Vent’anni fa lo scandalo degli abusi sessuali sui minori commessi dai preti scoppiava con clamore negli Stati Uniti, inducendo l’episcopato del paese a stilare la prima Carta per la protezione dei bambini e dei giovani nella chiesa; nei vari punti che componevano il documento si parlava tra l’altro di rimozione dal ministero dei sacerdoti o dei diaconi la cui responsabilità fosse accertata e si chiedeva alle diocesi di collaborare con le autorità civili, in nome della trasparenza, nei casi di violenza sui minori.

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti: lo scandalo è dilagato prima negli Stati Uniti per poi fare il giro del mondo ed è lungi dal poter essere archiviato. Nel frattempo, le cose sono cambiate anche in Vaticano: dalla stagione del negazionismo e dell’insabbiamento sistematico, si è approdati, negli anni, a promuovere politiche di tutela delle vittime, di collaborazione con le autorità giudiziarie dei vari paesi, di riflessione sulle cause profonde che sono all’origine dello scandalo: dal clericalismo imperante, inteso come difesa a ogni costo dell’istituzione, all’abuso di potere e di coscienza.

Tutto questo almeno a parole, perché poi ogni legge e regolamento deciso a Roma deve essere calato nella realtà di migliaia di diocesi sparse in tutti i continenti e va da sé che spesso prevale la “prudenza” interna più che la ricerca della verità.

Il silenzio della Cei

In questo senso, la chiesa italiana sembra aver fatto un particolare “voto del silenzio”; si è distinta infatti negli ultimi decenni per una vocazione a lasciare le cose come stanno confidando nel fatto che, prima o poi, la questione sarebbe diventata una delle tante pratiche inevase dell’attualità. Ma questo non è successo, soprattutto perché lo scandalo ha travolto la chiesa in una pluralità di paesi, fino ad arrivare alla vicina Francia.

Non solo, la vicenda ha prodotto in diverse occasioni due tipi di reazioni: in primo luogo l’affidamento da parte delle stesse conferenze episcopali di un’indagine conoscitiva del fenomeno a commissioni esterne, proprio per evitare il rischio di giudizi poco attendibili sotto il profilo storico e statistico; in seconda battuta, in varie realtà, la gravità dei fatti emersi ha suscitato un sommovimento interno alla chiesa con richieste di cambiamenti strutturali o dottrinali importanti.

È il caso della stessa Francia e soprattutto della Germania (ma qualcosa di analogo è avvenuto anche in Australia, in Austria, in Belgio e altrove). Così, alla fine anche la Conferenza episcopale italiana (Cei) ha dovuto mettere mano, sia pure controvoglia, al problema; la paura dei vescovi italiani è tanta e si capisce bene il perché: ovunque lo scandalo ha portato alla luce casi di insabbiamento gravi di abusi sui minori da parte delle diocesi, di conseguenza diversi vescovi sono stati costretti a dimettersi e, dove questo non è accaduto, la credibilità personale di alcuni di loro è andata in pezzi.

Di recente tuttavia la Cei ha pubblicato un primo, lacunoso report sugli abusi avvenuti in Italia: si tratta dei casi pervenuti ai centri di ascolto diocesani, istituiti in tempi recenti per dimostrare la volontà di affrontare il problema, nel biennio 2020-2021. Un lasso di tempo risibile, per altro in piena pandemia da covid, durante il quale sono giunte comunque 89 segnalazioni di abusi a 30 centri diocesani (si tenga presente che le diocesi in Italia sono 226). Non sono state prese in considerazione dal report neanche le denunce pervenute alla magistratura o alle associazioni.

Tuttavia, la stessa Cei, presentando i dati dell’indagine e rendendosi forse conto della scarsa utilità della ricerca per comprendere la reale portata de fenomeno in Italia, annunciava una seconda indagine in base alla quale è venuto fuori che ci sarebbero circa seicento fascicoli aperti presso la Congregazione per la dottrina della fede relativi a casi di abuso sessuale nella chiesa italiana negli ultimi vent’anni. Si tratta di numeri ovviamente lontani dalla realtà dei fatti che, come hanno dimostrato tutte le indagini condotte in questi anni in chiese di diversa tradizione culturale, sono purtroppo assai più drammatici.

Mele marce

In proposito, Isabelle Cassarà, funzionaria del dicastero vaticano per i laici la famiglia e la vita, osservava nel 2020 in una relazione dal titolo: “La dinamica dell’abuso nelle realtà ecclesiali. Il ruolo del potere”, come “l’impressionante quantità di casi emersi e l’estensione del fenomeno, dimostra chiaramente che il problema degli abusi nella chiesa non può essere ricondotto semplicemente alla presenza di alcune ‘mele marce’, ma è piuttosto il segnale di un sistema malato, di un terreno da bonificare”. Quindi aggiungeva: “Di fatto, nel considerare i casi di abuso di competenza dei suddetti dicasteri della curia romana risultò palese che la causa della grave crisi che stavano vivendo le realtà ecclesiali coinvolte, non era rintracciabile nella sola trasgressione di un singolo, ma era qualcosa di più profondo e di strutturale: ci si rese conto dell’esistenza di una dinamica specifica dell’abuso, un vero e proprio sistema di vita con regole precise, che rivelò in modo inequivocabile che l’abuso sessuale era stato favorito e coperto da una lunga successione di altri abusi di potere e di coscienza”.

Predatori seriali

Il problema, insomma, non è solo statistico, anzi le reticenze nascondono un’impostazione generale. Il presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della Cei, monsignor Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo di Ravenna, presentando l’impegno della chiesa italiana sul fronte abusi in un convegno che si è svolto lo scorso 19 novembre, affermava: “Non faremo una commissione unica nazionale fatta di soggetti che non sanno nulla della vita della chiesa, che sono qualificati come oggettivi solo perché non sono vescovi, né preti, né credenti, che è una cosa che ha prodotto i suoi danni altrove e non è da imitare; noi esamineremo dati reali e cercheremo di trovare vie per la prevenzione. Quello che ci interessa non è mettere alla berlina dei preti, è prevenire abusi e per far questo occorrerà agire in modo deciso, ci siamo impegnati come vescovi a collaborare con le forze dell’ordine e di giustizia”. In sostanza gli unici autorizzati o con le competenze necessarie a compiere indagini sulla chiesa sono gli stessi chierici. In questa prospettiva inoltre, la parola prevenzione, in sé giusta, serve soprattutto come alibi per non fare luce sul passato. Ma c’è un altro passaggio delle cose dette da monsignor Ghizzoni degno di nota, quando spiega il senso della seconda indagine in corso, quella sui fascicoli dei preti abusatori presenti in Vaticano. “Chi commette da 10 a 50 casi nella sua vita – osservava l’arcivescovo - è un abusatore seriale ed è un personaggio pericolosissimo, ma chi commette un solo abuso nella vita, un giorno che ha bevuto, un giorno che era sotto stress, un giorno che si è lasciato provocare, possiamo considerarlo un malato psicologico seriale? Bisognerà pensare a delle soluzioni anche per questi”. Chissà che ne pensa la vittima del prete che quel giorno aveva bevuto. Ma, polemiche a parte, le affermazioni del responsabile nazionale per la tutela dei minori della Cei sembrano un riassunto trasparente, quanto evidentemente inconsapevole, delle motivazioni che hanno indotto la chiesa a difendere se stessa prima che a fare un’opera di giustizia e verità.

Atti impuri

In definitiva, il tema abusi sessuali per le varianti e le implicazioni che comporta, è diventato uno dei nodi sui quali si misurerà la capacità della chiesa di restare dentro il proprio tempo: sessualità, relazioni affettive, celibato obbligatorio, ruolo di laici e donne con compiti di leadership rivestendo anche funzione sacramentale, centralità del clericalismo nel governo della chiesa, fine della cultura della segretezza istituzionale come metodo di governo, sono solo alcuni dei temi inevitabili scaturiti dal dibattito nato da una vicenda in sé più da cronaca giudiziaria che da discussione teologica.

Interessanti risultano su un piano generale del problema, le osservazioni compiute da Christine Pedotti, femminista cattolica e direttrice del periodico francese Temoignage Chrétien che individuava nei due scogli della sessualità e della democrazia le cause della vastità dello scandalo. “Naturalmente - spiegava Pedotti - non esiste un legame diretto tra l’astinenza sessuale richiesta ai chierici cattolici e gli abusi, gli stupri e le aggressioni. Ma esiste un legame indiretto molto potente. In primo luogo, quando qualsiasi forma di attività sessuale, compresa la semplice masturbazione, viene considerata sbagliata, disordinata e peccaminosa, non c’è più una gerarchia di trasgressione: il pensiero ‘impuro’, la masturbazione, lo stupro, sono tutti confusi sotto il termine generico di peccato, al punto che la differenza tra peccato e crimine si confonde”. “Questa confusione - proseguiva - si esprime nelle parole stesse dei responsabili, che non smettono di parlare di peccato, penitenza e perdono, quando dovrebbero parlare di crimine, colpa, vittima, indagine, giudizio e verdetto”.

Il problema, secondo la studiosa, è che “dal punto di vista della chiesa, la sessualità viene giudicata nel suo rapporto con il sesto comandamento (non commettere adulterio, ndr) cioè con una norma, e non nella sua qualità relazionale e nel suo rapporto con il consenso. In un rapporto non consensuale viene violata una persona, non un comandamento. Ecco perché le vittime vengono regolarmente ignorate”. Dal punto di vista della gestione dei casi da parte dell’istituzione, poi, la direttrice di Temoignage Chrétien affermava: “La democrazia e le regole e i costumi che ne accompagnano l’esercizio sono anche una garanzia contro gli abusi. In un contesto democratico, i poteri sono separati e controllati. L’indipendenza della magistratura è garantita, i diritti della difesa e dell’imputato sono tutelati. Salvo casi particolari, i procedimenti sono pubblici e, soprattutto, le sentenze sono pubbliche”.

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