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Mostrare il dolore degli altri?

Uvalde, Texas, 30 maggio 2022. Durante una veglia per le vittime della sparatoria. (Veronica G. Cardenas, Reuters/Contrasto)

L’8 giugno ha compiuto cinquant’anni una delle foto più note mai scattate, quella in cui Kim Phúc, una bambina vietnamita di nove anni, corre nuda verso l’obiettivo di Nick Ut, un fotografo dell’Associated Press, dopo essere stata colpita dal napalm sganciato dai bombardieri statunitensi. La foto di Nick Ut (la cui storia è stata raccontata dallo stesso fotografo in un articolo uscito sul Washington Post) contribuì a ridurre ulteriormente il sostegno dell’opinione pubblica americana alla guerra in Vietnam.

Altre foto hanno avuto effetti ancora più forti. Quella della bara aperta ai funerali di Emmett Till, un bambino nero di 14 anni rapito, torturato e ucciso nel 1955 in Mississippi, scandalizzò il paese e rafforzò il movimento per i diritti civili.

Un breve documentario di Time che racconta la storia della foto di Emmett Till


In questi giorni negli Stati Uniti si è parlato molto di queste e di altre fotografie, e si è riaperto un vecchio dibattito sulla possibilità di usare immagini forti, eventualmente anche violente, per mobilitare l’opinione pubblica su alcune questioni e convincere i politici a prendere provvedimenti. Dopo la strage in una scuola elementare di Uvalde, in Texas, in cui il 24 maggio sono morti 19 bambini, alcuni commentatori hanno sostenuto che i mezzi d’informazione dovrebbero cominciare a mostrare le immagini dei bambini uccisi, in modo che i possessori di armi e i politici repubblicani capiscano le vere conseguenze della diffusione incontrollata delle armi.

Edward Wasserman, docente di giornalismo all’università di Berkeley, ha criticato la discrezione dei giornalisti non solo sulle vittime ma anche sugli assassini: “In entrambi i casi la moderazione rischia di peggiorare le cose. L’anonimizzazione degli assassini, che non sembra aver scoraggiato altri stragisti, porta le persone a concludere che le stragi siano simili ai disastri naturali, cioè eventi inevitabili e imprevedibili che gli esseri umani non possono comprendere né prevenire. Decidendo di non pubblicare le foto del massacro, l’evento viene rappresentato attraverso le immagini dolci e cupe di dolore, di santuari improvvisati costruiti con giocattoli e di genitori che tengono candele e piangono sulle foto dei loro figli, ancora vivi e sorridenti. I mezzi d’informazione parlano di dignità e consolazione. Una comunità è in lutto. I giornalisti ne sono testimoni. Le cose andranno di nuovo bene”.

John Temple, che ai tempi del massacro alla Columbine di Littleton in Colorado, era direttore del Rocky Mountain News, non è d’accordo. Per prima cosa, spiega, esiste un problema concreto di accesso alla scena del crimine. “Per catturare il tipo di immagini che alcuni vorrebbero vedere pubblicate, i fotoreporter dovrebbero avere il permesso di accedere al luogo della strage – un fatto impensabile per molte ragioni, secondo la mia esperienza – oppure arrivare sulla scena di una sparatoria prima della polizia. Questo succede raramente”.

In secondo luogo, la pubblicazione delle immagini dei corpi straziati dei bambini avrebbe effetti controproducenti: “Il massacro alla Columbine sembra aver abbattuto una barriera per altri potenziali stragisti. Temo che la scelta di rendere pubbliche le foto di bambini uccisi motiverebbe altri assassini a vedere quanti danni possono causare, normalizzerebbe una violenza impensabile e sarebbe usata in modo odioso contro le famiglie delle vittime o come minaccia per altri. Piuttosto, bisogna pubblicare fotografie che non portino le persone a distogliere lo sguardo ma che lo catturino”. Inoltre, in un’epoca in cui le teorie del complotto fanno molta presa, è probabile che tante persone metterebbero in dubbio l’autenticità di quelle immagini, come è successo di recente anche con i massacri russi in Ucraina.

Alla fine, spiega Meaghan Looram, direttrice del settore fotografico del New York Times in un articolo pubblicato nel numero 1464 di Internazionale, i giornali devono trovare un equilibrio: “Da un lato ci sono il valore giornalistico di un’immagine e l’utilità per i nostri lettori, dall’altro dobbiamo chiederci se la foto leda la dignità della vittima o possa portare ulteriori sofferenze alla famiglia o ai cari della persona ritratta”. Queste valutazioni nella maggior parte dei casi portano giornalisti e photoeditor a non pubblicare eventuali immagini violente.

Questo articolo è tratto dalla newsletter settimanale di Internazionale che racconta cosa succede negli Stati Uniti. Ci si iscrive qui.

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