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Tra le circa settemila lingue parlate oggi nel mondo, difficilmente si rintraccia un vocabolario privo di un repertorio più o meno esteso di espressioni deputate a svolgere una specifica funzione: insultare gli altri. Da una lingua all’altra i termini di insulto variano per quantità, contenuto, grado di volgarità e potenziale offensivo o discriminatorio.

Nella sola lingua italiana, per esempio, i vocaboli capaci di veicolare contenuti spregiativi e offensivi sono più di duemila, senza contare i termini neutri che attivano stereotipi offensivi (per esempio “asino” o “cesso”), le espressioni più obsolete o quelle di basso uso.

Eppure, a dispetto della pervasiva presenza di queste parole nel vocabolario e nella lingua parlata, le scienze del linguaggio, per varie ragioni (compreso un certo pudore teorico), hanno per lungo tempo estromesso termini insultanti e vocaboli denigratori dal proprio raggio di interesse scientifico. La stessa sfortunata sorte è toccata a fenomeni come il turpiloquio, le imprecazioni, il lessico sessuale e quello blasfemo, propri di quell’ambito di indagine che il linguista statunitenseArnold Zwicky definiva la “scatolinguistica”, cioè lo studio dei fenomeni linguistici considerati osceni o profani.

Da qualche anno, presso il laboratorio di linguaggio e cognizione dell’università di Genova, abbiamo cominciato a studiare il modo in cui la mente umana comprende le parole offensive. In termini tecnici, quando si ha a che fare con aggettivi come “maledetto”, “fottuto” o con epiteti come “cretino” o “stronzo” si parla di “espressivi negativi”: espressioni che comunicano l’atteggiamento negativo di un parlante nei confronti di un certo oggetto o individuo.

In un recente esperimento, utilizzando la tecnica dell’eye-tracker, una telecamera a infrarossi che registra i movimenti oculari di un soggetto sullo schermo di un computer, abbiamo provato a capire quale ruolo giocano queste parole quando compaiono all’interno di una frase.

I partecipanti allo studio, circa un centinaio, ascoltavano enunciati con termini spregiativi come “Il cameriere mi ha portato una maledetta insalata”, mentre osservavano sullo schermo un’insalata accanto ad altre tre immagini di pietanze.
Dai dati raccolti è emerso che, quando veniva reso noto che a pronunciare la frase era una persona poco incline a mangiare verdure, i partecipanti puntavano lo sguardo sull’immagine dell’insalata al solo ascolto della parola “maledetta”, prima ancora di udire la parola “insalata”. In altre parole, nella comprensione del linguaggio, gli espressivi sembrano giocare una funzione anticipatoria.

Insomma, è vero che gli insulti e le parolacce sono spesso sintomo di volgarità e scarsa educazione. Ma se le circa settemila lingue parlate nel mondo mettono a disposizione vasti repertori di espressioni offensive è perché queste parole rispondono a una precisa esigenza espressiva dei parlanti e, forse, anche perché comportano dei benefici sul piano cognitivo. Per esempio: rendono la comprensione del linguaggio più rapida ed efficiente. ◆

Filippo Domaneschi è professore associato presso il dipartimento di antichità, filosofia e storia dell’università di Genova.

B. Cepollaro, F. Domaneschi, I. Stojanovic, When is it ok to call someone a jerk? An experimental investigation of expressives, Synthese (2021)

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