Questa storia inizia con due immagini. La prima ci porta al 1968 quando, all’interno del suo studio, l’artista statunitense Bruce Nauman si filma mentre cammina avanti e indietro in uno stretto corridoio con le mani intrecciate sulla nuca. Forse in quei momenti neanche il pubblico più esperto della scena contemporanea se ne rendeva conto, ma stava nascendo qualcosa di decisivo per lo sviluppo delle ricerche artistiche dei decenni successivi

Dopo una serie di movimenti di rottura che avevano ruotato intorno a pratiche consolidate come la pittura o la scultura, si apriva una fase completamente nuova per le avanguardie, basata sul corpo e i suoi movimenti, sulla tecnologia, sul video: l’arte concettuale spalancava le porte al ritorno del contemporaneo, di “un presente nel quale non siamo mai stati” come l’ha definito il filosofo Giorgio Agamben.

In quello studio, in quei video in bianco e nero che per un anno e mezzo sono anche stati esposti a Punta della Dogana a Venezia nella mostra Contrapposto Studies, nasceva un nuovo modo di pensare l’arte e le sue manifestazioni. Un modo complesso, a volte difficile da spiegare al grande pubblico, meno adatto a quella filosofia di “oggetti da appendere a una parete” che per molto tempo sono stati il punto di riferimento di musei, gallerie, aste e collezionisti.

La seconda immagine è molto più vicina a noi: il Padiglione Italia alla Biennale arte del 2022, curato da Eugenio Viola e con il lavoro di un unico artista, Gian Maria Tosatti, che ha voluto ricostruire, in un alternarsi molto poetico di sale, una sorta di storia dell’Italia moderna, attraverso la sua industria e i suoi miti di crescita poi franati. Che infine porta il visitatore su un molo, di notte, a contemplare l’inevitabile fallimento, ma anche le lucciole che appaiono lontane e più vicine. Quelle lucciole per le quali Pier Paolo Pasolini avrebbe dato in cambio anche l’intera Montedison.

Forse si può partire da questa seconda immagine – ma avendo ben presente la prima, perché è quella che dà forma al modo in cui noi possiamo parlare di arte oggi, cioè ci fornisce il vocabolario per farlo – per provare a capire come il grande pubblico e il mainstream possano confrontarsi con l’arte contemporanea, superando le reazioni di pura derisione da una parte (vengono in mente i commenti di Alberto Sordi alla Biennale nel film Le vacanze intelligenti) e di snobismo dall’altra.

In Italia, vuoi per la tradizione storico-culturale poderosa, vuoi per scelte accademiche e limiti politici, il contemporaneo ha sempre fatto più fatica che altrove. Abbiamo Venezia, certo, ma mancano luoghi come le Kunsthalle tedesche per esempio, cioè spazi non commerciali che offrono visibilità ad artisti e progetti di ricerca, mancano istituzioni museali forti come la Tate di Londra o il MoMA di New York, e forse manca anche il riconoscimento del lavoro degli artisti come lavoro a tutti gli effetti.

Qualcosa però si muove anche da noi. Fuori dal Padiglione di Tosatti si sono viste molte code; a Milano alla Fondazione Prada o alla Pirelli HangarBicocca i visitatori non mancano quasi mai; appuntamenti come Manifesta a Palermo sono sempre più seguiti.

Forse il caso che più salta all’occhio è quello della Fondazione Palazzo Strozzi a Firenze, che con la direzione di Arturo Galansino ha fatto un notevole sforzo per avvicinare il pubblico all’arte contemporanea con una serie di mostre di grandi nomi – Marina Abramovic e Jeff Koons su tutti, ma pure JR, Carsten Höller e, adesso, Olafur Eliasson – che hanno fatto registrare anche grandi numeri: 180mila biglietti staccati per Abramovic nel 2019, 170mila per Koons nel 2021, in piena pandemia. Per fare un confronto, la Biennale arte del 2019, che è stata un grande successo di pubblico, in cinque mesi e mezzo di apertura ha avuto 600mila visitatori. Il caso di Firenze è interessante, anche perché si tratta di una città da sempre associata al Rinascimento e all’arte antica.

Grande impegni per grandi nomi

“Sul contemporaneo” dice Galansino, “abbiamo fatto vedere che un certo tipo di lavoro può essere fatto anche in Italia, portando prodotti culturali che nel nostro paese non si erano mai visti. Da noi l’arte contemporanea è sempre stata appannaggio di una nicchia, noi l’abbiamo fatta uscire da questa nicchia. Con grandi nomi e operazioni spettacolari, certo, però lo abbiamo fatto. Puoi fare mostre con grandi nomi fatte male, oppure spettacolarizzando il contenitore o il paesaggio con operazioni decontestualizzate, per cercare l‘“effetto wow” a tutti i costi. Noi invece abbiamo sempre cercato di fare operazioni che fossero anche filologiche”.

Interessante anche l’aspetto della gestione del museo, che il direttore definisce “corale”: dalla vendita dei biglietti proviene più del 40 per cento delle entrate, una cifra simile arriva dagli sponsor privati e il denaro pubblico – palazzo Strozzi è una fondazione pubblico-privata – contribuisce per il 15 per cento. “Con un bilancio di 7 milioni di euro”, aggiunge Galansino, “le nostre mostre producono sulla città un indotto medio di 50 milioni di euro l’anno”.

A sinistra: Lobster, Jeff Koons. A destra: Hulk, Jeff Koons. Fondazione Palazzo Strozzi, Firenze, novembre 2022. (Ela Bialkowska, Okno studio)

E corale è anche la composizione del pubblico: 20 per cento di toscani, 20 per cento di stranieri e il restante sono italiani che vengono da altre regioni, principalmente del nord. “Sono 150mila all’anno gli italiani che vengono a Firenze espressamente per le mostre di palazzo Strozzi”, sottolinea il direttore con soddisfazione.

Ovviamente non mancano le critiche alle scelte curatoriali, che sono cadute su artisti molto famosi o su operazioni ritenute spettacolari, come l’installazione su un’intera parete del palazzo della grande Ferita di JR. “Sono grandi nomi”, ammette Galansino, “ma non sono mostre facili da fare. L’operazione con JR l’abbiamo fatta quando Firenze era deserta, quando in Italia nessuno si muoveva. L’abbiamo fatta per riportare attenzione sui musei. E poi dietro al suo lavoro c’è un’idea sociale pazzesca. La Ferita è diventata in tutto il mondo l’immagine della cultura orfana del pubblico”.

Senatore porta le persone nella ricerca contemporanea in maniere che hanno qualcosa di liberatorio

Nei suoi video, Bruce Nauman in fondo mostrava come il semplice fatto di imparare a camminare fosse un modo per “iniziare a costruirsi”, a darsi un’identità, una postura davanti al mondo. Ma nel frattempo siamo arrivati alla terza immagine di questo racconto: Londra, giugno 2022, centinaia di persone che attraversano la città in una parata piena di musica (con anche i bambini che cantano Bella ciao davanti a una scuola italiana) e poi diventano migliaia nei pressi della leggendaria Battersea Power Station, quella dei dischi dei Pink Floyd, ma anche ambientazione del Riccardo III cinematografico di Richard Loncraine.

Non è una rivolta, o forse lo è in realtà, ma non nelle modalità che riteniamo consuete: è un evento collettivo organizzato da Marinella Senatore, una delle artiste italiane del momento, che da sempre nel suo lavoro dà voce alle comunità emarginate, dà spazio a chi spesso si sente invisibile, ma lo fa valorizzando i talenti, offrendo occasioni di gioia. E anche qui il contemporaneo trova e spesso conquista altri pubblici.

“Le persone non vogliono essere comparse”, ci spiega l’artista, “vogliono trovare veramente se stesse nell’arte. Il mio metodo mi ha già portato a lavorare con 7 milioni di persone nel mondo. Sono certa che ci saranno anche altre modalità, ma alla gente si deve volere bene, non solo parlarne. Si parla tanto delle persone, ma poi chi le va a trovare davvero nei loro quartieri, chi ascolta veramente i gruppi di giovanissimi attivisti che sono sempre più numerosi nelle nostre città? Spesso gli artisti che vengono definiti social engaged non sono per niente impegnati. Se si vuole veramente coinvolgere le persone e le comunità vanno offerti degli spazi, non è una questione di staccare biglietti, ma di creare una società più giusta, e attraverso le esperienze culturali si può fare”.

A Londra, a Parigi, a Malta, a Torino: Marinella Senatore ha una pratica che fa muovere le persone e fisicamente le porta dentro la ricerca contemporanea in maniere che hanno qualcosa di liberatorio e quindi un po’ rischioso. Ci sono lottatori, musicisti, atleti del parkour, ballerini, e il pubblico che può essere tutte queste cose di volta in volta. Le soglie spariscono e lo fanno in un modo che ricorda un altro dei settori culturali che oggi stanno cambiando le carte in tavola, mettendo in scena una vita che appare più reale di quella di cui facciamo esperienza ogni giorno: la danza e il teatro contemporaneo.

Artisti come Alessandro Sciarroni, Chiara Bersani, Silvia Calderoni o Marco D’Agostin, ma anche autori come Olmo Missaglia o i Motus, hanno la lucidità per creare un linguaggio ibrido, fatto di corpi e movimenti oltre che di parole, che incoraggia a guardare il modo in un altro modo. E forse addirittura fa nascere una consapevolezza più acuta del ruolo delle arti nella società e della necessità, anche attraverso costruzioni complesse, di andare più vicino ai sentimenti e ai pensieri di chi siede dall’altra parte del palco.

Viene in mente una brillante definizione di arte contemporanea data dalla rivista e-flux: “Un caos cacofonico che genera enorme speranza”. La speranza è quella di allargare le porte dell’arte, di portare più persone a guardare con curiosità anche qualcosa che all’inizio ci può sembrare di non capire.

Un sentimento diffuso

In questo senso sono utili le riflessioni di un curatore importante, potremmo dire un curatore superstar come Massimiliano Gioni, direttore artistico del New museum a New York, curatore della Biennale di Venezia del 2013, oltre che mente creativa della Fondazione Trussardi. In ottobre quest’ultima istituzione ha portato a Milano una mostra dell’artista caraibico Nari Ward, che è intervenuto negli spazi di una storica piscina della città, ricoprendola interamente di fogli dorati.

“Con la Fondazione Trussardi”, dice Gioni, “da 19 anni abbiamo deciso che l’arte contemporanea deve essere pubblica, accessibile, aperta, gratuita. Ma deve esserlo senza rinunciare alle sue caratteristiche, che sono in primo luogo di complessità. Ma la complessità è anche gioia, non è noia, non è qualcosa che vuole essere didattico o cattedratico”.

La missione, per Gioni, è difendere la ricerca, non semplificarla per offrirla al grande pubblico, perché questo, a ben vedere, “è attratto anche da gesti complessi, a volte assurdi, a volte teatrali. Per tante opere contemporanee sono possibili letture sofisticate e colte, ma non sono le uniche e non sono indispensabili. La molteplicità di letture è ciò che ci permette di accogliere spettatori da qualsiasi provenienza”.

Un’opera di Olafur Eliasson alla Fondazione Palazzo Strozzi, Firenze, novembre 2022. (Ela Bialkowska, Okno studio/Per gentile concessione dello Studio Olafur Eliasson)

La pensa allo stesso modo l’artista italiana Claudia Losi: “Immagino il mio lavoro come un innesco, come qualcosa che non si sa a cosa porterà, non si sa se accenderà davvero qualcosa. Ma certamente produce una relazione: non so se sarà duratura, stratificata, ricca o da ricordare. Però ci si prova, nel senso che la soddisfazione maggiore che mi è stata concessa in questo lavoro è incontrare delle persone che dopo anni si ricordano di progetti che hanno visto o a cui hanno partecipato. Per me è stupefacente, perché questa macro-narrazione che è la vita di ciascuno può a volte incontrarsi con quella degli altri: si arricchisce, si separa, poi si re-incontra”. Con l’idea di creare qualcosa che possa essere un “nutrimento” per il pubblico, che a questo punto non solo si avvicina al contemporaneo, ma lo assume anche letteralmente dentro di sé.

E le istituzioni? In tutto questo scenario dove sono? Le abbiamo cercate alla fonte, alla Direzione generale creatività contemporanea del ministero della cultura, guidata da Onofrio Cutaia. “Partiamo da un assunto”, dice: “Non bisogna sottovalutare la capacità del grande pubblico di comprendere progetti artistici complessi, di cogliere i sottili fili che uniscono un’opera d’arte, concreta o effimera che sia, al vissuto quotidiano o ai grandi temi esistenziali e del nostro tempo, di emozionarsi per ciò che l’artista vuole trasmettere o, addirittura al di là dell’intenzione dell’autore, per ciò che sente nel porsi a confronto con l’opera. Ed è legittimo che siano presenti anche emozioni negative, come il respingimento e l’ostilità. Solo l’indifferenza è preoccupante”.

La Direzione è anche l’organo che ha selezionato curatori e artisti per il padiglione nazionale alla Biennale arte, e Cutaia è uno dei sostenitori del progetto di Viola e Tosatti, la seconda immagine da cui siamo partiti. La definisce “una complessa macchina narrativa esperienziale che conduce il visitatore in un percorso sensibile, a tratti familiare e in parte spiazzante, con l’obiettivo di offrire una consapevolezza nuova e generare riflessioni concrete sul possibile destino della civiltà umana, in bilico tra i sogni e gli errori del passato e le promesse di un futuro ancora in parte da scrivere”.

Il tono è formale, ma si sente vibrare una passione, o quantomeno una volontà di partecipazione più sentita, che diventa poi, e questo è il punto, un avvicinarsi alle persone. Perché è in questo contatto che si gioca la partita: non si tratta solo di portare più turisti nelle città italiane grazie all’arte contemporanea, ma piuttosto di fare in modo che il contemporaneo diventi un elemento identitario dei luoghi, una sorta di sentimento diffuso, che i visitatori possono ritrovare, accanto alle opere d’arte, ma anche intorno e oltre.

In questo senso, e siamo alla quarta e ultima immagine di questo racconto, è bello sperare che tutta l’arte contemporanea possa inserirsi nella società come fanno le opere di Alberto Garutti, artista e docente che ha segnato il movimento italiano negli ultimi quarant’anni. A Fabbrica, una frazione del comune di Peccioli in provincia di Pisa, Garutti ha restaurato un teatro di quartiere restituendolo alla comunità. Su una lapide all’ingresso c’è una dedica: “Ai ragazzi e alle ragazze che in questo piccolo teatro si innamorarono”.

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