A sinistra: lo strato di argilla ricca di iridio si trova nella fessura tra gli strati rocciosi più chiari e quelli più rossi. A destra: gli strati definiti “maioliche” che corrispondono all’era del cretaceo. Gola del Bottaccione (Gubbio), giugno 2022 (Massimo Sandal)

Il borgo di Gubbio, in Umbria, è un gioiello di storia romana e medievale. Non molti sanno però che la cittadina ospita uno dei monumenti naturali più importanti del paese, eretto ben prima del teatro romano o delle tavole eugubine in lingua umbra, datati tra il terzo e il primo secolo avanti Cristo. È un luogo eccezionale, noto quasi solo ai geologi, che ha segnato la storia della scienza: nella gola del Bottaccione, fuori dalle mura di Gubbio, sono state rilevate le tracce della più immane catastrofe naturale che abbia mai colpito il nostro pianeta, cioè il cataclisma cosmico che ha ucciso i dinosauri e, con loro, tre quarti delle forme di vita sulla Terra. Sessantasei milioni di anni fa, infatti, un asteroide con un diametro di dieci chilometri si schiantò nel golfo del Messico, incendiando interi continenti, alterando il clima e segnando la fine dell’era geologica mesozoica.

All’occhio inconsapevole, il sito della gola del Bottaccione non rivela granché della sua importanza. È una stretta valle scavata dal torrente Camignano, in cui oggi scorre la statale 298 che affonda nell’Appennino in direzione delle Marche, tra il monte Foce e il monte Ingino. Non è esattamente il Grand canyon. Le pareti rocciose a strati paralleli e sovrapposti – bianchi in alcuni punti, rossastri in altri – sono pittoresche, ma non molto diverse da quelle che s’incontrano lungo molte altre anonime strade. In alto si intravede l’acquedotto medievale, che dal 1327 fino al ventesimo secolo ha servito acqua a Gubbio, e su cui oggi si può camminare per una piacevole escursione (“Bottaccione” deriva da “bottaccio”, nome per il bacino di raccolta delle acque).

Lungo la strada s’incontrano un agriturismo e una piccola trattoria, ricavati all’interno di antichi mulini. Poche centinaia di metri dopo, sulla destra, la strada si apre in un piccolo piazzale sterrato, segnato solo da una placca gialla sulla roccia e da un cartello che mostra in basso il disegno un po’ kitsch di un tirannosauro. La placca recita: “Sezione stratigrafica paleomagnetica – Gola del Bottaccione – Limite tra era secondaria ed era terziaria”. Sembra impossibile che qui si sia consumata una delle più sorprendenti storie della scienza del ventesimo secolo.

Il sito è un’eccezionale palestra didattica e scientifica per gli aspiranti geologi. Il professor Federico Fanti, paleontologo dell’università di Bologna e collaboratore del National Geographic, insieme ad altri colleghi e colleghe dello stesso ateneo, in particolare le professoresse Claudia Spalletta e Rossella Capozzi, portano al Bottaccione gli studenti del primo anno, che qui imparano a muovere i primi passi nella loro disciplina.

Oceano perduto

“Questo luogo una volta era molto diverso”, spiega Fanti agli studenti. Per riuscire a immaginarlo bisogna far sprofondare queste colline, ora roventi sotto un sole di giugno troppo caldo, giù negli abissi oceanici, a duemila metri di profondità. Gli strati oggi visibili in superficie erano i fanghi del fondo di un oceano scomparso. I più antichi risalgono a oltre 115 milioni di anni fa, in pieno cretaceo (l’ultimo periodo dell’era mesozoica). I più recenti invece a circa 50 milioni di anni fa, in piena era terziaria, quando l’oceano scomparve e le forze geologiche sollevarono i fondali fino a trasformarli nei monti dell’Appennino. Come le pergamene di un annuario medievale, gli strati di roccia registrano con precisione ciò che accadde sul fondo dell’oceano.

L’alfabeto di questo libro non è di immediata lettura. Al Bottaccione non si trovano fossili “grandi”: niente ossa di dinosauro, niente conchiglie a spirale di ammoniti. Le rocce sembrano uniformi, a grana finissima, tanto che quelle degli strati più antichi vengono chiamate “maioliche”, perché sono bianche, omogenee e, se colpite con un martello, si rompono come fossero di porcellana. Sono composte in gran parte da conchiglie microscopiche di organismi unicellulari. Questi esseri vivono anche oggi nei primi 300 metri d’acqua dalla superficie degli oceani. E quando muoiono, le loro conchiglie cadono come una lenta e sottile polvere sul fondo del mare. Nei secoli, millimetro dopo millimetro, si accumulano per centinaia di metri di spessore. “Erano organismi a cui serviva un’acqua estremamente limpida, e qui eravamo almeno a mille chilometri dalla costa”, spiega Claudia Spalletta. Questi sedimenti, quindi, non sono mai stati “inquinati” dai detriti scaricati dai fiumi, un’altra caratteristica che rende il sito speciale.

Essendo così diffusi in tutti gli oceani, e lasciando miliardi di piccoli gusci riconoscibili al microscopio, è possibile seguire i mutamenti di questi fossili lungo le ere geologiche. In particolare grazie ad alcuni di essi, noti come foraminiferi, si può assegnare con sicurezza una data e un’appartenenza anche a strati geologici lontani tra loro. È un po’ come datare una fotografia dall’abbigliamento delle persone ritratte.

Fu proprio grazie a questi minuscoli gusci che il paleontologo svizzero Otto Renz e, in seguito, la paleontologa italiana Isabella Premoli Silva, misero giù il primo tassello del mosaico. Negli anni trenta, grazie ai foraminiferi, Renz riuscì ad assegnare una data agli strati del Bottaccione e capì che includevano ciò che era successo prima e dopo l’estinzione di fine cretaceo. Premoli Silva, negli anni sessanta, si focalizzò su un punto particolare della gola: quel piazzale sterrato e anonimo oggi indicato solo da una placca gialla. “Qui la paleontologa si accorse che, seguendo le rocce in ordine cronologico, a un certo punto i fossili mutavano bruscamente”, dice Rossella Capozzi mentre indica la parete rocciosa. In basso si possono scorgere – sapendo cosa guardare – i foraminiferi tipici del cretaceo, le cui conchiglie sono a volte abbastanza grandi da essere appena visibili a occhio nudo, come piccolissimi puntini nella roccia. Salendo verso gli strati più recenti, si raggiunge un momento in cui questi “puntini” scompaiono all’improvviso: per scorgere i microfossili che vengono dopo, serve un microscopio.

Come sulla terraferma i dinosauri scomparvero lasciando il posto a piccoli mammiferi, così anche nell’universo invisibile del plancton una florida popolazione di giganti lasciò il passo a pochi minuscoli superstiti. In mezzo a questi due mondi fossili, preciso come un segnalibro, qualcosa di assolutamente anomalo: un sottile strato scuro di argilla friabile, untuosa, completamente diverso dalle rocce chiare sopra e sotto. “Sembra un tratto di penna, lo vedi solo se qualcuno te lo fa notare”, dice Fanti. “Non è nulla, rispetto a quello che rappresenta”.

Attraverso pazienti confronti con rocce simili in altri paesi, come la Danimarca, Premoli Silva e altri colleghi dimostrarono che quel sottile segnalibro di argilla nera era qualcosa di eccezionale: era stato deposto proprio durante l’estinzione di fine cretaceo, sessantasei milioni di anni fa. In molte località simili, i sedimenti si interrompono a cavallo dell’estinzione, come se le pagine del libro fossero state strappate proprio in quel punto. Al Bottaccione le pagine ci sono tutte.

Luce su una catastrofe

Proprio per questo negli anni settanta il geologo californiano Walter Álvarez adocchiò la gola del Bottaccione per far luce su quello che, all’epoca, era un totale mistero: in quanto tempo si erano estinti i dinosauri? Poteva essere stato un evento repentino come anche una lunga agonia di qualche milione di anni. Álvarez ebbe una fortuna: suo padre Luis Álvarez, a cui fu assegnato il premio Nobel per la fisica nel 1968, gli suggerì di misurare il tempo attraverso la polvere cosmica, che si deposita sul pianeta con un ritmo abbastanza costante e conosciuto. Àlvarez padre e figlio scoprirono che in quel “segnalibro” nero sulla roccia del Bottaccione c’era tantissimo iridio, un metallo prezioso rarissimo sulla Terra ma abbondante nella polvere cosmica. Quell’iridio non poteva che essere arrivato dallo spazio, ma non come polvere, bensì tutto insieme. Veniva da un asteroide di almeno dieci chilometri di diametro che, scontrandosi con la Terra, aveva sparso le sue polveri su tutto il pianeta. Il colpevole perfetto per un’estinzione di massa che, fino a quel momento, era incomprensibile.

Questa scoperta non cambiò solo le nostre conoscenze sui dinosauri e su come si estinsero, ma mutò la nostra intera visione del pianeta. Da un secolo e mezzo i geologi avevano aderito al principio di uniformità di Charles Lyell, secondo cui i cambiamenti della crosta terrestre e della biosfera erano sempre graduali. L’iridio di Gubbio mostrò alla scienza che era vero solo in parte, la storia della Terra poteva cambiare, letteralmente, in un giorno solo, a causa di eventi rari e catastrofici. La scoperta dell’asteroide che estinse i dinosauri e cambiò il percorso della vita, permettendo alla nostra specie di evolversi, è uno dei grandi episodi della storia della scienza. Ma la gola del Bottaccione era un luogo di pellegrinaggio per i geologi ben prima della scoperta degli Álvarez. “È uno dei siti più studiati d’Italia, perché riporta una successione di strati completa attraverso un lunghissimo intervallo di tempo, che poi si possono correlare ad altri siti geologici”, spiega Fanti. Una specie di guida cronologica che può servire a decifrare la geologia di altri luoghi.

In alto, tra le ginestre, Claudia Spalletta e Rossella Capozzi indicano un’ampia striscia di rocce scure e friabili. È il cosiddetto Livello Bonarelli – da Guido Bonarelli di Gubbio, il primo geologo che nel 1891, a soli vent’anni, studiò la gola del Bottaccione – e racconta una storia forse altrettanto importante di quella dell’asteroide, ma più misteriosa. Quelle rocce rappresentano un periodo, circa 92 milioni di anni fa, in cui per meno di un milione di anni, improvvisamente, gli oceani di quasi tutto il mondo rimasero spesso senza ossigeno. Un evento a cui è corrisposta una piccola estinzione di massa, per quanto più moderata rispetto a quella del cretaceo.

I motivi di questa crisi ecologica sono ancora oscuri ma sembrano riconducibili a una catena di effetti cominciata a causa del riscaldamento globale, all’epoca dovuto all’attività dei vulcani. L’aumento delle temperature ha influito sulla biosfera, che ha di nuovo modificato il clima, trasformando l’anidride carbonica in materia organica, diminuendo l’effetto serra e portando a un successivo raffreddamento. Il tutto sullo sfondo di eventi geologici che hanno alterato la circolazione delle correnti oceaniche con, di nuovo, effetti sul clima e sulla biosfera. Una rete di interazioni ancora da districare, da cui però emerge la fitta connessione tra i sistemi terrestri: quanto accade a un componente del sistema si ripercuote su tutti gli altri, come se tirando un filo si alterasse tutto l’arazzo.

Guardando il livello Bonarelli, è difficile non pensare al presagio di cosa può accadere. Quello strato di sedimenti neri tra le ginestre mostra cosa può succedere in circostanze simili a quelle attuali, in cui un riscaldamento repentino del clima può stravolgere, con un effetto domino, la situazione dei nostri oceani e della biosfera.

Geoturismo

La gola del Bottaccione è tra i siti geologici più importanti nel mondo, non solo per il suo valore intrinseco, ma anche per il ruolo che ha avuto nella storia della scienza e della comprensione del pianeta. Eppure non è protetto. L’accesso è libero e chiunque può facilmente arrampicarsi sulle rocce. Dopo decenni la parete verticale studiata dagli Álvarez è diventata una nicchia scolpita da almeno due generazioni di geologi, traforata dai campionamenti. L’argilla scura che segna il momento dell’estinzione, quella dove è stato trovato l’iridio, è stata scavata dagli scienziati a tal punto che oggi, per raccoglierne campioni, bisogna infilarsi tra gli strati con un coltellino.

Allo stesso tempo, chi visita Gubbio raramente sa del Bottaccione e della sua importanza. È vero, al monastero di San Benedetto è stata installata una piccola mostra sui dinosauri e le estinzioni, ad apertura intermittente. Lungo la gola ci sono alcuni esaurienti cartelli informativi. Ma non è chiaro se sia abbastanza, e cosa si faccia per tutelare il patrimonio geologico in Italia. “Il patrimonio geologico è come quello artistico: una volta distrutto, non si recupera”, dice Cristina Giovagnoli, geologa dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). “Non esiste in Italia, purtroppo, una legge di tutela nazionale dei siti geologici, tutto è delegato alle regioni”. Alcune di queste hanno approvato leggi o delibere di tutela: Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Puglia, Liguria, Basilicata, Friuli Venezia Giulia. La Calabria ha una legge dedicata alla protezione del patrimonio geologico ma, come spiega Giovagnoli, “in pratica si occupa solo delle grotte”.

È un problema che l’Italia condivide con altri paesi, ma ci sono anche punti di riferimento all’estero, come il Regno Unito: “Hanno saputo creare una consapevolezza nel pubblico, che è il nostro punto debole”, continua Giovagnoli. “Qui il pubblico non ha il concetto di patrimonio geologico. La geologia è ovunque sotto i nostri piedi, ma è trascurata fin dalla scuola”. E sui mezzi d’informazione se ne parla quasi solo in occasione di disastri, come i terremoti o le eruzioni vulcaniche. Secondo Giovagnoli bisognerebbe guardare al cosiddetto geoturismo, partendo magari da siti che hanno già alto interesse paesaggistico, trasformando la ricchezza geologica in ricchezza economica. L’Italia vanta già undici geoparchi patrocinati dall’Unesco, un numero superato in Europa solo dalla Spagna: “Sono luoghi in cui nascono piccoli musei, centri di accoglienza, sentieristica”, spiega. “Ma anche i parchi naturali, in teoria, dovrebbero proteggere il patrimonio geologico, come previsto dalla legge 394 del 1991. In pratica però non viene mai fatto”. Una parziale eccezione è il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, che nel 2017 ha presentato la carta geologico-turistica della faglia del monte Serrone.

Per quanto riguarda il Bottaccione, Federico Fanti non è preoccupato: “In quasi tutti i casi il danno al sito, di per sé, è minimo. A differenza di altri beni, non è esauribile facilmente: scavando, gli strati continuano all’interno per decine di metri”. Poche ore dopo un suo collega, guardando lo stato di quella piccola parete di roccia, decide di cercare un altro punto in cui faccia capolino la preziosa argilla che ha svelato il giorno più lungo della Terra, sessantasei milioni di anni fa. Al ritorno dice di averne adocchiato uno: è irraggiungibile, però, se non calandosi con una corda da arrampicata. “Meno male”, sussurra qualcuno.

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