Questo articolo è uscito su Parole, un numero di Internazionale Extra che raccoglie reportage, foto e fumetti sull’Italia. Si può comprare sul sito di Internazionale o, in digitale, sull’app di Internazionale.

“Animale” è una strana parola. Nell’uso comune ha un’estensione semantica anomala, contiene tutto e il contrario di tutto: i brontosauri e i maiali, i cani e le mantidi religiose, le api e le giraffe. Eppure, come se fosse un insieme pieno di uno strano vuoto, la usiamo per produrre frasi con velleità informativa: gli animali non parlano e non pensano, non soffrono e non sorridono, gli animali sono diversi da noi, quelli sono solo animali, ma cosa sei, un animale? E così via fino alla brutalità della cronaca quotidiana: influenze aviarie e animali da abbattere, “lotti di bestie” da sacrificare, “animali malati” che non possiamo più mangiare.

Ma di cosa stiamo parlando quando parliamo di animali? In realtà di niente, perché usiamo la parola “animale” come non luogo (tesi per esempio sostenuta da Jacques Derrida nel suo saggio postumo L’animale che dunque sono): di fatto, quando parliamo di animali, stiamo neutralizzando la vita che non ci sembra umana.

Dalla serie Breath of the domestic forest, in cui la fotografa Sara Nicomedi ha raccontato il suo ritorno a Manziana, un piccolo comune fuori Roma circondato da un bosco. (Sara Nicomedi)

Questo atteggiamento, che inizia con la lingua e con la parola, oggi si chiama “specismo”: considerare la vita della propria specie come l’unica degna di considerazione morale e tutela, anche se esistono diverse gradazioni di tutela, basta pensare a come trattiamo un gatto diversamente da un agnello. È fondamentale capire questa disparità di trattamenti etici perché, altrimenti, continuiamo a pensare che lo specismo sia quello a cui ci aveva abituato in filosofia Cartesio: gli animali tutti non hanno mondo e non sono soggetti.

Al contrario, noi esseri umani moderni e consapevoli sappiamo benissimo che gli animali sono soggetti di una vita, ma non crediamo che ciò sia condizione necessaria e sufficiente per cambiare le nostre espressioni linguistiche e le pratiche che ne seguono. Nelle nostre vite quotidiane, semplicemente, gli animali non esistono. Negli Stati Uniti in un anno vengono uccisi cinquanta miliardi di animali per motivi alimentari, e parliamo solo di grandi mammiferi, senza contare i miliardi di polli o pesci che consumiamo ogni giorno. Questo immenso mattatoio, che però è ben nascosto e ci consente di definire “società civile” il nostro mondo, è possibile perché gli animali altro non sono che dei paradossi, degli enti non esistenti, a partire dalle nostre parole appunto.

Sappiamo che gli animali esistono, e che sono esseri dotati di caratteristiche biologiche non secondarie alle nostre, ma non sappiamo che compongono gli oggetti del nostro benessere e la fragilità informativa delle espressioni vuote che li riguardano.

Il motore dell’economia

Il significato della parola “animale” che qui propongo va inteso innanzitutto come una dimenticanza: ci siamo dimenticati che non siamo da soli. Lo specismo non è un fenomeno solo linguistico, ma il motore dell’economia. Con gli animali, e con ciò che rimane dei loro corpi, produciamo di tutto: dalle pellicole per le macchine fotografiche alla carta da parati, dalla colla per le cuciture delle scarpe ai coloranti delle caramelle gommose tanto amate dai bambini. Gli animali a cui ci riferiamo quando ne parliamo nell’insieme sono ovunque, ma non possiamo vederli, perché li abbiamo nascosti.

Permettetemi una divagazione. Partiamo da lontano, dalla proposizione 6.4311 del [Tractatus logico-philosophicus](https://www.wittgensteinproject.org/w/index.php?title=Tractatus_logico-philosophicus_(italiano)) di Ludwig Wittgenstein, dal sapore palesemente mistico: “Vive eterno colui che vive nel presente”. Ma chi è che vive nel presente, misticismo a parte? Colui che, privo di memoria, o almeno di memoria a lungo termine, non gode di coscienza che gli consenta di pensarsi nel passato o di proiettarsi nel futuro. I bambini sarebbero buoni candidati, ma hanno il tempo eterno contato: crescono, diventano umani adulti, ricordano e sperano, sono insomma mortali e dunque condannati alla disperazione.

Martin Heidegger, dove Wittgenstein vedeva una risorsa, lamentava un limite: solo l’animale vive un eterno presente, privo della temporalità sommata all’essere che sta alla base dell’esserci, l’animale non può morire. Ma il limite, se mettiamo insieme i due argomenti, è presto aggirato: l’animale non muore perché vive nel presente ed è dunque eterno. Come la tigre di Borges, “nel suo mondo non ci sono nomi né passato / né futuro, solo un istante vero”.

Non dimentichiamo che gli animali sono tanti, e alcuni (pensiamo ai primati) come ci insegna l’etologia cognitiva hanno capacità di rappresentarsi non solo nello spazio ma anche nel tempo. L’antispecismo in questo senso è la demolizione del recinto di cui non abbiamo mai visto, se non per esperimento mentale, l’esterno. Tocca, a questo punto, immaginarlo: come potrebbe vivere un’umanità che rispetta l’animalità altrui e la propria? Senza questo passaggio immaginativo l’antropocentrismo resta ben saldo, perché è dalle azioni che passa l’essere umano, e i limiti che diamo alle nostre azioni possibili sono i limiti dei nostri mondi possibili e dunque anche delle nostre frasi insensate.

Qui e ora

Quello che chiamo antispecismo ha alcune conseguenze pratiche (diventare vegetariani, per esempio) che non vanno tuttavia scambiate con le cause (il dolore degli animali). L’antispecismo è una sorta di antidoto all’antropocentrismo, e contribuisce a sviluppare un nuovo significato della parola “animale” attraverso un’etica in cui i comportamenti non siano solo “mode” ma una corretta comprensione delle ragioni che lo rendono necessario.

I problemi dell’umanesimo antropocentrico, e dell’umanità che questo esprime, derivano in larga parte proprio dall’incapacità di vivere il “qui e ora”. È sulla risoluzione di questa incapacità che s’innesta l’antispecismo, non come movimento etico fine a se stesso, ma come parte del processo metafisico che porta a riconsiderare radicalmente le moltitudini animali.

La domanda è cosa impariamo dal dare un nuovo e più giusto significato alla parola “animale”. E la risposta è il rimosso: quella natura comune al vivente che l’umanità come concetto ha eliminato. Gli esseri umani svolgono le loro vite all’interno di una narrazione che consente, semplificando, una giustificazione per le azioni fatte e per quelle che programmano di fare. Lo specismo è paradossalmente una narrazione in positivo: potete fare questo o quello senza preoccuparvi della sorte degli animali perché non hanno status morale, o produrre frasi generiche usando senza significato la parola “animale”. L’antispecismo, all’opposto, è una narrazione che è assolutamente negativa se fine a se stessa: non potete fare questo, e neanche quest’altro, perché gli animali soffrono.

L’idea di mondo espressa dall’antispecismo, nelle sue declinazioni anche linguistiche, è semplicemente scorretta: non abbiamo bisogno di qualcosa che esprima un insieme più o meno articolato di totem e tabú, abbiamo bisogno di conoscere un mondo possibile alternativo. L’animalità va scatenata, come la stella danzante di Nietzsche, al di là di ogni previsione possibile: non esistono frasi sensate sugli animali perché non li conosciamo, e perché faranno di tutto per non farsi conoscere. ◆

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