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Sei risposte sul voto indipendentista del parlamento catalano

I deputati del Partito popolare e il leader Xavier Garcia Albiol, a Barcellona, il 9 novembre 2015. (Albert Gea, Reuters/Contrasto)

Il 9 novembre il parlamento regionale della Catalogna ha approvato una controversa risoluzione a favore dei primi passi concreti verso il “distacco” dal resto della Spagna e la creazione di uno stato indipendente. La risoluzione è stata approvata per 72 voti contro 63, una proporzione che riflette la nuova maggioranza indipendentista emersa in parlamento dopo le elezioni regionali del 27 settembre.

Il parlamento catalano ha dichiarato l’indipendenza?

No, quella approvata dal parlamento di Barcellona è stata una “solenne risoluzione” che dichiara l’inizio di un processo formale verso l’indipendenza. Una simile soluzione era attesa e fa chiaramente parte del programma elettorale intorno al quale i partiti indipendentisti hanno fatto campagna elettorale prima del voto di settembre.

Ma la risoluzione raggiunta lunedì si è rivelata molto più decisa di quella inizialmente promessa da Artur Mas, il presidente uscente della regione catalana. Essa afferma, per esempio, che le decisioni della corte costituzionale spagnola non sono più valide in Catalogna. Dà inoltre appena trenta giorni al parlamento per approvare delle leggi che creerebbero un’autorità fiscale e un sistema di previdenza fiscale catalani, i primi passi concreti verso la creazione di uno stato all’interno di quello spagnolo.

Perché tanta fretta?

Paradossalmente, lo stesso movimento indipendentista è spinto ad agire in maniera più decisa e rapida proprio a causa di due punti interrogativi che creano incertezza all’interno del fronte indipendentista.

Entrambi hanno a che vedere con i risultati delle elezioni di settembre, durante le quali i due principali partiti indipendentisti, il piccolo Candidatura d’unitat popular (Cup) di estrema sinistra e il più ampio e moderato movimento Junts pel Sí, hanno ottenuto insieme il 47,8 per cento dei voti. Questo è stato sufficiente a garantirgli una maggioranza dei seggi nel parlamento regionale ma è un risultato chiaramente lontano dalla maggioranza di cui avrebbero avuto bisogno in un vero e proprio referendum.

Secondo gli analisti il risultato ha reso il fronte degli indipendentisti più determinato a mostrare che il loro obiettivo è ancora intatto. “Devono far vedere che il processo non si ferma. Per questo hanno spinto il piede sull’acceleratore”, ha dichiarato Oriol Bartomeus, politologo all’Università autonoma di Barcellona.

L’altra incertezza dipende dalla chiara divisione ideologica interna agli indipendentisti. Mas e il suo movimento Junts pel Sí non hanno una maggioranza senza il Cup, un partito di estrema sinistra che si oppone all’ingresso della Catalogna nella Nato e nell’Unione europea.

Secondo molti osservatori la risoluzione del 9 novembre è il prezzo che Mas e altri nazionalisti più moderati devono pagare per mantenere “a bordo” il Cup e garantire l’unità della campagna per l’indipendenza. Ma questo significa anche che la coesione interna del movimento è oggi minacciata. Mas è stato tradizionalmente sostenuto dal mondo imprenditoriale catalano e dagli elettori di classe media della regione. Pare che le principali figure dell’economia, e molti degli ex alleati del presidente tra i nazionalisti moderati, siano inorriditi dalla piega che hanno ultimamente preso le cose. Privatamente alcuni accusano Mas di avere, di fatto, ceduto le redini del movimento indipendentista a un gruppo di estremisti.

Come ha reagito Madrid?

Mariano Rajoy, il primo ministro spagnolo, ha chiarito il 9 novembre che il suo governo chiederà alla corte costituzionale spagnola di annullare la risoluzione. “La Catalogna non si staccherà e non ci sarà una secessione”, ha dichiarato.

Al tribunale occorreranno mesi per emettere una sentenza, e nel frattempo la risoluzione sarà sospesa. Ed è qui che le cose potrebbero complicarsi. Se il parlamento catalano decidesse di agire conformemente alla risoluzione, sfidando la più alta corte spagnola, la risposta di Madrid (politica, finanziaria e legale) potrebbe essere davvero molto dura.

Alcuni ministri hanno già ventilato la possibilità di tagliare il sostegno finanziario alla regione. La corte costituzionale spagnola, intanto, ha il potere d’imporre sanzioni contro i singoli dirigenti che si sottraggono alle sue decisioni. Ma chi farà rispettare tali sanzioni? Le forze di polizia catalane saranno disposte a impedire al presidente del parlamento catalano l’ingresso in aula? Sarà Madrid a ordinare alla polizia nazionale di farlo?

Sembra una cosa piuttosto pericolosa.

Lo è, ed è probabilmente ragionevole affermare che mai, negli ultimi anni, funzionari e osservatori sono stati così preoccupati dalla situazione. La tensione è alta, i nervi sono tesi e il margine di manovra si riduce ogni giorno. Ma vale anche la pena ricordare che entrambi gli schieramenti si sono abbastanza abituati a gestire il conflitto senza giungere a un vero scontro. Negli ultimi tre anni ci sono stati vari momenti di alta tensione, anche a proposito di dichiarazioni e decisioni della corte costituzionale, seguiti però da mesi di relativa calma.

Cosa sperano di ottenere in definitiva i dirigenti catalani?

All’interno del movimento indipendentista appare sempre più chiaro che Madrid non accetterà mai una separazione “concordata”, sul modello del referendum scozzese del 2014. I leader indipendentisti affermano inoltre che, nel perseguire i loro obiettivi, non ricorreranno mai alla violenza.

Non rimane che l’intervento esterno come unica strada possibile per l’indipendenza e la creazione di uno stato catalano. Per ora, niente suggerisce che l’Unione europea o i governi dei singoli paesi vogliano essere coinvolti. Anzi, Angela Merkel e altri leader europei hanno ripetutamente affermato il loro sostegno nei confronti dell’unità spagnola e che tutte le parti in causa devono restare fedeli alla costituzione. Ma è possibile che una crisi modifichi le loro posizioni? È sicuramente quello che sperano alcuni dirigenti catalani oggi determinati ad aumentare la pressione proprio per questo motivo.

Chi potrebbe trarre vantaggio dallo stallo attuale?

In termini politici, è probabile che l’aumento delle tensioni vada a vantaggio, innanzitutto, di Rajoy. Il primo ministro spagnolo dovrà affrontare le elezioni politiche il 20 dicembre e considera lo stallo catalano, insieme alla ripresa economica spagnola, come una delle sue carte vincenti. Spera che la maggioranza degli elettori fuori della Catalogna lo ricompenserà per la sua decisa difesa dell’unità spagnola. A dicembre Rajoy si troverà di fronte dei candidati giovani e perlopiù inesperti, quasi tutti sui trenta o al massimo quarant’anni. Con il deciso aumento della tensione politica, i suoi anni d’esperienza di governo potrebbero, in fin dei conti, essere apprezzati.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul Financial Times. Clicca qui per vedere l’originale.

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