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L’Emilia-Romagna dice no a Salvini ma obbliga il Pd a cambiare davvero 

Matteo Salvini a Ravenna con Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Giovanni Toti, 24 gennaio 2020. (Stefano Cavicchi, LaPresse)

Alla fine Matteo Salvini ha perso. L’Emilia-Romagna ha confermato Stefano Bonaccini alla guida della regione. Ma il leader della Lega ha perso al di là dei numeri, perché la partita che si è giocata era ormai da tempo squisitamente politica e consisteva in un referendum che Salvini aveva proclamato su se stesso. Ebbene, da questo punto di vista il risultato è stato fallimentare.

Quanto alla Calabria, sembra quasi che non si sia andati a votare. L’attenzione è rimasta concentrata sull’Emilia-Romagna proprio a causa della trasformazione di quel voto in questione nazionale, tanto che Salvini, come ha scritto Ida Dominijanni, “ha riservato alla Calabria giusto il tempo di un paio di blitz, trovando ad accoglierlo piazze tutt’altro che oceaniche e contestazioni ovunque”.

Alla fine, come previsto, ha prevalso la berlusconiana Jole Santelli. Di fronte, aveva tre candidati che si erano presentati – è sempre Dominijanni a scrivere – “all’insegna del ‘né né’, né di destra né di sinistra”.

Prove di governo su giustiza e prescrizione
L’esito del voto pone adesso una lunga serie di questioni, a partire da quelle che riguardano il futuro del governo che, dopo un paio di mesi di sordina imposta dalla campagna elettorale, non potrà più nascondersi. C’è poi il capitolo Movimento 5 stelle che pare tutto da scrivere.

Presentatosi con un nuovo capo politico dopo le dimissioni di Luigi Di Maio a pochi giorni dal voto, il movimento esce dalle urne decisamente ridimensionato, di fatto in caduta libera lì dove si è votato. Di prove per misurare la capacità di tenuta del governo e lo stato dei rapporti tra Partito democratico e M5s – e soprattutto il nuovo equilibrio nella maggioranza dettato dal voto – ce ne saranno molte. Si parte subito, già nelle prossime ore, con giustizia e prescrizione.

“È mancata la battaglia ideale e culturale: ed è mancata in Emilia perché è mancata a Roma”, ha detto Macaluso

In una situazione ancora molto fluida, e tenendo ben presente che l’Emilia-Romagna e la Calabria non sono l’Italia e che dunque quel voto, pur avendo assunto una valenza nazionale, resta però un voto locale, pare comunque essersi rafforzata politicamente la posizione del Pd. Tuttavia, se Salvini ha perso, forse il centrosinistra non ha vinto. O almeno non del tutto.

E infatti, non appena il risultato elettorale si è andato consolidando, il leader della Lega ha affermato, con ostentato orgoglio, che in Emilia-Romagna “per la prima volta c’è stata partita”. Certo, in quella affermazione c’era molta propaganda e la necessità di limitare i danni, ma sarebbe un errore ignorare questa osservazione. Infatti, se è vero che il Pd può ambire a occupare il centro della scacchiera, è anche vero che il partito è lì, fermo, privo di agenda e identità politica come oramai da troppi anni.

Non a caso, alla vigilia del voto Emanuele Macaluso aveva detto: “Comunque vada, purtroppo è come se la sinistra avesse già perso”. E aveva spiegato che, pur avendo Bonaccini ben amministrato in Emilia-Romagna, “è mancata completamente la battaglia ideale e culturale: ed è mancata in Emilia perché è mancata a Roma”. È come dire che la chiamata alla resistenza contro Salvini è stata – e rischia di essere ancora a lungo – anche un alibi utile per nascondere le ragioni profonde di ogni difficoltà. Negli ultimi 25 anni è accaduto lo stesso con Silvio Berlusconi.

Un’avanzata che viene da lontano
Insomma, il fatto che la Lega abbia anche solo potuto immaginare di tenere testa al centrosinistra in una regione come l’Emilia-Romagna non è un incidente di percorso né è il prodotto del caso. È invece l’esito prevedibile di un processo che si rinnova da molto tempo nel paese, e che in Emilia-Romagna è evidente da molti anni, da quando la Lega di Bossi cullava il sogno di prendersi la regione per farne il confine meridionale di una macroregione del nord a guida leghista.

Oggi, quel sogno ha assunto il significato che gli ha attribuito Salvini in chiave nazionalista. Tuttavia, in questi anni l’avanzata della Lega è proseguita ugualmente e per molte ragioni. Tra tutte, una l’ha ricordata l’ex sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani: “Abbiamo pensato che governare bene la città, tenere i conti a posto e rilanciare il patrimonio artistico bastasse a rassicurare i cittadini, abbiamo sottovalutato le loro preoccupazioni, mentre invece cresceva lo scontento soprattutto in alcune zone periferiche”. Non è cosa da poco. È proprio su questo terreno che la Lega ha trovato spazio libero da conquistare nella propria discesa sotto il Po.

Così, mentre già una decina di anni fa e forse di più, in molti cominciavano a sentirsi – a torto o a ragione – sempre più insicuri e le vecchie strutture politiche cominciavano a sfaldarsi, la Lega ha preso a radicarsi. Lo ha fatto presentandosi come elemento di cambiamento rispetto ai partiti che in Emilia-Romagna avevano sempre governato, ma anche come garante della conservazione per il genere di interessi che intendeva rappresentare. Soprattutto all’inizio, lo ha fatto senza rinnegare la storia di questa terra ma provando a innestare su di essa una nuova cultura politica.

Così, alle feste della Lega che ormai si organizzavano anche da queste parti, e che erano sorprendentemente simili alle feste dell’Unità, si incontravano facilmente persone che, pur avendo votato a sinistra fino a poco prima, adesso si raccontavano come pionieri in marcia verso la nuova frontiera. Si presidiava il territorio con una quantità di incontri che impegnavano amministratori locali e parlamentari nazionali, mentre a sinistra era il vuoto, e sembrava quasi si avesse paura di sporcarsi il vestito. Soprattutto, mentre a Roma ancora si inseguiva l’immagine un po’ folkloristica del leghista a Pontida con il cappello da vichingo, in Emilia-Romagna, come già altrove nel nord, la Lega era in grado di dialogare con il potere a ogni livello.

Salvini insomma questa volta ha perso ma ha costretto il centrosinistra a una battaglia in casa propria. Lo ha fatto proseguendo un lavoro che affonda le radici nella Lega di Bossi, un lavoro costruito sulla prossimità con il territorio, mentre il centrosinistra da quello stesso territorio si è ritirato. Il partito guidato da Salvini l’ha fatto cavalcando in modo spregiudicato fragilità sociali e paure ingigantite da una propaganda sempre più inquietante e violenta, alla quale il centrosinistra non è riuscito a opporre molto più di una generica e sterile indignazione.

In attesa delle analisi dei numeri definitivi e dei flussi elettorali che dicano, tra l’altro, quanto abbia pesato il crollo dei cinquestelle sul risultato elettorale e quanto la regione sia stata in effetti contenibile, si può intanto affermare che se Salvini ha perso è soprattutto perché ha proclamato un referendum su se stesso, replicando in qualche modo l’errore fatto al Papeete, e non perché il centrosinistra abbia improvvisamente ritrovato un’identità politica.

E senza identità politica o, peggio, costruendo la propria identità contro l’avversario e non sulle idee, non si va lontano, come ci racconta la storia degli ultimi venticinque anni. Ma soprattutto non si può sperare che sia Salvini – dopo il disastro del Papeete e la sconfitta rimediata in Emilia-Romagna – a togliere ancora una volta le castagne dal fuoco al Pd. Insomma, è sul terreno della costruzione di una identità politica solida che Nicola Zingaretti deve giocare adesso la sua partita. D’altra parte, a questo punto non ha alternative.

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