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La crisi climatica e l’olio d’oliva

Uliveti nella zona di Meknes, Marocco, 25 maggio 2015. (Fadel Senna, Afp)

Il 12 ottobre il Marocco ha annunciato che fino al 31 dicembre 2024 sarà necessaria un’autorizzazione del governo per esportare l’olio d’oliva prodotto nel paese. Con questo provvedimento, spiega Le Monde, Rabat si propone di “stabilizzare i prezzi al consumo”.

L’olio d’oliva ha registrato forti rincari a causa del crollo della produzione: nell’ultimo anno il prezzo di una tonnellata d’olio d’oliva vergine è passato da 70mila a più di 85mila dirham (circa 7.765 euro); l’olio extravergine vale circa centomila dirham alla tonnellata, rispetto agli 85mila del 2022. Non sono estranei alle difficoltà del Marocco, uno dei dieci principali produttori mondiali, gli effetti della crisi climatica: le estati più calde del solito e gli inverni non abbastanza freddi rallentano la crescita delle piante e riducono i raccolti.

Nella zona di Meknes, dove si concentrano gli uliveti più estesi, a settembre le temperature hanno spesso raggiunto i 35 gradi, mentre le precipitazioni sono diminuite. Secondo gli esperti del settore, quest’anno la produzione marocchina d’olio d’oliva diminuirà di un terzo, passando dalle 120mila tonnellate del 2022 a ottantamila.

La siccità aggrava le altre crisi europee
Gli effetti dell’estate eccezionalmente calda e secca si aggiungono a quelli della guerra in Ucraina, amplificando le difficoltà dei paesi europei in diversi settori chiave

L’olio d’oliva non è l’unico prodotto agricolo marocchino di cui sono limitate le esportazioni. A febbraio sono state sospese temporaneamente le vendite di pomodori, cipolle e patate verso l’Africa occidentale. L’obiettivo è sempre quello di contrastare l’impennata dei prezzi. Ma la misura non ha prodotto effetti soddisfacenti, sottolinea Le Monde: a Casablanca un chilo di pomodori costa fino a 12 dirham, quasi tre volte di più del normale. Alla fine di agosto il governo ha stimato l’aumento medio del prezzo dei prodotti alimentari in Marocco al 10,4 per cento rispetto allo stesso mese del 2022. I coltivatori sostengono che non dovrebbe andare meglio con il blocco delle esportazioni di olio, visto tra l’altro che la situazione è critica non solo in Marocco.

Anche in Spagna e in Italia, i leader mondiali del settore, il caldo estremo ha colpito i raccolti: il 12 ottobre un chilo di olio extravergine costava nove euro alla borsa spagnola di Jaén, mentre un anno fa valeva meno di sei euro.

Il problema dei limiti alle esportazioni riguarda molti altri prodotti alimentari. Per esempio il riso e lo zucchero. Il 19 ottobre il governo di New Delhi ha introdotto restrizioni alle esportazioni di diverse varietà di zucchero, perché l’eccessiva riduzione delle precipitazioni (al livello più basso degli ultimi cinque anni) ha danneggiato il raccolto di canna da zucchero. Dal momento che il paese asiatico è il secondo produttore mondiale del settore, la sua decisione è destinata a ridurre la disponibilità di zucchero a livello globale, facendo salire ulteriormente i prezzi del prodotto, che a settembre erano già al livello più alto dal 2011.

Nel frattempo, però, ha ridotto le limitazioni alle esportazioni di riso. Il 25 agosto New Delhi aveva introdotto limiti alla vendita di riso in altri paesi, sostenendo che la misura serviva a garantire la sicurezza alimentare del paese. Il governo aveva annunciato un’imposta del 20 per cento sul riso parboiled, con effetto immediato. Attualmente il paese asiatico ha una quota del 40 per cento nel commercio mondiale di riso. I prezzi del cereale, un alimento base per metà della popolazione del pianeta, è ai livelli più alti degli ultimi quindici anni.

La produzione agricola di molti paesi, soprattutto di quelli più poveri, è in difficoltà anche a causa della carenza di fertilizzanti, che fa diminuire i raccolti, aumenta il prezzo dei prodotti alimentari e di conseguenza il numero di persone che soffrono la fame, racconta il New York Times. Dal febbraio 2022, cioè da quando è cominciata la guerra in Ucraina, il prezzo dei fertilizzanti è più che raddoppiato in Nigeria e in altri tredici paesi, secondo un’inchiesta di ActionAid.

La Banca mondiale ha lanciato l’allarme sui rischi per la sicurezza alimentare nell’Africa centrale e occidentale. Nella sola Nigeria, il paese africano più popoloso, quasi novanta milioni di persone soffrono di malnutrizione. Il problema dei fertilizzanti, combinato alle temperature elevate, alle siccità e alle inondazioni ricorrenti, sta mettendo in crisi il pensiero dominante nel commercio internazionale, osserva il quotidiano statunitense.

Per anni “economisti importanti hanno promosso la globalizzazione come una sorta di assicurazione contro gli sconvolgimenti: se un’azienda non era in grado di produrre un certo bene in un posto, dicevano, la fornitura poteva arrivare da qualche altra parte. Ma oggi, mentre i coltivatori asiatici e africani sono alle prese con la carenza di fertilizzanti, emerge un aspetto meno celebrato dell’economia globalizzata: la dipendenza da un gruppo ristretto di fornitori di prodotti fondamentali fa sì che uno shock locale si ripercuota sul resto del mondo”.

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Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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