È sulle tracce di Franca Ongaro e di Franco Basaglia che la psicoterapeuta e filosofa Anna Poma è arrivata a Venezia: “Venezia a me fa questo effetto, che il dentro sia sempre anche fuori e il fuori sia anche sempre dentro”, scriveva in un’antologia di autori veneziani autoctoni e adottati per spiegare l’arbitrarietà dei confini tra follia e normalità. Che sia proprio la peculiarità della città ad aver influenzato Basaglia, lo psichiatra che ha rivoluzionato il modo di rapportarsi alla malattia mentale, portando alla chiusura dei manicomi partendo da Venezia e poi in direzione Gorizia e, soprattutto, Trieste? È possibile. E seguendo lo stesso impulso a riportare la follia “là dove essa ha origine, cioè nella vita” (così scriveva lo stesso Basaglia), Anna Poma ha ideato un appuntamento, che ha chiamato Festival dei matti.

Ogni anno dal 2009, a primavera inoltrata, la manifestazione diventa occasione di incontro per chi si occupa di psichiatria e cura, di filosofia e letteratura, porta al confronto operatori della salute mentale e coinvolge (anche con workshop e laboratori) curiosi e studenti universitari. Gli eventi delle quattro giornate di questa edizione si sono svolte dal 25 al 28 maggio tra la terraferma e la laguna, al museo M9 di Mestre, all’Accademia di belle arti, al teatrino di palazzo Grassi.

La sindrome della rassegnazione

Si comincia con la proiezione di un documentario, Wake up on Mars, il primo lungometraggio della regista svizzera di origine albanese Dea Gjinovci, presente all’incontro. Il film parte dalla vicenda di una famiglia rom proveniente dal Kosovo, fuggita in Svezia in seguito alle persecuzioni subite nel periodo successivo alla guerra. E che si è ritrovata in un limbo burocratico insostenibile: la reazione delle due figlie, sorelle maggiori del piccolo protagonista, è quella di cadere in un coma profondo, un fenomeno conosciuto come “sindrome della rassegnazione”, che ha colpito diversi richiedenti asilo nelle stesse condizioni. Casi come questi, in cui il corpo reagisce in modo estremo realizzando una fuga dalla realtà, raccontano la sofferenza profondissima di chi si trova a dipendere per la propria stabilità da un pezzo di carta, da un permesso accordato oppure no.

È un conflitto, quello che ha attraversato la storia della psichiatria, in Italia e nel resto del mondo

Il tema della salute mentale dei migranti ritorna anche in altri incontri, come quello dedicato alle condizioni di vita di chi si trova prigioniero di un confine, in cui sono presenti Emergency, l’associazione Lungo la rotta balcanica e Mediterranea, organizzazione che si occupa del salvataggio in mare dei migranti. Oppure quello dedicato alle patologie della cittadinanza, in cui intervengono i fondatori del centro Frantz Fanon, associazione che omaggia uno degli esponenti più importanti della decolonizzazione, cercando di affrontare il disagio psicologico di immigrati e richiedenti asilo, i più esposti alle pratiche di esclusione e discriminazione da parte delle istituzioni.

È questa la violenza che va, di volta in volta, scovata e messa in evidenza, quando i diritti possono diventare provvisori e revocabili, mai riconosciuti una volta per tutte. “Questo è lo stato neoliberale”, afferma con decisione Roberto Beneduce, etnopsichiatra fondatore del centro Fanon. “Vuole che noi siamo solo dei consumatori. E in questo modo tutto diventa un prodotto commerciabile, compresa la cittadinanza. Mentre questi sono soggetti che ci chiedono di essere riconosciuti”.

Certo, la violenza ha portato anche all’omicidio della psichiatra Barbara Capovani a Pisa, uccisa ad aprile da un suo paziente. Ma ogni giorno continua a rivolgersi agli ultimi, a chi non ha una rete di protezione, a chi non sa esprimersi e non può difendersi. È quell’approccio disumanizzante capace di affrontare il disagio solo con la repressione e la chiusura, trasformando tutto in una patologia.

Modello di esclusione e controllo

È una dinamica sempre all’opera in ogni ambito della nostra società. I molti appuntamenti, con ospiti come il conduttore radiofonico e psicologo Massimo Cirri, il filosofo Pierangelo Di Vittorio o l’artista visiva Sabrina Ragucci, oppure la proiezione del film di Pif E noi come stronzi rimanemmo a guardare, raccontano delle forme di disintermediazione nel mondo del lavoro, di una precarietà sempre più diffusa e dell’assenza di prospettive e di un’idea di futuro. Ci troviamo inoltre immersi in un oceano mediatico strabordante, che non ci permette più di distinguere cosa è vero da cosa è falso, le condizioni ideali per l’affermarsi di un regime totalitario, come teorizzava Hannah Arendt.

In tutto questo, la delimitazione tra quello che è normalità e follia, tra chi può essere accettato e chi invece va confinato e tenuto al di fuori della società diventa il modello, sempre più raffinato nelle sue pratiche di esclusione e controllo. Come nota la filosofa Marica Setaro, che interviene all’incontro sulle patologie della cittadinanza, “la manicomialità come tecnica è un dispositivo complice dell’amputazione sociale”.

Perché è un conflitto, quello che ha attraversato la storia della psichiatria, in Italia e nel resto del mondo. Il lavoro di Franco Basaglia, Franca Ongaro, Agostino Pirella, Sergio Piro, di un movimento come Psichiatria democratica e di un percorso che ha portato a ridefinire completamente i princìpi con cui affrontare la cura della malattia mentale, fino alle conquiste della legge 180 e alla chiusura degli ospedali psichiatrici, ha rappresentato una critica radicale all’istituzione e ai suoi meccanismi, che vanno continuamente rimessi in discussione. Quella di Basaglia, nota Roberto Beneduce, è stata una grande operazione di “immaginazione politica e terapeutica”.

A ricordarci cos’abbia significato questa contenzione, ci pensa l’Accademia della follia, compagnia teatrale nata proprio all’interno del vecchio ospedale psichiatrico di Trieste, coinvolgendo attori che sono portatori di disagio e disturbo mentale. Lo spettacolo è un omaggio allo psichiatra Franco Rotelli, uno dei principali collaboratori di Basaglia, morto nel marzo di quest’anno. Il confinamento, le urla, il ritrovarsi legati a un letto senza contatti umani per ore, sono memorie vivide nelle parole di questi interpreti, testimonianza di un passato troppo vicino, che preferiamo dimenticare.

Mentre per interpretare la contemporaneità, è la letteratura a venirci in aiuto. Come fa lo scrittore Giorgio Falco (in dialogo con il poeta Gianni Montieri) raccontando, nel suo ultimo romanzo Il paradosso della sopravvivenza, personaggi dal corpo difforme, che vivono in solitudine, costretti ad accettare solo lavori degradanti, “e questa è un’altra pratica di esclusione”. Oppure come descrive il poeta Francesco Targhetta nel suo Le colpe al capitalismo, storie minime di esistenze potenziali che nel ritrarsi, nel chiamarsi fuori dalla vita, esprimono l’unica forma possibile di dissenso. Targhetta, che è anche insegnante, mette in evidenza come tra le nuove generazioni il disagio e l’ansia paralizzante siano in aumento, a bloccare ogni spiraglio di speranza e fiducia nel futuro.

Cosa può salvarci, in tutto questo? Nell’incontro di chiusura del festival, la poeta Anna Toscano e la filosofa Ilaria Gaspari raccontano le vite eccentriche della pianista e fotografa Lisetta Carmi e della scrittrice Brianna Carafa. Ilaria Gaspari, in particolare, mette in evidenza le qualità di un’autrice i cui personaggi costruiscono le proprie utopie, vivendoci, ridefinendo il proprio mondo. È la fantasia, l’antidoto: la capacità di immaginare, di ridisegnare la propria traiettoria, di riappropriarsi della propria storia possono restituirci la visione del futuro, una prospettiva che è cura, guarigione, salvezza. È labile, il confine tra normalità e follia, difficilissimo da definire. Ed è questa demarcazione, tutt’altro che pacificata, che il Festival dei matti vuole continuare a esplorare.

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