Il consultorio di Stilo, in provincia di Reggio Calabria, si trova in un vecchio stabile in cemento armato con un cartello che indica la sede del giudice di pace. Fino a poco tempo fa, le pazienti in fila per una visita ginecologica sedevano nella stessa sala d’attesa di chi faceva ricorso per una multa in divieto di sosta. Siccome il campanello era collegato all’ufficio del giudice, ormai chiuso, qualcuno ha fatto un buco nella porta per infilare la mano e poter aprire la serratura dall’interno.

Le foto di questo consultorio, dove l’umidità ha rovinato i muri, dove il personale è costretto a portarsi le stufette da casa, e dove i servizi igienici sono fatiscenti, sono circolate sui social grazie alla denuncia della rete Riprendiamoci i consultori, un gruppo di attiviste calabresi che chiede la piena applicazione della legge 405 del 1975, che ha istituito i consultori familiari.

La porta, anche durante l’orario di apertura al pubblico, è chiusa. Solo grazie a un giro di telefonate si scopre che l’ostetrica è in malattia e non c’è nessuno che possa sostituirla o almeno mettere un avviso sulla porta.

Non è la prima volta che succede: Silvana, 65 anni, è rimasta ad aspettare ore sotto la pioggia per un pap test insieme ad altre donne al consultorio di Siderno. “La porta era chiusa, abbiamo aspettato, provato a telefonare. Niente, chiuso. Qualcuna se n’è andata, qualcuna ha detto: ‘Andrò nel privato’. Io mi indigno perché forse non tutte possono permettersi il privato!”, racconta Silvana. “Tra queste donne ci sarà chi quel pap test non lo farà più”. Ma non è sempre stato così: “Ci sono stati anni in cui ero orgogliosa di un presidio pubblico così efficiente, poi andando avanti nel tempo l’ho visto svuotarsi di servizi e di figure”.

Un solo ginecologo

Qui il problema non è che manchino i consultori: per 140mila abitanti della Locride, sul versante ionico della Calabria, ci sono sette consultori. È una delle regioni che più si avvicina al requisito di legge di un consultorio ogni ventimila abitanti, a differenza, per esempio, della Lombardia che ne ha uno ogni 65mila. Ma le strutture sono vuote, senza personale e senza strumentazioni. A mancare sono medici, ostetriche, assistenti sociali, psicologi.

Nessun consultorio riesce a garantire la presenza di tutti questi professionisti, che quindi devono spostarsi in automobile tra le varie sedi attraversando la Locride, anche più volte al giorno, spesso trasportando medicinali, provette o risultati di laboratorio di cui dovrebbe occuparsi un corriere ospedaliero.

Quasi la metà dei certificati per l’interruzione volontaria di gravidanza è rilasciata dai consultori

Per rispondere al mandato istituzionale, ginecologi e psicologi dovrebbero essere di turno per 18 ore settimanali, mentre ostetriche e assistenti sociali per 36 ore. Anche se l’indagine nazionale 2018-2019 sui consultori familiari condotta dall’Istituto superiore di sanità (Iss) ha rilevato che la Calabria è tra le migliori regioni per media di ore lavorate dalle équipe mediche, nella Locride la situazione è particolarmente difficile e la carenza di risorse sta logorando le forze degli ultimi professionisti rimasti, molti dei quali vicini alla pensione. Per 42 comuni e un totale di 140mila persone, c’è ormai un solo ginecologo.

Da anni i consultori sono in crisi, non solo al sud. Il loro numero è in calo e il personale lavora tra difficoltà crescenti, talvolta eccedendo le ore di servizio. Istituiti nel 1975 all’indomani della riforma del diritto di famiglia e della fine del divieto di propaganda dei contraccettivi, i consultori sono nati con lo spirito di prevenzione e di cura della persona e hanno svolto un ruolo fondamentale per l’emancipazione femminile, rivoluzionando il rapporto delle donne con il proprio corpo, con il sesso e con il loro ruolo dentro la famiglia, diffondendo l’uso della contraccezione ormonale e contribuendo a far calare drasticamente il numero delle gravidanze indesiderate e degli aborti, come sottolinea il rapporto dell’Iss.

Luoghi accessibili

I compiti previsti dalla legge 405 (assistenza psicologica alla maternità, alla paternità e alla coppia, procreazione responsabile, tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento, prevenzione delle gravidanze indesiderate) sono stati ampliati con la legge 194 che nel 1978 che ha depenalizzato l’interruzione di gravidanza (Ivg) e ha reso i consultori luoghi sempre più frequentati e accessibili.

Oggi quasi la metà dei certificati necessari per l’Ivg è rilasciata dai consultori. Nello spirito di una sanità pubblica, di prossimità e liberamente accessibile, tutte le prestazioni erogate sono gratuite e possono essere somministrate ai minorenni (anche senza la presenza dei genitori) e agli stranieri.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

In Italia ci sono 1.800 consultori, metà di quelli necessari per legge per servire tutta la popolazione. 622 si trovano al nord, 382 al centro e 531 al sud, con densità molto diverse a seconda della regione: si va dalla Valle d’Aosta che ha un consultorio ogni 10.500 abitanti, al Molise che ne ha uno ogni 66mila. Anche il numero degli utenti è molto variabile, con una media di cinque accessi ogni 100 abitanti, cifra che raddoppia in Emilia-Romagna, Umbria e Abruzzo.

Poiché fino al 2000 non c’era l’obbligo di raccogliere dati e statistiche sul lavoro dei consultori e molti di essi non si sono ancora adeguati, anche per l’Iss è difficile tracciare una storia di queste strutture. Un dato significativo per capire la diffusione di questo servizio nella popolazione è però quello del numero dei certificati per l’Ivg rilasciati dai consultori, che dagli anni ottanta è raddoppiato.

Più di un presidio sanitario

In generale, i consultori operano in due ambiti che sono connessi ma non del tutto coincidenti: quello sociale e quello sanitario. La loro funzione è quella di essere non solo dei semplici presidi sanitari, ma anche dei punti di riferimento nella prevenzione, nelle difficoltà familiari o nel contrasto del disagio psicologico.

Proprio per questa loro natura ibrida, i consultori sono stati penalizzati dalle riforme sanitarie degli anni novanta, che hanno imposto una visione aziendalistica e centralizzata della sanità, in contraddizione con l’idea di una cura accessibile e fisicamente presente sul territorio. Il declino dei consultori è dovuto anche allo scarso interesse da parte del ministero della salute nel loro potenziamento. Dal 1975 a oggi, i fondi per lo sviluppo dei consultori sono stati stanziati solo tre volte: nel 1996 con una legge sulla sanità e nel 2007 e 2008, ma solo per progetti specifici.

Per molte adolescenti rappresenta la prima esperienza con un ginecologo

Negli anni, sia a causa dei bassi investimenti che della riorganizzazione dei servizi, molti si sono trasformati in meri erogatori di prestazioni ostetriche o ginecologiche. In diversi consultori della Locride, per esempio, spesso l’unico servizio fornito sono i pap test previsti dagli screening per il cancro del collo dell’utero.

Il consultorio è, o dovrebbe essere, un’alternativa gratuita e di più facile accesso rispetto allo studio privato di uno specialista e per molte adolescenti rappresenta la prima esperienza con il ginecologo. Ma per essere tale l’attività diagnostica o terapeutica va affiancata a quella di prevenzione e sensibilizzazione, non potendosi limitare alla sola prestazione medica come invece accade sempre più spesso.

Oltre agli adolescenti, un altro gruppo per cui il consultorio è un punto di riferimento sono le donne migranti. Sin dalla fondazione dei consultori nel 1975 le prestazioni sono gratuite anche per gli stranieri e le straniere presenti sul territorio italiano, anche se temporaneamente.

In aree con un’alta presenza migratoria i consultori sono quindi fondamentali. In Calabria, per esempio, il numero di corsi di accompagnamento alla nascita attivati nella regione è doppio rispetto alla media nazionale, con quasi quattro bambini ogni cento nati con l’assistenza del consultorio. La partecipazione delle donne straniere al sud resta però comunque difficile: solo il 10 per cento dei consultori coinvolge un mediatore culturale e solo il 12 per cento offre materiali informativi in più lingue.

Aborto farmacologico

La più recente e importante novità che riguarda i consultori familiari è costituita dalla possibilità di poter somministrare l’aborto farmacologico direttamente all’interno di queste strutture. L’ivg chimica consiste nell’assunzione di due pillole a 36-48 ore di distanza: la prima (mifepristone) inibisce lo sviluppo dell’embrione, mentre la seconda (prostaglandina) provoca contrazioni uterine per favorirne l’espulsione.

Prima della circolare di aggiornamento pubblicata dal ministero della salute il 12 agosto 2020, era possibile assumere queste pillole solo in ospedale e con un ricovero di tre giorni. Adeguandosi ai protocolli seguiti in tutta Europa da anni, con le nuove linee guida l’assunzione delle due pillole può avvenire direttamente in consultorio, non solo eliminando i problemi organizzativi derivanti dall’alta percentuale di medici obiettori negli ospedali, ma anche riducendo le probabilità che una donna ne incontri uno durante il suo percorso.

Da anni le amministrazioni di centrodestra, con il sostegno di gruppi antiabortisti come il Movimento per la vita, insistono sul fatto che la parte della legge 194, relativa alla tutela della maternità, non venga correttamente applicata. La Lombardia, il Lazio e in tempi più recenti l’Umbria e il Piemonte hanno così proposto diverse leggi che consentono a gruppi contrari all’aborto di promuovere le loro attività nei consultori pubblici.

Un diritto negato

In Italia ci sono diverse realtà che testimoniano la volontà di valorizzare il ruolo di queste strutture. Nel quartiere Saragozza di Bologna, il consultorio di via Sant’Isaia ha puntato molto sugli adolescenti, istituendo uno spazio aperto tutti i pomeriggi dal lunedì al giovedì, con un servizio dedicato alla contraccezione d’emergenza il sabato mattina.

“È diventato un punto di riferimento per chi frequenta l’università”, spiega Giada, una delle attiviste di La mala educación, uno sportello autogestito dalle studenti dell’università di Bologna. Il gruppo ha creato una mappa dei consultori della città e le ragazze che hanno bisogno di un supporto vengono accompagnate alle visite.

Dal 2018 la regione ha inoltre creato un programma di rimborso della contraccezione ormonale per tutte le donne con meno di 26 anni e per quelle con un’età superiore entro due anni da un’interruzione di gravidanza in possesso di un’esenzione. Il programma funziona bene, ma i tempi di attesa erano molto lunghi già prima del covid-19.

Il servizio offerto dall’Emilia-Romagna è una rarità: sono solo sei le regioni che forniscono una qualche forma di rimborso della contraccezione, mentre in tutte le altre il costo è interamente a carico delle donne. Dal 2017, infatti, non esistono più pillole anticoncezionali mutuabili, dopo che l’Agenzia italiana del farmaco ha riclassificato le ultime rimaste.

Il successo dei consultori emiliani è dovuto anche all’accessibilità e alla trasparenza delle informazioni online. La regione si è così guadagnata il primo posto nell’Atlante italiano sull’accesso alla contraccezione compilato da Aidos, che ha assegnato all’Emilia-Romagna 88 punti su 100. Alla Calabria ne sono stati assegnati solo 44.

Nella Locride, quando Silvana è rimasta chiusa fuori dalla porta del consultorio di Siderno in attesa del pap test, si è fatta una domanda: “Perché non siamo state avvisate? Perché questa mancanza di rispetto? Mi sono data una risposta troppo brutta: perché tanto è gratis. E la mia indignazione è aumentata: non è gratis. È un diritto e un diritto non può essere negato”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it