05 novembre 2018 10:20

“Perché vuoi parlare di noi? Non sarai l’ennesimo giornalista che viene qui per raccontare che siamo poveri e disperati?”. Melissa Nestor, l’editrice del Welch News, l’unico quotidiano di Welch, in West Virginia, mi guarda di traverso, un po’ sospettosa e un po’ incuriosita. Ieri, racconta, è passato in redazione un altro giornalista straniero, un francese. “Mi ha fatto le solite domande. Vogliono tutti sapere come ce la passiamo da queste parti”. Dopo una settimana in giro tra le colline di questo piccolo stato nascosto tra gli Appalachi, si capisce che la gente del posto ha buoni motivi per essere diffidente verso chi viene da fuori.

Nel maggio 2016, quando Donald Trump ha vinto le primarie repubblicane con il 77 per cento dei voti, il West Virginia è diventato “Trump country”, il paese di Trump. Frotte di giornalisti si erano riversate nelle campagne sperdute di aree minerarie depresse e nei quartieri di città infestate dall’eroina per spiegare come una roccaforte della sinistra si fosse innamorata di un miliardario. Le analisi seguivano quasi sempre la stessa traccia: la crisi del settore minerario aveva mandato in bancarotta l’economia locale e costretto la parte migliore della popolazione a emigrare, mentre quelli rimasti avevano trovato conforto nel nichilismo politico, contenti di trascinare a fondo l’intero paese pur di prendersi una rivincita sulle élite delle grandi città.

In molti articoli l’abitante medio del West Virginia era un uomo bianco indignato, razzista con gli immigrati e i musulmani, sul punto di perdere il lavoro e in alcuni casi dipendente da farmaci antidolorifici. Oppure lo descrivevano in modo pittoresco, come un montanaro un po’ fuori di testa e non particolarmente evoluto.

La maggior parte dei giornalisti aveva deciso di osservare queste trasformazioni proprio da Welch, la città di Melissa Nestor, nella contea di McDowell. La storia di quest’area è la più dolorosa tra quelle che raccontano il declino del West Virginia. Tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento McDowell è stata l’epicentro dell’industria mondiale del carbone, destinazione di migliaia di immigrati che venivano dirottati qui dopo essere sbarcati a Ellis Island, a New York, con la promessa di una casa e di un buon lavoro. Welch, il capoluogo della contea, era cresciuta fino ad avere centomila abitanti e una vita sociale che non aveva niente da invidiare alle grandi città del resto del paese. In una foto scattata nel 1946 si vede un fiume di automobili intasare la strada principale e decine di pedoni che affollano i marciapiedi davanti al teatro cittadino. Oggi la città ha poco più di duemila abitanti e bisogna girare un po’ prima di incontrarne qualcuno per strada, anche perché non ci sono pub o caffè. Sulle vie si affacciano palazzi di mattoni anneriti dal tempo con porte sprangate e finestre rotte. Gli unici segni di vita si registrano all’uscita di una banca, dell’imponente tribunale in pietra e degli uffici del Welch News.

Una trasformazione così drastica si incastrava perfettamente nella descrizione del declino e della rivolta nichilista che aveva portato Trump a vincere le primarie. Poco importava se in fin dei conti gli elettori che l’avevano votato fossero stati solo 760 in una contea con 18mila abitanti. La piccola e remota McDowell era diventata “l’altra America”, il posto che il resto del paese poteva osservare per capire quello che non voleva diventare.

Dopo le elezioni presidenziali la diffidenza nei confronti dell’area degli Appalachi si è trasformata nell’ostilità di entrambi gli schieramenti. Il Partito democratico ha concluso di essere stato tradito dal suo elettorato storico, operaio e sindacalizzato (anche se varie analisi hanno dimostrato che Trump ha vinto soprattutto grazie al sostegno dei bianchi benestanti). E la gran parte dei repubblicani non aveva nessuna voglia di far salire sul carro dei vincitori persone così lontane dal proprio mondo. Sulla National Review il giornalista conservatore Kevin Williamson ha scritto un articolo in cui auspicava l’estinzione degli abitanti degli Appalachi: “La verità è che queste comunità piccole e disfunzionali meritano di morire. Economicamente non hanno valore e moralmente sono indifendibili”.

La redazione del Welch News, l’unico quotidiano di Welch, nella contea di McDowell, ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

Oggi, mentre si avvicinano le elezioni di metà mandato, gli Appalachi sembrano aver perso nuovamente l’attenzione di commentatori e politici. Nel frattempo la situazione sociale non è migliorata. Il West Virginia è in fondo alle classifiche sul benessere e l’aspettativa di vita negli Stati Uniti. Almost heaven, quasi il paradiso, come canta John Denver, è la definizione che gli abitanti amano dare di una terra verso la quale mostrano una devozione profonda. Nel “quasi” c’è la condizione di un luogo perennemente sospeso tra bellezza e desolazione, speranza e collasso imminente, dove i boschi sterminati, che scendono ripidi a valle lasciando a malapena lo spazio per strade e binari, sono un rifugio e una gabbia allo stesso tempo. I problemi sono tutti alla luce del sole. Sia nelle città sia nelle zone rurali tutto sembra cospirare per confermare le statistiche e gli stereotipi: il livello allarmante di dipendenza da oppioidi, la religiosità esasperata, il culto delle armi, la mancanza di opportunità, la chiusura culturale verso il mondo esterno.

Ma se è vero che gli stereotipi raccontano sempre una parte della realtà, basta raschiare un po’ la superficie per accorgersi che sotto il racconto del “paese di Trump” c’è molto di più. Questa definizione è una trappola che impedisce di osservare le tante dinamiche che stanno modificando, seppur lentamente, quella società, e che potrebbero condizionare il modo in cui tutto il paese affronta i suoi problemi.

Il West Virginia offre un esempio eclatante: l’attivismo sindacale degli insegnanti delle scuole pubbliche che si è diffuso all’inizio dell’anno è diventato in poco tempo un movimento di trasformazione sociale che si è esteso anche in altri stati.

Le proteste degli insegnanti
Una storia raccontata raramente quando si parla di McDowell è quella dell’impronta lasciata dagli afroamericani. Tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento migliaia di persone arrivarono qui dall’Alabama, dalla Georgia e da altri stati meridionali in cerca di lavoro.

Erano in maggioranza figli di schiavi in fuga dalle difficoltà economiche e dalle discriminazioni razziali che dominavano il sud dopo la fine della guerra civile. A loro si unirono presto migliaia di ungheresi, polacchi, italiani e altri europei, e fu lì, nei campi minerari delle montagne del sud del West Virginia, che nacque uno dei primi esperimenti di melting pot della storia americana.

I rapporti razziali non erano sempre idilliaci – anche perché i proprietari cercavano di colpire i sindacati mettendo le varie comunità di lavoratori le une contro le altre – ma in generale il processo d’integrazione era molto più avanti che nel resto del paese. Bianchi e neri facevano la stessa vita, condividevano gli stessi spazi e avevano le stesse esigenze economiche, e trovarono un’unità sotto la bandiera del sindacato dei minatori, che già nel 1910 chiedeva equità salariale per tutti i lavoratori.

Tra le famiglie afroamericane che si trasferirono a McDowell c’era anche quella di Gwendolyn Lacy, una donna minuta, sulla sessantina, con un timbro di voce dolce che contrasta con la durezza dei suoi racconti. Lacy, una maestra elementare, guida la sezione del West Virginia education association (uno dei due sindacati di insegnanti dello stato) nella contea di McDowell. All’inizio degli anni sessanta lei e i suoi fratelli furono tra i primi bambini neri della zona ad andare a scuola insieme ai bianchi. “Con i compagni di classe e soprattutto con i loro genitori era difficile, ma ho sempre avuto insegnanti che mi hanno voluto bene”, racconta.

Switzer, contea di Logan, ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

Dopo la laurea a Bluefield, uno storico college per neri nel sud dello stato, Lacy è tornata per insegnare nella contea di McDowell. Vive a Roderfield, nella stessa casa dove la sua famiglia si era trasferita quando lei aveva undici anni. Come quasi tutte le persone che incontro, Lacy si sente in dovere di spiegarmi perché non è scappata dal West Virginia. “Resto qui perché è casa mia, mi piacciono le persone, mi piace insegnare”. Poi, con lo sguardo basso e gli occhi lucidi, aggiunge: “Ma non si fanno progressi. Molte famiglie se ne sono andate dopo le frane del 2009 o per la povertà. Gli studenti sono sempre meno e per quelli che si diplomano è difficile trovare lavoro”. Nella contea di McDowell il tasso di disoccupazione è quasi il doppio rispetto alla media statale.

Lacy è stata tra i rappresentanti sindacali che hanno dato il via alle proteste, cominciate ufficialmente il 2 febbraio 2018, quando i dipendenti pubblici della contea di McDowell, insieme a quelle vicine di Wyoming, Mingo e Logan, hanno proclamato un giorno di sciopero. La prima rivendicazione riguardava i salari. I circa 20mila insegnanti del West Virginia sono tra quelli pagati peggio di tutto il paese: nel 2017 la media dello stipendio annuale nello stato era di 46mila dollari, contro gli 83mila dollari dello stato di New York, in cima alla classifica, e i 56mila del Nevada, che si trova nella parte centrale. Nelle contee dove è cominciato lo sciopero, le più povere dello stato, la situazione è peggiore.

“Qui lo stipendio medio è di circa 33mila dollari all’anno”, spiega Brandon Wolford, 30 anni, insegnante di sostegno nella scuola Lenore di Williamson, nella contea di Mingo, e presidente di un sindacato locale. “Molti docenti arrivano a stento alla fine del mese e sono costretti a fare straordinari o perfino altri lavori per far quadrare i conti”.

Lo sciopero delle quattro contee meridionali si è esteso rapidamente e ben presto è diventato una mobilitazione permanente nelle scuole di tutte le 55 contee dello stato. Mentre il governatore repubblicano Jim Justice rilasciava interviste promettendo un aumento dei salari dell’1 per cento e intimando agli insegnanti di tornare al lavoro (in West Virginia gli scioperi dei dipendenti pubblici sono illegali), migliaia di persone, tra cui anche gli autisti degli scuolabus e i cuochi delle scuole, si accampavano davanti alla sede del parlamento locale, a Charleston.

Matewan, contea di Mingo, ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

Gli insegnanti chiedono maggiori finanziamenti per le scuole e l’assunzione di nuovo personale (sono sempre di più quelli che si trasferiscono dove gli stipendi sono più alti, come in Pennsylvania e in Virginia), e alle rivendicazioni salariali si sono affiancate le proteste per il rincaro delle spese sanitarie. “Negli ultimi anni il governo del West Virginia ha tagliato i fondi per l’agenzia che si occupa di coprire le spese mediche degli impiegati pubblici, e questo ha fatto aumentare i premi delle assicurazioni degli insegnanti”, spiega Dale Lee, presidente nazionale del sindacato West Virginia education.

In uno stato povero con seri problemi di tossicodipendenza e malattie causate dall’inquinamento, i tagli colpiscono soprattutto le persone che hanno già dei problemi di salute – e per questo pagano premi più alti – e che spesso non possono permettersi di comprare i farmaci o andare dal medico.

In senso più generale, gli insegnanti chiedono di non dover gestire tutti i problemi che affliggono la comunità. “Nella mia scuola siamo costretti a usare i nostri soldi per aiutare gli studenti in difficoltà”, dice Jay O’Neil, insegnante in una scuola di Charleston. “Il nostro lavoro consiste nel cercare di dare risposte alla povertà”.

Per tanti insegnare significa anche confrontarsi con un’emergenza sanitaria, perché in West Virginia la diffusione dei farmaci antidolorifici e dell’eroina è stata più rapida e capillare che nel resto del paese. Tra il 2007 e il 2012 lo stato, che ha 1,8 milioni di abitanti, si è visto recapitare dalle aziende farmaceutiche 780 milioni di pillole.

Williamson, il paesino di Brandon Wolford, ha 2.900 abitanti e due farmacie, che in dieci anni sono state rifornite con 21 milioni di pillole. Nel 2016 qui è stato registrato il più alto numero di morti per overdose (43 ogni centomila abitanti, a fronte di una media nazionale di circa 15). L’epidemia ha colpito tutte le fasce sociali, nelle città e nelle campagne, ed è quasi impossibile trovare qualcuno che non ne sia stato toccato, direttamente o indirettamente.

Il ristorante greco di Markella Balasis Gianato a Kimball, ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

I problemi si ripercuotono sulle scuole, anche su quelle dei quartieri benestanti. Nel liceo di Huntington, un edificio moderno circondato dal verde, Melanie Pinkerman racconta che “molti dei nostri studenti hanno perso i genitori per overdose, e tanti altri sono stati cresciuti dai nonni”. Pinkerman è una consulente scolastica: il suo lavoro consiste nell’indirizzare ragazze e ragazzi, e nell’aiutarli a risolvere i loro problemi. Anche lei ha una storia dolorosa da raccontare. “Il mio ex marito è morto di overdose sei mesi fa. Come molti altri, aveva cominciato a prendere antidolorifici dopo un incidente, per poi passare all’eroina quando era diventato più difficile trovare le pillole”. A febbraio Pinkerman ha scioperato insieme agli insegnanti per chiedere più soldi – “sono arrivata a guadagnare 50mila dollari all’anno solo al dodicesimo anno di lavoro” – ma anche perché “siamo in pochi e ci chiedono di fare sempre più”.

Dopo nove giorni di chiusura delle scuole in cui gli insegnanti hanno rifiutato ogni compromesso, il governatore e il parlamento, controllato dai repubblicani, hanno ceduto, concedendo un aumento del 5 per cento all’anno dei salari e promettendo di rimettere mano al sistema sanitario. Nei giorni dello sciopero gli insegnanti si sono guadagnati il sostegno del resto della popolazione organizzando attività per i ragazzi e soprattutto mense per i figli delle famiglie in difficoltà. O’Neil mi ha raccontato commosso l’entusiasmo con cui è stato accolto dai bambini al ritorno nella sua classe. “‘Guardi’, mi ha detto uno studente, ‘l’ho fotografata mentre era in tv!’”.

Jean Battlo, insegnante di storia in pensione e scrittrice di racconti e opere teatrali. È nata a Kimball nel 1939. La foto è stata scattata nell’ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

In un certo senso era solo l’inizio: nel giro di pochi giorni scioperi e proteste simili sono cominciati in altri stati in condizioni simili (paghe basse, pochi fondi e costi sanitari alle stelle) come Oklahoma, Kentucky e Arizona, e hanno costretto le amministrazioni repubblicane a fare delle concessioni.

Per Lacy non è un caso se la miccia della rivolta sindacale si è accesa proprio a McDowell. “Qui, vista la nostra storia, la gente capisce l’importanza di avere un sindacato”. Brendon, l’insegnante di Williamson, ripete il concetto riferendosi orgogliosamente alla storia della sua famiglia: “Mio nonno era il presidente del sindacato locale. È morto per una frana in miniera. E anche mio padre era iscritto al sindacato”.

Passato e presente
In West Virginia il passato incalza costantemente il presente, e i ricordi tramandati ai figli e ai nipoti sono il carburante che serve non solo a tenere viva la memoria ma anche a mettere in moto il cambiamento. Lo sa bene Jean Battlo, insegnante di storia, scrittrice di racconti e opere teatrali, negoziante e ambientalista. È nata nel 1939 a Kimball, un paesino non lontano da Welch, che oggi conta 170 abitanti. Lei non si è quasi mai mossa da lì, ma le sue opere hanno girato gli Stati Uniti, raccontando la storia dell’emigrazione italiana in West Virginia e quella delle lotte sindacali della contea di McDowell.

“Mio padre, Fortunato Battaglia, e suo fratello, Antonio, lasciarono la Calabria nel 1911 convinti che sarebbero tornati. Nessuno dei due lo fece mai. Dopo un periodo nell’area di New York, qualcuno gli disse che c’erano lavoro e opportunità in West Virginia. Era appena scoppiata la grande guerra e il mondo aveva bisogno di carbone”. Antonio sarebbe morto tre anni dopo in un incidente in miniera, mentre Fortunato, il cui nome fu anglicizzato in Tom Battalo e poi in Tom Battlo, si appassionò al lavoro – “si vantava spesso di essere il minatore che riusciva a caricare più carbone” – e imboccò la sua personale strada verso il sogno americano. Nel 1916 sposò Concetta Maria Roschella, una ragazza calabrese conosciuta per corrispondenza. Ebbero otto figli. Nessuno di loro ha lavorato in miniera. “L’orgoglio più grande dei miei genitori è stato quello di averci fatto studiare e diplomare tutti”.

Jonathan Cox e Felicia Blevins, i due ragazzi di Kimball che fabbricano le statuette di carbone nel negozio di Jean Battlo. Ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

Tom e Concetta risparmiarono abbastanza per costruirsi la loro casa e comprarono anche un edificio nella strada principale di Kimball, dove aprirono un negozio di alimentari per i due figli più grandi. “Il palazzo è questo”, mi dice Jean Battlo guardandosi intorno. “Io vivo al primo piano, al piano terra c’è il negozio”.

Il negozio ha un ingresso con le pareti blu coperte di libri e foto d’epoca, dove c’è un bancone e la scrivania di Battlo. Sul retro c’è il laboratorio di Jonathan Cox e Felicia Blevins: nella grande stanza i due ventenni di Kimball fabbricano statuette di carbone – minatori in pose e grandezze diverse, calamite con la sagoma del West Virginia, caschi da minatori, crocefissi – mescolando resina e polvere di carbone, vendute anche online.

Battlo ha ereditato da suo padre la vitalità e la generosità tipica degli italoamericani. “Ieri mi è venuta una brutta influenza e oggi pomeriggio devo partire per il mare”, dice, “ma voglio farti conoscere delle persone”. Per l’occasione ha radunato i suoi amici – tra cui il presidente dell’associazione di storia locale e il direttore dell’agenzia per la sicurezza nazionale del West Virginia – nell’unico locale di Kimball, un ristorante greco gestito da Markella Balasis Gianato, discendente di immigrati greci arrivati a McDowell all’inizio del secolo scorso. Tra gyros pita, souvlaki e litri di caffè, discutono dello sciopero degli insegnanti, di quello che resta della vecchia Kimball, della recente chiusura di una delle poche miniere rimaste nella zona, che ha lasciato 400 persone senza lavoro (negli stessi giorni in cui Trump sbandierava gli eccellenti dati nazionali sulla creazione di nuovi posti di lavoro).

Wilma Steele davanti al suo Museo delle guerre minerarie. Matewan, ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

Il prossimo anno, in estate, Battlo metterà in scena a Kimball la sua opera teatrale sulle guerre minerarie degli anni venti. Gli attori sono seduti intorno al tavolo: Markella Balasis sarà Mother Jones, insegnante e sindacalista di origine irlandese che all’inizio del secolo scorso coordinò una serie di scioperi in molte zone degli Stati Uniti; Cox, il ragazzo delle statuette, vestirà i panni di Ed Chambers, il vicecapo della polizia locale, vicino alla causa dei minatori, ucciso dalle guardie assoldate dalle aziende minerarie sulle scale del tribunale di Welch nel 1921; Felicia Blevins interpreterà sua moglie.

Per Battlo tutto quello che ha realizzato nella vita – i trent’anni d’insegnamento, le opere teatrali, le statuette, i racconti gotici ambientati in West Virginia – non ha a che fare con la nostalgia ma con la volontà di tramandare un’organizzazione sociale e un modo di fare politica.

Il nuovo attivismo
È così anche per Wilma Steele, un’insegnante in pensione nata e cresciuta a Matewan, nella contea di Mingo, dove il fiume Tug Fork segna il confine tra West Virginia e Kentucky. A cavallo tra l’ottocento e il novecento questi boschi furono teatro di una delle faide più famose della storia americana, quella tra gli Hatfield (che vivevano in West Virginia) e i McCoy (originari del Kentucky). La faida, che causò decine di morti da entrambe le parti, era alimentata da questioni legate alla proprietà dei terreni e allo sfruttamento delle risorse, ma i tanti giornalisti che arrivarono da fuori la raccontarono come una guerra insensata originata dal furto di un maiale e dalla storia d’amore tra due giovani dei clan rivali. Fu allora che si cominciò a descrivere il West Virginia come un “terzo mondo” nel cuore degli Stati Uniti, abitato da bianchi violenti e sottosviluppati.

Steele dice che da maestra ha cercato di fare quello che nessuno aveva fatto con i ragazzi della sua generazione: “A scuola non ci dicevano niente sulle lotte sindacali, nei libri di storia quei fatti non esistevano. Si parlava solo della faida tra Hatfield e McCoy”. Oggi, invece, le giovani generazioni sono più consapevoli dal punto di vista politico, e questo secondo Steele ha contribuito al recente attivismo sindacale. “Quando ho visto in tv i manifestanti parlare delle guerre minerarie e indossare le bandane rosse al collo, simbolo dei minatori che negli anni venti lottavano contro le aziende e la polizia, ho cominciato a saltare dalla felicità”. Lo scorso luglio una delegazione di insegnanti arrivati da West Virginia, Oklahoma, Arizona, Illinois e Pennsylvania ha incontrato Steele nella sede del sindacato di Matewan, per ascoltare i suoi racconti e i suoi consigli sull’attivismo politico.

Da queste parti gli insegnanti di oggi si scontrano con gli stessi interessi contro cui si scontravano i minatori un secolo fa. Terry Steele, il marito di Wilma, spiega che nella contea di Mingo circa il 65 per cento dei terreni è ancora di proprietà delle compagnie minerarie. Negli ultimi anni il governo statale ha continuato a tagliare le tasse per le aziende (tra cui quelle sulla proprietà) per attirare nuovi investimenti, e i fondi delle amministrazioni locali per i servizi pubblici si sono ridotti.

Qualche anno fa Steele ha raccolto tutti i reperti storici e i ricordi messi insieme negli anni e ha aperto il Museo delle guerre minerarie. L’edificio è nel centro di Matewan, su una strada lunga un centinaio di metri che fa una curva seguendo l’inclinazione dei binari della ferrovia. Tutti i palazzi del corso hanno un ingresso posteriore che dà sui binari, ricordo del tempo in cui Matewan era lo snodo essenziale di una fitta rete ferroviaria che spostava senza sosta carbone, merci e lavoratori. Oggi ci vivono circa 400 abitanti, in molti sparsi sulla statale stretta e piena di curve che si inerpica intorno alle colline circostanti. A pochi passi dal museo c’è un ristorante messicano, l’unico aperto in città, dove i camerieri accolgono i clienti salutandoli in spagnolo.

Un manifesto elettorale contro Carol Miller, la candidata del Partito repubblicano alla camera. Logan, ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

Steele, che nelle vene ha sangue dei nativi americani, ha legato il suo impegno sindacale alla causa ambientalista. Lei e Terry, che è andato in pensione dopo 26 anni in miniera e soffre di una forma lieve di antracosi, una malattia dei polmoni che colpisce la grande maggioranza dei lavoratori come lui, hanno vissuto in modo diretto le conseguenze della devastazione ambientale causata dall’estrazione mineraria. Qualche anno fa si sono trasferiti in un’altra contea a causa delle alluvioni che hanno messo a rischio la loro casa vicina alle pendici di una montagna.

Secondo loro è colpa del mountaintop removal, una tecnica di estrazione del carbone che consiste nello spianare la cima delle montagne, eliminando centinaia di metri di vegetazione e facilitando le frane in caso di alluvioni. In un posto come questo, dove il carbone è una religione difficile da mettere in discussione, dichiararsi ambientalisti comporta dei rischi, e molti abitanti non fanno niente per nascondere la loro ostilità. “Ci chiamano ambientalisti sfegatati e cocomeri, perché siamo verdi fuori e rossi dentro”, racconta Steele con una grossa risata.

Un candidato fuori dagli schemi
L’energia prodotta dal movimento degli insegnanti ha alimentato la candidatura di Richard Ojeda al congresso per le elezioni di metà mandato del 6 novembre. Ojeda è il nipote di un immigrato messicano, un ufficiale dell’aeronautica pluridecorato per il servizio in Iraq e in Afghanistan, ha fatto l’insegnante, è entrato in politica come paladino dei lavoratori e nel 2016 è stato eletto al senato locale.

La sua storia è difficile da incastrare in qualsiasi categoria politica. È un democratico, ma alla maniera degli Appalachi. Attacca gli interessi economici esterni che hanno fatto del West Virginia una “colonia”, sta con i sindacati, pensa che il governo dovrebbe aiutare i cittadini a ottenere un’assistenza sanitaria e intervenire direttamente per ridurre la povertà, ma crede anche che lo stato debba continuare a puntare sul carbone e ha idee conservatrici su temi come il possesso delle armi, l’aborto e l’ambiente. Due anni fa ha votato per Trump, salvo poi pentirsene, e di recente il presidente l’ha definito “uno completamente fuori di testa”. Fa campagna elettorale in pantaloni militari, magliette che lasciano scoperti i tatuaggi e scarponi da combattimento. Nei suoi spot racconta di aver rischiato la vita in guerra per il suo paese e accusa Carol Miller, la candidata del Partito repubblicano, di non farsi mai vedere in West Virginia e di essere un burattino nelle mani delle case farmaceutiche. Nei giorni dello sciopero, all’inizio dell’anno, è diventato l’eroe degli insegnanti, come un tribuno arringava i manifestanti davanti alla scalinata del parlamento e difendeva la loro causa tra i banchi del senato.

Northfork, nella contea di McDowell, ottobre 2018. (Alessio Marchionna)

La vittoria di Ojeda in un distretto – quello che comprende McDowell – dove Trump nel 2016 ha vinto con 50 punti di margine sarebbe una delle maggiori sorprese nelle elezioni per la camera dei rappresentanti. E diventerebbe un esempio di come la sinistra possa recuperare consenso tra gli elettori bianchi con un basso livello d’istruzione grazie a campagne elettorali radicali.

Ma secondo Kevin Barksdale, docente di storia alla Marshall university di Huntington, difficilmente portare candidati populisti a Washington aiuterà il West Virginia, e gli Appalachi in generale, ad accorciare la distanza con il resto del paese. Per fermare il declino economico e politico serviranno nuove idee e investimenti che sostituiscano un mondo, quello del carbone, destinato a scomparire (oggi in West Virginia ci sono più persone che lavorano nei supermercati Walmart che in miniera) ma che fornisce ancora un appiglio agli abitanti per rivendicare un’identità culturale e conservare un posto nella società americana.

Nel frattempo, le tante realtà in movimento dimostrano che gli abitanti di questo stato, nonostante le difficoltà, hanno qualcosa da insegnare su come affrontare problemi che il resto del paese ha nascosto sotto il tappeto: la crisi dei salari dei dipendenti pubblici, lo spopolamento delle zone rurali, la devastazione causata dall’inquinamento. Hanno qualcosa da insegnare perfino su una crisi, quella degli oppioidi, che sembra ormai il sintomo di un malessere esistenziale che minaccia di distruggere il tessuto sociale della società statunitense.

Bishop Nash, un giornalista di 26 anni che si occupa di sanità e istruzione per l’Herald-Dispatch di Huntington, è orgoglioso del lavoro di prevenzione fatto da attivisti, polizia, politici e società civile, che nell’ultimo anno ha permesso di ridurre del 40 per cento le morti per overdose in quella che solo due anni fa è stata definita la capitale mondiale delle morti per overdose. “È un risultato incredibile. Ci sono attivisti e operatori sanitari che arrivano da altri stati per chiedere consigli su come affrontare l’emergenza. E la cosa più straordinaria”, conclude, “è che la crisi ha unito pezzi della società che prima non avevano mai parlato tra di loro”.

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