Dopo la morte di suo figlio Noah, ucciso a sei anni il 14 dicembre 2012 alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown, in Connecticut, Lenny Pozner aveva pensato di mostrare al mondo il danno inferto al corpo del bambino da un fucile semiautomatico Ar-15. Il suo primo pensiero era stato: “Potrebbe smuovere le coscienze e far cambiare idea a qualcuno”. Ma subito aveva cambiato idea: “No, mio figlio no”.

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Nelle ultime settimane il lutto e la rabbia per due orribili massacri in Texas e nello stato di New York, arrivati a distanza di appena dieci giorni l’uno dall’altro, ha ravvivato un vecchio dibattito: la diffusione d’immagini cruente per mostrare gli effetti della violenza delle armi da fuoco potrebbe finalmente spingere i politici del paese ad agire?

Dal movimento abolizionista fino a Black lives matter, dall’olocausto alla guerra in Vietnam e all’invasione dell’Ucraina, le fotografie e i filmati hanno mostrato più volte all’opinione pubblica le conseguenze fisiche del razzismo, dell’autoritarismo e di una politica estera disastrosa. Le immagini sono capaci di suscitare una protesta collettiva e a volte possono portare a un cambiamento reale. Eppure il potenziale uso delle fotografie per sconfiggere l’inerzia delle autorità dopo le stragi deve tenere conto dei risvolti dolorosi per le famiglie delle vittime, che spesso respingono con forza questa idea.

“È vero che le foto sconvolgenti possono lasciare il segno”, spiega Bruce Sha­piro, direttore esecutivo del Dart center for journalism and trauma della Columbia university, citando il famoso scatto di Nick Út che ritrae una bambina vietnamita nuda in fuga da un attacco al napalm, nel 1972. “Il dubbio etico nasce dal fatto che un photo editor non sa mai quale fotografia potrebbe sembrare eccessiva e quale invece potrebbe toccare le coscienze delle persone e spostare l’ago della bilancia del dibattito”.

Illustrare l’orrore

I mezzi d’informazione più importanti spesso mostrano immagini inquietanti di persone morte per illustrare l’orrore di un evento, come la foto scattata da Lynsey Addario di una madre, due bambini e un’amico di famiglia uccisi a marzo a Irpin, in Ucraina, o quella del bambino siriano-curdo di tre anni il cui corpo era stato trascinato a riva dalle onde nel 2015, in Turchia.

Ma raramente si sceglie di eccedere nel mostrare l’orrore. “Cerchiamo sempre di trovare un equilibrio: da un lato ci sono il valore giornalistico di un’immagine e l’utilità per i nostri lettori, dall’altro dobbiamo chiederci se la foto leda la dignità della vittima o possa portare ulteriori sofferenze alla famiglia o ai cari della persona ritratta”, spiega Meaghan Looram, direttrice del settore fotografico del New York Times. “Siamo disposti a pubblicare le immagini che possano aiutare le persone a capire cosa è successo, ma non scegliamo mai una foto come forma di provocazione”.

Irpin, Ucraina, 6 marzo 2022 (Lynsey Addario, Getty Images)

Nel caso della sparatoria del 25 maggio nella scuola di Uvalde, in Texas, ai fotoreporter non è stato consentito di entrare nell’edificio, mentre le forze dell’ordine non hanno reso pubblica alcuna immagine della scena del crimine. I fotografi della stampa hanno potuto immortalare solo ciò che era visibile dall’esterno della struttura (Pete Luna, dell’Uvalde Leader News, ha scattato alcune fotografie mentre i bambini fuggivano correndo dopo essere riusciti a uscire dalle finestre). I mezzi d’informazione non hanno avuto accesso alle immagini delle autorità, dunque in questo caso il dibattito sulla necessità di pubblicare fotografie cruente non esiste.

Noah Pozner è stato una delle prime vittime a essere seppellite dopo il massacro nella scuola Sandy Hook, costato la vita a venti alunni di prima elementare e a due insegnanti. Noah si era nascosto insieme ad altri 15 compagni nel bagno, uno spazio di un metro per un metro e mezzo in cui l’attentatore ha sparato più di ottanta proiettili da un fucile semiautomatico, uccidendo tutti i bambini tranne uno.

I proiettili hanno squarciato la schiena, il braccio, la mano e il volto di Noah, distruggendo gran parte della sua mandibola. Il signor Ponzer e la madre di Noah, Veronique De La Rosa, prima del servizio funebre hanno allestito una camera ardente con la bara aperta, a cui è intervenuto anche Dannel Malloy, all’epoca governatore del Connecticut. Quando Malloy è arrivato, De La Rosa lo ha preso per mano e lo ha portato a vedere il cadavere di suo figlio, steso in una bara di mogano piazzata all’interno di una stanza sul retro di un’agenzia di pompe funebri di Fairfield, Connecticut. “Ho pensato ‘sicuramente sto per svenire. Lei mi farà vedere le ferite aperte e io non reggerò’”, ha raccontato Malloy in un’intervista per il mio libro, Sandy Hook. An american tragedy and the battle for truth. Il volto di Noah era coperto da un tessuto bianco, dunque Malloy non ha visto le ferite aperte. “Non volevo arrivare a tanto”, racconta De La Rosa. “Ma il governatore ha dovuto comunque guardare un bambino morto”, aggiunge. “Un bambino che il giorno prima stava scorrazzando come una piccola locomotiva, pieno di vita”.

Dopo Sandy Hook il governo del Connecticut ha approvato una serie di misure di sicurezza sulle armi da fuoco tra le più restrittive del paese. Ma nello stesso periodo un’altra iniziativa ha avuto un esito diverso: il documentarista Michael Moore aveva proposto che i parenti delle vittime di Sandy Hook pubblicassero le foto del massacro per stimolare l’azione politica, ma i familiari avevano frainteso la sua idea pensando che Moore – autore, produttore e regista del documentario del 2002 Bowling a Columbine sul massacro in un liceo del Colorado – volesse pubblicare le foto dei loro bambini ottenendole attraverso un registro pubblico.

Un dibattito antico

Per questo motivo avevano spinto il governo del Connecticut ad approvare una legge per vietare l’accesso al materiale relativo alle vittime. Oggi le foto del massacro di Sandy Hook sono accessibili solo alle famiglie. “Se le famiglie dicono ‘vogliamo mostrare le immagini’ credo che bisognerebbe dargli ascolto”, spiega Emily Bernard, scrittrice e professore di letteratura inglese all’università del Vermont. “Ma le persone che hanno accesso a quelle fotografie e vorrebbero diffonderle dovrebbero chiedersi quale potrebbe essere il beneficio. Servirebbe a spiegare e trovare una soluzione? O è solo qualcosa di orribile?”.

Peshawar, Pakistan, 17 dicembre 2014 (Fayaz Aziz, Reuters/Contrasto)

In un seminario del 2020 organizzato dal Dart center for journalism and trauma e intitolato “Picturing black deaths”, Bernard ha parlato di una fotografia dell’epoca della guerra civile che mostrava un ex schiavo (chiamato Gordon in alcuni documenti e Peter in altri). Diffusa dagli abolizionisti, l’immagine dell’uomo a petto nudo, con la schiena segnata dalle frustate, “è stata essenziale per lo sviluppo della campagna contro la schiavitù”.

Nel 1955 Mamie Till-Mobley invitò un fotografo della rivista Jet, David Jackson, a fotografare il corpo martoriato del figlio Emmett, 14 anni, picchiato, ucciso a colpi di fucile e poi gettato nel fiume Tallahatchie, in Mississippi, da due uomini bianchi poi assolti. Le immagini e la bara aperta di Emmet Till durante i funerali a Chicago contribuirono a innescare il movimento per i diritti civili.

Nel 2020 il video girato con il cellulare che mostrava un agente della polizia di Minneapolis in ginocchio sul collo di George Floyd, girato dall’adolescente Darnella Frazier, ha prodotto un rabbioso movimento di protesta con manifestazioni tra le più imponenti nella storia degli Stati Uniti. Ma quel filmato ha aperto anche un dibattito molto teso sull’ubiquità delle immagini di violenza contro i neri, mentre la diffusione di quelle delle vittime bianche resta relativamente scarsa.

“Questi video e queste fotografie sono politicamente utili per fare in modo che la gente scenda in strada e per chiarire cosa è successo. Tuttavia non sono sicuro che sia etico o giusto mostrare le immagini in questo modo”, ha dichiarato Jelani Cobb, giornalista del New Yorker e prossimo rettore della scuola di giornalismo della Columbia university.

“Quando si verificano crimini orribili non vediamo gli statunitensi bianchi mostrati nello stesso modo. Al massimo qualche bianco all’estero”, ha aggiunto Cobb. Un’eccezione è la foto di Charles Porter IV, vincitrice del premio Pulitzer, che ritrae un pompiere, Chris Fields, mentre tiene in braccio un bambino morto negli attentati di Oklahoma City del 1995.

Sulla scena del crimine

Alcuni giornalisti, accademici e sopravvissuti hanno proposto di pubblicare le foto dei luoghi della violenza anziché mostrare le vittime, un approccio potenzialmente incisivo ma meno invasivo. Nel 2014, dopo l’attacco da parte dei taliban contro una scuola di Peshawar, in Pakistan, costato la vita a 134 bambini, le agenzie di stampa hanno diffuso le immagini delle aule insanguinate.

“Posso immaginare che delle fotografie scattate senza disumanizzare le vittime possano essere comunque utili per raccontare la storia dell’Ar-15, una storia che non è ancora stata vista o raccontata per intero”, spiega Nina Berman, fotografa, regista e professoressa di giornalismo alla Columbia. “Le finestre con i vetri infranti, i banchi fatti a pezzi, la distruzione causata da quest’arma progettata per annientare gli esseri umani. È il centro del dibattito politico attuale. Perché ci armiamo con gli Ar-15? Perché i legislatori pensano che questo sia tutelato dalla costituzione?”. Ma i giornalisti statunitensi “non possono nemmeno provare a scattare fotografie di questo tipo”, spiega Berman. Le scene del crimine sono transennate per impedire l’accesso ai fotografi, a volte anche per anni dopo la conclusione delle indagini. Di conseguenza le immagini più vivide sono quelle scattate all’esterno, come in occasione degli attentati del 2013 durante la maratona di Boston o della sparatoria di Las Vegas nel 2017.

“La nostra cultura è totalmente immersa nella violenza, eppure dedichiamo moltissimo tempo a impedire a chiunque di vederla, questa violenza”, spiega Berman. “E non sono sicura che sia solo la volontà di non urtare la sensibilità”.

Dopo la morte di suo figlio, il signor Pozner ha dedicato la vita a combattere le teorie del complotto secondo cui il massacro di Sandy Hook sarebbe stato inventato dal governo per promuovere leggi sul controllo delle armi. Ancora oggi non crede che pubblicare la foto di Noah avrebbe cambiato le cose. “Tutto sarebbe stato semplicemente amplificato. I complottisti avrebbero avuto altre cose da negare, i moralisti avrebbero avuto altre cose da puntualizzare. E le persone traumatizzate dai massacri sarebbero state ancora più traumatizzate”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati