Illustrazione di Marta Lorenzon

Francesco Zhou Fei mi dà appuntamento vicino ai suoi uffici in zona Porta Venezia, dietro a una delle strade dello shopping di Milano. Mentre mi aspetta parla al telefono. Indossa degli occhiali da sole, un impermeabile scuro e una camicia a righe bianche e blu: appare come il più elegante uomo d’affari milanese. Sinoitaliano di seconda generazione, 40 anni, Zhou è arrivato dalla Cina all’età di cinque anni ed è diventato un imprenditore. Dopo una laurea all’università Bocconi è stato assunto da un’azienda italiana per lavorare nella sua filiale di Pechino. Nel 2017 è tornato a Milano, dove ha fondato insieme ad altri imprenditori la MiStore Italia e la Niu Store Italia. La prima è una catena di negozi autorizzati alla vendita di prodotti della Xiaomi, ​​una multinazionale cinese che opera nel campo dell’elettronica, la seconda si occupa di motorini elettrici.

Il locale che Zhou ha scelto per il nostro pranzo ha innovato uno dei piatti più conosciuti della tradizione araba: il kebab. La formula è quella della qualità e della personalizzazione. Il piatto infatti si crea scegliendo gli ingredienti, ma per gli indecisi ci sono anche le proposte della casa. Zhou ordina un kabir, una sorta di piadina, con contorno di hummus e acqua, io un’insalata di pollo e una Coca-Cola. Seduti nella moderna sala illuminata, ammiriamo l’idea del “kebab all’italiana”.

Anticipare le tendenze

“Anche noi sinoitaliani dovremmo fare la stessa cosa: innovare, seguire le tendenze e anticiparle”, dice Zhou mentre assapora l’hummus. Di sicuro lui l’ha fatto. Avviata nel 2018, la MiStore Italia ha aperto in questi anni circa trenta punti vendita che trattano soprattutto cellulari, ma anche elettrodomestici della Xiaomi in grado di collegarsi alla rete 5G. “Ma c’è ancora molta diffidenza verso il made in China”, spiega. Nel 2019 Zhou ha portato in Italia i motorini elettrici della Niu Store, che al momento ha all’attivo sei negozi.

Mentre provo a complimentarmi mi interrompe: “Sono solo un commerciante, forse un commerciante plus”, dice ricordandomi l’umiltà del gentiluomo confuciano. “Ho solo seguito delle tendenze che vedevo in Cina. Per esempio lì gli scooter elettrici sono in voga da molti anni, li ha voluti il governo per contenere l’inquinamento. Sono contento che siano arrivati anche qui e questo grazie a una maggiore consapevolezza delle problematiche ambientali”. Con le sue attività Zhou ha creato almeno un centinaio di posti di lavoro.

Eppure in Italia la comunità cinese sembra bloccata in una doppia rappresentazione: da una parte “l’invasione gialla” dei mafiosi che riciclano denaro, dall’altra una minoranza-modello di parrucchieri e baristi che lavorano duramente, i “bravi cinesini”.

Questo quadro sembra confermato dal rapporto del 2020 dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) secondo cui solo l’11 per cento dei ragazzi di origine cinese tra i 15 e i 29 anni non lavora e non cerca un’occupazione, a fronte di una media nazionale del 33,1 per cento.

“Purtroppo esiste una certa immagine di immigrato cinese e quella rimane”, dice Zhou ridendo. “Non siamo ancora riusciti a creare una nuova rappresentazione. Molti della nostra generazione hanno continuato l’attività di famiglia, anche quelli che hanno studiato come avvocati o ingegneri. Servono nuovi modelli, per aiutare i ragazzi a immaginare un futuro diverso”.

Professioni diverse

L’Italia è ancora lontana da paesi come gli Stati Uniti dove film come Crazy & rich hanno come protagonisti asiatici che svolgono professioni diverse, o dove ci sono attori di origine asiatica che vincono il Golden globe, o giovani donne che diventano politiche di spicco, come la sindaca di Boston Michelle Wu. “Io ho avuto l’esempio di mio padre”, continua Zhou. “Lui ha sempre avuto una visione aperta, forse perché era un militare e ha vissuto anche fuori dalla Cina. Di conseguenza anch’io ho viaggiato molto, in quasi quaranta paesi. Poi mi ha fatto studiare cinese e mi ha pagato la Bocconi. Dopo l’università il mio obiettivo è stato unire lo spirito imprenditoriale cinese con la formazione italiana. Volevo seguire l’esempio del management giapponese che ha preso elementi anglosassoni e li ha adattati alla propria cultura”.

Nel 2008 Zhou è stato tra i fondatori dell’Alumni Bocconi Beijing, che riunisce gli ex studenti dell’università milanese a Pechino, e ha creato a Ibc (Italian born chinese), un gruppo Facebook che ha quasi seimila iscritti sinoitaliani. “Alumni Bocconi nasce come una rete di supporto”, spiega. “Con Ibc invece volevo suscitare maggiore consapevolezza sul nostro ruolo nella società italiana. O educare nuovi talenti, sostenere qualcuno con la passione per la politica”.

I giovani sinodiscendenti sembrano però refrattari al dibattito pubblico. “Inoltre molti sono tornati in Cina per fare un’esperienza di vita e di lavoro. Tra il 2000 e il 2010 le aziende straniere avevano bisogno di persone come noi: laureati in discipline economiche che parlassero bene cinese, inglese e italiano. Sono stati anni d’oro, ti davano la casa, un’automobile e uno stipendio che in Italia sarebbe stato un sogno”. Erano gli anni delle Olimpiadi di Pechino del 2008 e di Expo Shanghai del 2010. La Cina si affacciava sul mondo, schiudendo nuove possibilità. Oggi invece sembra concentrare tutte le sue energie verso lo sviluppo interno.

“Dal 2013 la situazione è cambiata completamente”, conferma Zhou. “A un tratto le figure come la mia non servivano più. Quindi mi sono iscritto a un master in amministrazione aziendale che però mi ha solo confermato che era ora di spostarsi. L’avvento del digitale aveva creato nuovi mercati e nuove tendenze, prettamente cinesi. Poi è aumentata anche la concorrenza degli studenti cinesi con una laurea all’estero. Alla fine sono tornato”.

Anche in Italia il numero di studenti cinesi che arrivano attraverso scambi internazionali o altri progetti è aumentato costantemente, soprattutto in ambito artistico e musicale. I dati di Unitalia del 2022 indicano 1.136 studenti cinesi nel 2008-2009, fino a un picco di 5.022 nel 2020-2021. “Alcuni di loro hanno aperto dei ristoranti di successo a Milano, portando i sapori della propria regione”, racconta Zhou. “Altri hanno fondato servizi di consegne a domicilio dedicati alla popolazione sinofona o agenzie di comunicazione con collegamenti diretti in Cina. Hanno dato vita a nuovi mercati”.

Perle artificiali

Oggi nella comunità sinoitaliana convivono identità ed esperienze molto diverse: prime generazioni provenienti dalle campagne, studenti delle città, nuove generazioni che hanno subìto influenze molteplici. “Noi famiglie di seconda generazione dovremmo puntare all’eccellenza”, dice Zhou mentre usciamo. “Altrimenti i nostri figli non reggeranno la competizione con i laureati dalla Cina. Io lavoro perché mia figlia Lucilla, che è nata qui, possa frequentare in futuro le migliori scuole in paesi diversi”.

La comunità cinese è presente in Italia già dai primi anni del novecento. Come testimoniano gli studi del sociologo Daniele Brigadoi Cologna, negli anni venti un nutrito gruppo di agenti di commercio di un’azienda produttrice di perle artificiali con sede a Shanghai arrivò a Milano e decise di risiedervi. Poi, parenti e amici li raggiunsero formando le basi della comunità che da allora ha condiviso con Milano più di cento anni di storia.

“Dovremmo smetterla di cadere nella trappola dell’essere italiano o cinese. Siamo cittadini globali. Io per esempio non penso di avere molto in comune con un ragazzo sinoitaliano che lavora nell’attività di famiglia. Mi sento molto più vicino a un sinodiscendente degli Stati Uniti, laureato in un’università della Ivy league e consulente a Singapore”.

Anch’io rifletto sull’inevitabile caos della vita nella diaspora. E sulla possibilità di formare nuove figure di riferimento per le nuove genera­zioni.

Da sapere
Il conto

Nun-Taste of Middle East
Via Lazzaro Spallanzani 36, Milano

1 insalata di pollo 8,40

1 kabir 8,90

1 hummus 3,50

1 bottiglia di acqua naturale 1,10

1 Coca-Cola zero 2,30

Totale 24,20


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