze e di trasformazioni profonde. Eppure esistono anche le grandi cesure.

Il Medioevo a Roma ci propone una domanda forse impossibile di fronte a una realtà talmente complessa da non poter essere dominata: “quante Rome?”, quante città si sono succedute sullo stesso suolo dal solco di Romolo all’attuale metropoli? Questa domanda insensata prende concretezza se la poniamo con parole diverse: “In quale Roma camminiamo quando usciamo da una casa del centro storico e ne percorriamo le sue vie?”.

Le nostre attuali conoscenze hanno messo in luce un momento epocale, quando il suolo di Roma fu sistematicamente rialzato di molti metri, quasi a suggellare qualcosa che aveva concluso il suo ciclo vitale e sul quale una nuova città avrebbe preso corpo.

Oggi possiamo forse dire che risale a novecento anni fa, nei primi critici decenni del dodicesimo secolo, il momento in cui Roma antica, dopo sette secoli di agonia, definitivamente muore, e una nuova Roma, quella in cui oggi ancora abitiamo, lentamente si ricostruisce pietra su pietra.

Tutto ciò sembra dunque avvenire nel cuore del Medioevo, un periodo millenario che, dal punto di vista della forma stratificata della città di Roma, ci appare così distinto in due epoche tra loro fisicamente separate, metafora del nostro rapporto di moderni con il passato, fatto di certezze e di ambiguità.

Daniele Manacorda è stato professore di metodologie della ricerca archeologica presso l’Università degli studi Roma Tre. Ha scritto il libro Paesaggi di Roma medievale (Viella 2021).

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