Illustrazione di Andrea Serio

Per una torinese abituata a frequentare lo storico mercato del Balôn di sabato, aggirarsi per le strade dietro porta Palazzo di martedì fa l’effetto straniante, e calmante, di una discoteca vuota con le luci accese.

Sarà che è l’ora di pranzo, sarà il freddo, ma non s’incrocia quasi nessuno. Alla trattoria Valenza, un’istituzione del quartiere dove il sabato è quasi impossibile trovare un tavolo, non è stato necessario prenotare. Maria Teresa Ninni, 64 anni, viene a mangiare qui dagli anni settanta, quando al Balôn si riuniva con amici e compagni di lotte politiche. Abbigliamento informale, sguardo profondo come la sua voce un po’ roca, ricorda: “Se avevo bisogno di soldi raccattavo delle cose vecchie e venivo qui a venderle”.

All’epoca al Balôn c’era ancora un mercato del libero scambio, in cui si vendevano oggetti recuperati dallo sgombero di soffitte e cantine, o salvati dai rifiuti. Nel tempo, alcuni lo hanno definito “illegale” o “dei poveri”. Due anni fa è stato spostato in una zona periferica di Torino, per lasciare spazio a negozi di modernariato e bancarelle regolari. “A volte ci si fissa sul rispetto delle regole, ma le regole esistono anche per essere rotte”, osserva Ninni.

Il trasferimento del mercato informale è il segnale di una tendenza in atto in molte città: sottrarre alla vista ciò che disturba una certa idea di decoro. A Torino c’è un solo luogo destinato esclusivamente a offrire sostegno e assistenza alle persone che fanno uso di droghe: il drop-in ospitato in una sezione dell’ospedale Amedeo di Savoia, su corso Svizzera, in un punto della città dove non si passa per caso. Ninni lavora in quel centro dal 1997, anno in cui è stato inaugurato.

Tra pari

Nel drop-in si mettono in atto i cosiddetti programmi per la riduzione del danno, cioè una serie di strategie e interventi che hanno l’obiettivo di offrire sostegno e informazioni ai consumatori di droghe, eroina ma non solo. Si distribuiscono siringhe sterili e pipette per fumare il crack, preservativi, naloxone da iniettare in caso di overdose. L’atteggiamento verso le droghe e chi ne fa uso è totalmente non giudicante, diverso da quello delle comunità di recupero.

In Italia i primi drop-in nacquero alla fine degli anni novanta, in risposta alla diffusione del virus dell’hiv. Un’emergenza che ha coinvolto Ninni in prima persona. “Nel 1988 tornai a Torino dopo alcuni anni trascorsi in Spagna e mi resi conto che diverse persone intorno a me erano sieropositive”. Tra loro c’erano un parente stretto e un amico caro. “Era gay, quindi puoi immaginare quanto fosse stigmatizzato. Nell’ufficio dove lavorava, i colleghi lavavano la cornetta dopo ogni sua telefonata”.

Insieme decisero di creare dei gruppi di auto mutuo aiuto affinché le persone sieropositive che facevano uso di droghe potessero sostenersi a vicenda dal punto di vista pratico ed emotivo. Ninni era una delle poche partecipanti a non aver contratto il virus dell’hiv e s’impegnò soprattutto nella distribuzione di siringhe sterili a chi faceva uso di eroina.

Il suo amico morì nel giro di pochi anni, ricorda Ninni, che ancora oggi porta avanti la loro lotta. Nello stesso periodo entrò a far parte dell’associazione L’isola di Arran, tramite la quale contribuì all’apertura del drop-in di Torino, uno dei primi in Italia. L’idea era nata dall’esperienza di un’unità mobile, ovvero un camper che distribuiva materiale sterile. “Al tavolo di lavoro passò il concetto che il sostegno tra pari, il peer support già diffuso in altre aree d’Europa, era un valore aggiunto”, spiega Ninni, che non ha mai nascosto la sua personale esperienza con le droghe.

Alla progettazione del drop-in parteciparono l’azienda sanitaria locale e alcune associazioni tra cui il Gruppo Abele. A Torino, e in tutto il Piemonte, oggi i drop-in sono interamente gestiti dall’asl. È uno dei pochi casi in Italia. “Ho sempre giudicato molto positivamente il fatto che il servizio pubblico si assumesse onere e responsabilità dei programmi per la riduzione del danno”, afferma Ninni. “In generale questi programmi sono dati in gestione al terzo settore”. In 25 anni di lavoro tuttavia si è anche resa conto che il legame con enti pubblici comporta il rischio di improvvisi tagli ai fondi: “Significa dipendere ogni volta da una diversa amministrazione e non è facile fare piani a lungo termine”.

Ninni fu assunta come operatrice pari (peer operator), mentre oggi ha un contratto da educatrice. Fa parte di ItanPud, il network italiano delle persone che fanno uso di droghe, con il quale porta avanti una battaglia culturale. “È importante non parlare di ‘tossici’, e neppure il termine ‘consumatori’ è corretto”, spiega. “Riduce le persone alle sostanze di cui fanno uso, è disumanizzante. Il linguaggio è centrale, è attraverso il linguaggio che si creano semplificazioni e categorizzazioni”. Per spiegarmi che solo una minima parte delle persone che fanno uso di sostanze è “presa”, cioè dipendente, Ninni indica i nostri bicchieri di vino rosso: “Sarebbe come dire che io e te siamo dipendenti dall’alcol”.

Al drop-in si rivolgono soprattutto persone con problemi di dipendenza, ma non solo. Molte vivono in povertà, alcune non hanno fissa dimora, altre subiscono violenze. Le donne sono una minoranza, tranne il mercoledì mattina quando il centro è aperto solo a loro e diventa anche uno spazio dove tingersi i capelli o condividere storie. “Sono sempre le donne a pagare il prezzo più alto”, dice Ninni. “Nelle coppie non è raro che siano costrette a prostituirsi, e che gli uomini invece di difenderle le lascino sole”.

Una questione ideologica

Tra le droghe che creano più problemi, spiega, c’è il crack. “Ha un effetto simile alla cocaina iniettata – un flash forte – con un down (un calo degli effetti) abbastanza rapido. La gente non smetterebbe più di fumarlo”. Ma al drop-in arrivano anche persone che fanno un uso di droghe controllato, soprattutto nel caso dell’eroina. “Sono in terapia con il metadone e hanno una normale vita lavorativa”.

A questo punto Ninni mi parla di Carl Hart, professore di psicologia alla Columbia university, conosciuto per le ricerche sull’effetto delle droghe a livello neurologico, ma soprattutto per aver dichiarato pubblicamente di far uso di eroina. Ninni ha ascoltato un suo intervento alla conferenza internazionale sulla riduzione del danno che si è svolta a Porto, in Portogallo, nel 2019. Hart ha anche partecipato da remoto a un incontro che si è svolto a margine della VI Conferenza nazionale sulle dipendenze di Genova, lo scorso novembre. Erano passati dodici anni dall’ultima conferenza sul tema. “Dai tavoli di lavoro sono emerse idee interessanti”, sostiene Ninni. “Si è parlato di stanze del consumo e di siringhe in carcere. Nulla di nuovo in Europa, ma per l’Italia è un passo avanti”.

Tuttavia non si fa troppe illusioni. “Ascoltando i discorsi dei politici mi sono cascate le braccia”, dice. “Sembra che non importi cosa insegna l’esperienza, purtroppo le droghe sono ancora una questione ideologica”. Per molti politici, dice, “provare a ridurre il danno significa incoraggiare la gente a farsi. Come se fossero loro a decidere come si comporterà la gente. Possono decidere fino a che punto rovinargli la vita, questo sì, ma le persone continueranno a fare quello che vogliono”.

Il conto

Trattoria Valenza
Via Borgo Dora 39, Torino

1 gnocchi pomodoro e pesto €6,00
1 frittata con erbette e cipolle di tropea €7,00
1 catalogna ripassata €4,00
1 pere al vino €3,00
1 bottiglia d’acqua €3,00
1 quartino di vino della casa €2,00
2 coperti e un caffè €3,00

Totale con lo sconto € 28,00


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