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Viaggio nella memoria tra Stati Uniti e Italia

Stonebreakers. (Dr)

Questa è la prima di una serie di interviste a giovani registi che hanno fatto film e documentari sugli Stati Uniti. L’idea è dare spazio a voci che raccontano in modo originale la società americana e, di riflesso, parlano anche molto della nostra. Chi volesse proporre i suoi lavori può scrivere alla newsletter Americana (americana@internazionale.it).

I protagonisti della prima puntata sono Valerio Ciriaci, regista, e Isaak Liptzin, direttore della fotografia. Al centro dei loro documentari ci sono temi che tornano spesso in questa newsletter: la complessità della storia americana e le sue ramificazioni nel resto del mondo, i conflitti intorno alla costruzione della memoria, come i comportamenti collettivi nel presente sono condizionati dalla lettura del passato. Entrambi sono cresciuti artisticamente con un piede in Italia e l’altro negli Stati Uniti, e il modo in cui le loro strade si sono incrociate è di per sé un tributo al legame tra i due paesi.

Isaak Liptzin è nato a San Francisco nel 1990. Quando aveva due anni i genitori decisero di trasferirsi in Italia, a Como, non per motivi di lavoro ma come scelta di vita, con l’idea di trascorrere qualche anno in Europa. Quella che doveva essere una fase temporanea è diventata una condizione permanente (i genitori vivono ancora oggi nella città lombarda) e Liptzin ha frequentato tutte le scuole in Italia. “Già al liceo ho cominciato a interessarmi alla fotografia, soprattutto alla fotografia documentaria, cioè ho capito che mi interessava sposare il mio interesse artistico per l’immagine con un’attenzione alla società e alle notizie”.

Dopo la maturità si è trasferito a New York, approdo naturale per coltivare quel tipo di interesse artistico. Si è iscritto al corso di laurea in fotografia alla New York university, ma lo ha lasciato dopo pochi semestri per via dei costi insostenibili della retta. Per cinque anni ha lavorato come cameriere, mentre cercava una strada per trasformare in un lavoro il suo interesse per il fotogiornalismo.

In quasi ogni stato americano c’è almeno una località che ha vissuto una crisi legata allo sfruttamento dei combustibili fossili

Più o meno nello stesso periodo, tra il 2011 e il 2012, anche Valerio Ciriaci cercava un modo per vivere a lavorare a New York. Era arrivato da Roma per studiare inglese, poi era rimasto “folgorato” dalla città e aveva deciso di rimanerci. Durante gli studi in scienze della comunicazione alla Sapienza si era interessato al documentario, così all’inizio del 2012 si è iscritto alla New York film academy. Cercando una stanza sul portale di annunci Craiglist ha trovato l’inserzione di Liptzin, che cercava un coinquilino.

Confrontandosi con Ciriaci, Liptzin ha capito che le sue idee sulla fotografia potevano trovare spazio nella forma del documentario cinematografico. Il passo successivo è stato creare insieme una casa di produzione, chiamata Awen Films, nel 2013. Da allora hanno realizzato lavori che sono diversi tra loro per tema, stile e durata, ma sono tenuti insieme dall’esplorazione del passato e, nella maggior parte dei casi, anche dal fatto che le vicende raccontate si sviluppano tra Italia e Stati Uniti. In tutti i casi ho apprezzato la profondità e l’originalità nelle ricerca dei protagonisti e dei luoghi.

Il loro primo lavoro, un cortometraggio di venti minuti, racconta la storia di Marcus Hook, una cittadina di duemila abitanti nel sudest della Pennsylvania la cui esistenza nel 2011 fu sconvolta dalla chiusura di una grande raffineria di petrolio. “Per generazioni gli abitanti di Marcus Hook sono stati convinti che un lavoro alla raffineria durasse per tutta la vita. Ma ora le cose sono cambiate”, dice un giornalista all’inizio del documentario. Questa frase, come le vicende delle persone intervistate, mi ha ricordato la West Virginia, colpita duramente dalla crisi dell’industria del carbone.


In quasi ogni stato americano c’è almeno una località che ha vissuto una crisi legata allo sfruttamento dei combustibili fossili. Vicende cominciate decenni prima, spesso già negli anni ottanta, ma in molti casi esplose dopo la crisi economica del 2008-2009: le amministrazioni comunali che si ritrovano senza entrate e vanno in rosso, migliaia di persone che all’improvviso perdono il lavoro (e non hanno le competenze che servirebbero per trovarsene un altro) e intere comunità che si rendono conto di aver appaltato il loro futuro ad aziende che hanno avvelenato la loro aria o la loro acqua. Difficile non pensare alla storia di Taranto e dell’Ilva.

Il cortometraggio, che si intitola Treasure - The story of Marcus Hook, mostra la paura per la mancanza di un futuro – “non vogliamo essere dimenticati com’è successo a quella cittadina del New Jersey”, dice un uomo – e anche l’ostinazione con cui la comunità cerca di restare a galla: “Lottiamo per trovare una nuova identità”, dice una donna. Consapevoli di essere ormai tagliati fuori dal futuro, gli abitanti di Marcus Hook cercano quella nuova identità rovistando nel passato: recuperano le storie dei pirati (perfino il leggendario Barbanera, secondo i racconti tramandati) che nel settecento scorrazzavano nella foce del fiume Delaware e trovavano rifugio in città. Così cercano maldestramente di trasformare la cittadina in un’attrazione turistica.

Il rimosso italiano sul colonialismo

Il lavoro successivo di Ciriaci e Liptzin, il loro primo lungometraggio, s’intitola If only I were that warrior. Ruota intorno al sacrario costruito dal comune di Affile, in provincia di Roma, in onore di Rodolfo Graziani, il generale fascista che guidò le guerre coloniali di Mussolini in Libia e in Etiopia, ed è ricordato soprattutto per i crimini commessi contro la popolazione etiope tra il 1936 e il 1937.

È interessante che i due autori siano venuti a conoscenza della vicenda di Affile non in Italia ma negli Stati Uniti, grazie alle campagne di sensibilizzazione degli attivisti della diaspora etiope. Spesso sono proprio le persone che emigrano, e poi i loro figli e nipoti, a portare all’attenzione del resto del mondo i torti subiti dagli antenati nella terra d’origine, e questo elemento mostra quanto possano essere complessi ed estesi i meccanismi che contribuiscono a creare la memoria di un fatto storico.

Il documentario restituisce questa complessità sviluppandosi in tre continenti e dando spazio a persone molto diverse tra loro. C’è Mulu, una donna etiope arrivata in Italia nel 1992 per inseguire il “sogno europeo”, e che poi è finita in prima linea nella protesta contro il monumento a Graziani (“finché il monumento non è demolito tornerò per lottare”). C’è Nicola, statunitense di New York, nipote di un contadino italiano che durante il ventennio fascista si trasferì in Etiopia credendo alla promessa di benessere del regime; Nicola ha frequentato un corso di studi africani al college, ha scoperto quello che gli italiani avevano fatto lì e si è sentito in dovere di aiutare gli etiopi a ottenere giustizia, anche facendo pressione sulle autorità italiane per abbattere il monumento a Graziani.

La società statunitense sembra esprimere un dinamismo difficile da immaginare in Europa, e in particolare in Italia

C’è Giuseppe, un agronomo della Fao che trasmette le sue conoscenze ai contadini del Tigrai, una regione molto povera nel nord dell’Etiopia; guarda con nostalgia al colonialismo italiano, è convinto che gli etiopi non provino risentimento nei confronti degli italiani e non pensa che il monumento a Graziani debba essere abbattuto. Ci sono poi le voci degli abitanti di Affile, dove Graziani visse l’ultimo periodo della sua vita. Il documentario si conclude con una cerimonia in città dedicata alle vittime del nazifascismo in quella zona del Lazio, in cui emerge in maniera quasi surreale il rimosso italiano sul colonialismo e sui crimini fascisti.

All’epoca Ciriaci e Liptzin erano alle prime armi e avevano davanti vari scogli a livello produttivo e di distribuzione. Hanno ricevuto una grossa mano dagli attivisti. Spiega Ciriaci: “Negli Stati Uniti ci ha aiutato il lavoro delle comunità etiopi, che sono molto presenti a New York, Washington e Dallas, tre città dove abbiamo poi proiettato il film. Queste persone ci hanno aiutato con il fundraising iniziale (il film è stato completamente finanziato attraverso la piattaforma Kickstarter) e poi con la distribuzione”.

Anche in Italia si è creata una rete dal basso – professori, attivisti, associazioni che lavorano con i migranti – che ha fatto crescere l’interesse per il film. Il documentario è stato premiato con il Globo d’Oro, un premio assegnato ogni anno dai giornalisti della stampa estera accreditata in Italia, e ha intercettato quelle spinte alla rilettura del passato e alla ricostruzione della memoria che si cominciavano a manifestare in tutto il mondo occidentale.

Monumenti controversi

Dopo il documentario su Graziani Ciriaci e Liptzin hanno realizzato due lavori diversi, più circoscritti e più narrativi: Mister Wonderland (a cui ha partecipato anche Luca Peretti in fase di scrittura e produzione) racconta la storia straordinaria di Zefferino Poli, un uomo che nell’ottocento emigrò negli Stati Uniti dalla provincia di Lucca e diventò uno dei più importanti impresari teatrali del paese; Iom Romì (A Day in Rome) ripercorre la storia del ghetto ebraico di Roma (prodotto insieme al Centro Primo Levi New York). Ma nel frattempo avevano continuato a ragionare e fare ricerca sul rapporto tra memoria e attualità politica.

Negli Stati Uniti le tensioni sull’interpretazione del passato erano più forti che altrove, e una figura, quella di Cristoforo Colombo, le riassumeva in maniera plastica: per gli italoamericani era un simbolo che nobilitava l’emigrazione italiana negli Stati Uniti, per i nativi americani era la personificazione dei crimini commessi dagli europei contro i loro antenati. Ciriaci e Liptzin hanno cominciato a raccogliere materiale per un documentario intorno a Colombo, ma hanno deciso di rivedere il loro progetto dopo che George Floyd è stato ucciso a Minneapolis, a maggio del 2020, e sono scoppiate in tutto il paese le proteste del movimento antirazzista Black lives matter.


Ne è venuto fuori Stonebreakers, un documentario che segue una delle fasi più intense della storia recente degli Stati Uniti concentrandosi sugli sforzi degli attivisti per abbattere i monumenti storici che ritraggono personaggi controversi del passato, come Cristoforo Colombo e i generali della confederazione sudista.

È costruito come un mosaico dove ogni tessera racconta uno spaccato del conflitto sull’identità americana: da New York al Connecticut, dalla Virginia al South Dakota fino al confine tra Arizona e Messico. Alcune scene, come quella in cui viene rimossa la statua di Colombo a New Haven, colpiscono per la solennità; altre restano impresse per la spontaneità, come lo scambio tra due adolescenti che parlano attraverso le sbarre della barriera di confine.

Stonebreakers (a cui hanno partecipato anche Andrea Fumagalli come montatore e Curtis Caesar John come producer) sembra invitare lo spettatore a non banalizzare quei movimenti e le loro richieste. La rabbia contro le statue non dovrebbe essere vista come una furia distruttiva verso tutto ciò che gli Stati Uniti hanno costruito e rappresentano; al contrario, serve a tracciare una linea che colleghi il passato a questioni politiche molto attuali e concrete. Una lettura molto diversa da quella che ha dominato buona parte della stampa italiana nei mesi delle proteste antirazziste. Ho cercato di approfondire con gli autori i motivi di questo divario.

“Ci sembra che in Italia si tenda ad appiattire lo sguardo su questi argomenti”, dice Liptzin. “Vengono spesso presentate due prospettive assolute che si scontrano, in particolare nei campus universitari: da una parte chi difende la libertà di parola e dall’altra chi è mosso dal politicamente corretto e vuole riscrivere la storia. Non vogliamo negare che ci siano degli eccessi nel modo in cui a volte si parla di razzismo, di classe o di genere; alcuni comportamenti sono effettivamente il frutto degli eccessi della cancel culture. Ma, andando un po’ oltre, ci è sembrato di vedere soprattutto dei movimenti molto complessi che stanno lottando, anche al loro interno, per trovare soluzioni nuove”.

Il team di Stonebreakers. Da sinistra: Andrea Fumagalli, montatore; Curtis Caesar John, producer; Valerio Ciriaci, regista; Isaak Liptzin, direttore della fotografia.

Alla base di quella semplificazione c’è spesso una tendenza degli europei a guardare la storia statunitense attraverso una serie di cliché. Continua Liptzin: “Uno degli argomenti che vengono fuori spesso è che si tratta di un paese senza storia, dove le persone non hanno legami forti con il passato e per questo si sentono libere di abbattere le statue o di modificare il paesaggio.

In realtà è il contrario: gli Stati Uniti hanno uno degli ordinamenti costituzionali tra i più antichi del mondo, perché risale alla fine del settecento, e c’è una continuità istituzionale fortissima che non esiste in Italia, in Francia e nella maggior parte dei paesi europei, dove ci sono state guerre, rivoluzioni e altri cambi di regime. In questo contesto esiste la possibilità di rinnovarsi e di andare avanti a livello sociale, cosa che da noi è più difficile. Quindi attaccando una statua, un simbolo del passato, gli attivisti vogliono dire che esiste una continuità storica molto precisa, per esempio, tra le disuguaglianze razziali e i dati che oggi vedono gli afroamericani e i nativi in fondo a quasi qualsiasi classifica sul benessere socio-economico. Si può dire”, conclude Liptzin, “che negli ultimi anni negli Stati Uniti abbiamo assistito a un tentativo di recuperare la memoria storica, non di eliminarla”.

Con tutte le sue contraddizioni e i suoi eccessi, la società statunitense sembra in effetti esprimere un dinamismo difficile da immaginare in Europa, e in particolare in Italia, in questo momento storico. Le grandi proteste del 2020 non sono state un caso isolato: ce ne erano state altre negli anni precedenti e ne sono scoppiate di nuove in seguito. Il 2023, in particolare, è stato l’anno del risveglio del movimento sindacale statunitense – che ha vinto battaglie importanti in vari settori – mentre i lavoratori europei fanno sempre più fatica a far sentire la loro voce.

La spiegazione di questa distanza, viene da pensare guardando Stonebreakers, sta almeno in parte nella maggiore capacità degli americani di mettersi in discussione, il che vuol dire accettare una certa dose di conflitto costante. Mi dice Ciriaci: “Se pensiamo ai movimenti per i diritti civili degli anni sessanta, alle Pantere nere, alle battaglie delle comunità migranti, anche italiane, e ai movimenti sindacali di inizio novecento, vediamo che gli Stati Uniti sono stati spesso all’avanguardia delle lotte sociali. In questo risiede la grande complessità americana. Un paese che da una parte ha una forte componente conservatrice e imperialista – gli Stati Uniti sono un paese che non ha formalmente delle colonie, ma ce le ha di fatto sotto altre forme – dall’altra riesce a dare vita, proprio nel cuore dell’impero, a movimenti che combattono lo status quo e qualche volta vincono delle battaglie fondamentali e trascinano poi il resto dei movimenti mondiali. È quello che abbiamo visto succedere con le proteste del 2020”.

Questa lettura emerge anche nell’ultimo lavoro della Awen Films, un documentario breve realizzato con la Casa italiana Zerilli-Marimò di New York. Racconta la storia del Triangle fire, l’incendio che nel 1911 uccise 146 persone, in gran parte giovani immigrate italiane, in una fabbrica di New York dove si producevano camicie. L’indignazione per quella tragedia portò all’approvazione di una serie di leggi per la sicurezza sul lavoro e, spiega Ciriaci, “negli anni seguenti alimentò tante battaglie per i diritti delle donne”.

L’aspetto più interessante è il modo in cui è stato commemorato il Triangle fire, non con una statua dedicata a una persona ma con un memoriale che celebra il contributo collettivo di quelle donne. In altre parole il tentativo di trasformare la memoria in uno strumento d’inclusione, che si ritrova anche nelle rivendicazioni degli attivisti in Stonebreakers.

Dove vedere i documentari della Awen Films:

  • Treasure – The story of Marcus Hook è su Vimeo on demand.
  • If only I were that warrior è su Vimeo on demand, e anche su Amazon, su Apple Tv e su ZalabView.
  • Mister Wonderland è su RaiPlay.
  • Iom Romì è su Vimeo on demand.
  • Il documentario breve sul Triangle fire è su YouTube.
  • Stonebreakers uscirà in streaming on demand il 16 gennaio 2024 su Vimeo, Amazon, Apple TV, ZalabView, Chili e Rakuten.

Stonebreakers inoltre tornerà nelle sale con la rassegna Rovine d’America:

il 15 gennaio a Bassano del Grappa (Metropolis Cinemas)
il 16 gennaio a Venezia (Multisala Rossini)
il 17 gennaio a Brescia (Cinema Nuovo Eden)
il 18 gennaio a Venezia Lido (Cinema Astra)
il 29 gennaio a Roma (Cinema Troisi)
il 16 febbraio a Genova (Cinema Nickelodeon)

Per finire, ho chiesto ai due autori consigli su libri, film e posti da vedere negli Stati Uniti. Ecco la loro lista.

Libri
An indigenous peoples’ history of the United States, di Roxanne Dunbar-Ortiz.
Italian immigrant radical culture: the idealism of the sovversivi in the United States, 1890-1940, di Marcella Bencivenni.
Our history is the future, di Nick Estes.
Giù i monumenti? Una questione aperta, di Lisa Parola.
I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti, di Arnaldo Testi.
Il ginocchio sul collo, di Alessandro Portelli.

Film
Lakota Nation vs United States, di Jesse Short Bull e Laura Tomaselli.
The neutral ground, di CJ Hunt.
Killers of the flower moon, di Martin Scorsese.
I am not your negro, di Raoul Peck.

Posti da visitare
New York City: Triangle Fire Memorial.
Philadelphia, Pennsylvania: The Village of Arts and Humanities.
Richmond, Virginia: African Burial Ground.
Minneapolis, Minnesota: George Floyd Global Memorial.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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