×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Gli attacchi palestinesi contro gli israeliani sono un’eccezione

Gerusalemme, 1 aprile 2022. Palestinesi pregano davanti alla moschea di Al Aqsa. (Hazem Bader, Afp)

Gli attentati kamikaze commessi in meno di due settimane da quattro palestinesi – sia in Israele sia nei Territori occupati – evidenziano l’assenza di un organismo politico dirigente palestinese che impieghi una strategia sola, chiara e unificante. Gli attacchi riflettono anche le divisioni interne e la dolorosa consapevolezza della debolezza e dell’incapacità palestinese di agire di fronte alla potenza d’Israele. D’altra parte, il fatto che siano così in pochi a scegliere questa strada, nonostante sia accessibile, indica la comprensione politica che attacchi del genere non servono alla causa palestinese.

La maggioranza esprime il suo dissenso nei fatti: sa che gli attacchi di singoli individui spinti dalla disperazione o dalla vendetta non sono mai serviti, non servono e non serviranno a ottenere niente. Non cambieranno l’equilibrio di potere. L’opinione pubblica palestinese in Cisgiordania lo capisce senza bisogno d’indicazioni dall’alto o di un discorso pubblico esplicito sul tema, mentre le sue organizzazioni politiche, principalmente l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e l’Autorità palestinese, sono ai minimi storici in termini di potere e fiducia pubblica e sono in conflitto e in competizione reciproca.

Ogni palestinese – da entrambe le parti della Linea verde che separa Israele e i Territori – ha molti motivi per desiderare che gli israeliani provino dolore perché sono tutti, e non solo il loro governo, a essere responsabili della drammatica situazione dei palestinesi. È probabile che questo fosse il desiderio dei quattro assassini suicidi, indipendentemente dal loro passato, dalle loro situazioni familiari e dai caratteri individuali. Gli israeliani possono subito sapere – dato che c’è un intero apparato incaricato di diffondere queste informazioni – chi fossero gli aggressori, chi era stato già arrestato, dopo quale attacco e con quali famiglie i palestinesi hanno festeggiato distribuendo caramelle (con totale mancanza di rispetto per il dolore dei parenti). Ma gli israeliani nel complesso non sono interessati a conoscere la misura in cui Israele, e loro stessi come cittadini, costantemente e per molti decenni hanno arrecato danno ai palestinesi, come persone e come popolo.

Una strada diversa
Questo divario enorme tra conoscenza specifica e deliberata ignoranza è sufficiente a spiegare perché l’opinione pubblica in Cisgiordania e a Gaza sia indifferente ai recenti attacchi – che siano stati commessi da cittadini israeliani o da abitanti della Cisgiordania – e non obbedisca alle richieste israeliane di condannare gli omicidi. Va comunque sottolineato che – oltre al fatto che gli attentatori sono sfuggiti all’attenzione dello Shin bet (il servizio di sicurezza interna israeliano) – la maggioranza dei palestinesi, pur comprendendo le motivazioni degli aggressori, non sceglie di seguire questa strada.

Migliaia di palestinesi senza un permesso di lavoro entrano ogni giorno in Israele attraverso le numerose brecce nella barriera di separazione. Succede da anni, e polizia ed esercito ne sono al corrente. Come tutti sanno, tra i palestinesi in Israele e in Cisgiordania c’è abbondanza di armi e munizioni. Quindi si sarebbero potuti verificare molti più attacchi individuali che non sarebbero potuti essere sventati in anticipo, compiuti sia da palestinesi israeliani sia da abitanti della Cisgiordania. Anche se spuntassero degli imitatori nelle prossime settimane, per i palestinesi il numero di queste aggressioni impallidisce in confronto alla portata e alla sistematicità dell’ingiustizia che Israele gli infligge.

La patina di normalità israeliana magari si è incrinata per qualche giorno, trovando espressione sotto forma d’isteria e paura

Tutti i palestinesi hanno buoni motivi per desiderare d’incrinare la falsa normalità dei cittadini israeliani, che per lo più ignorano il fatto che il loro stato agisce instancabilmente, giorno e notte, per spogliare un numero sempre maggiore di palestinesi delle loro terre e dei loro storici diritti collettivi in quanto popolo e società. Per raggiungere quest’obiettivo Israele porta avanti un regime di oppressione. Di questo fanno parte la violenza burocratica, tra cui il divieto di costruzione, accrescimento e movimento che discrimina i palestinesi a favore degli ebrei nel Negev, in Galilea e in Cisgiordania; la violenza disciplinare attraverso la sorveglianza, le incursioni e gli arresti notturni; e la violenza fisica, che include le torture durante gli interrogatori e la detenzione, le aggressioni costanti da parte dei coloni, il ferimento e la morte per mano di soldati e poliziotti ma anche di civili israeliani. Il fatto che gli esecutori siano lo stato, le sue istituzioni e i suoi cittadini non rende questa violenza accettabile, legittima o giustificata agli occhi dei palestinesi, che costituiscono la metà della popolazione tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo.

Al contrario. La natura meticolosamente pianificata di questa violenza e l’incalcolabile numero di israeliani che vi prendono parte dà ai palestinesi un senso diverso delle proporzioni quando sono i loro connazionali a realizzare azioni violente. Quella che gli ebrei israeliani considerano una “ondata di terrore” per i palestinesi è un’eccezione, fatta di pochi giovani che si sono stancati dell’impotenza generale, inclusa la propria, e che scelgono di uccidere e morire. Molti altri giovani uomini sviluppano dipendenze da antidolorifici e da altre droghe per gli stessi motivi, oppure inseguono i propri sogni ed emigrano.

Equilibrio di potere disuguale
Nelle conversazioni private i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza si rammaricano per la morte di civili. Pare che gli attacchi con i coltelli e l’uccisione di donne e persone anziane, come è successo a Beer Sheva, siano più sconcertanti degli spari contro i passanti, tra cui poliziotti e soldati in uniforme. Alcuni sottolineano il fatto che gli aggressori nella città di Hadera il 27 marzo avrebbero sparato solo agli agenti della polizia di frontiera, evitando deliberatamente – secondo testimoni israeliani – di sparare a donne e bambini. In una notizia di stampa in arabo questa distinzione tra persone in uniforme e civili è attribuita – per errore o di proposito, chi può dirlo – all’attentatore di Bnei Brak, anche se questo ha sparato indiscriminatamente contro i civili.

Per vari motivi, il cordoglio e le riserve personali non si traducono in una condanna pubblica (tranne che da parte del presidente Abu Mazen, talmente impopolare che la sua opinione non conta). Primo, perché gli attacchi di “lupi solitari” non rappresentano la gente comune, che non ne è responsabile, ma anche perché l’uso delle armi possiede un’aura di santità e legittimità storica di cui è difficile liberarsi. Secondo, deriva da una compassione istintiva per un palestinese che ha deciso di farsi uccidere. Terzo, non c’è alcuna condanna pubblica da parte di Israele dopo gli atti di violenza commessi dallo stato o da attori istituzionali o privati contro i palestinesi. Una condanna palestinese apparirebbe come un comportamento quasi collaborazionista nei confronti di forze così impari.

La patina di normalità israeliana magari si è incrinata per qualche giorno, trovando espressione sotto forma d’isteria e paura, alimentate dai mezzi d’informazione israeliani e da Hamas, dalla Jihad islamica ed Hezbollah, che esaltano gli attacchi per le loro utilitaristiche ragioni politiche. Motivate dal desiderio di non offendere le famiglie degli aggressori morti, anche le persone che sono consapevoli dell’inutilità e dell’inefficacia di questi atti di disperazione e vendetta non lo dichiarano pubblicamente.

Gli attacchi da parte dei coloni e dell’esercito e l’istigazione della destra contro tutti gli arabi, commessi subito dopo gli attacchi dei lupi solitari, quelli sì, hanno attirato l’attenzione della gente.

Nonostante il tradizionale sostegno emotivo per la resistenza armata, la maggioranza sa che per il momento, anche se questa lotta riprendesse (e non solo da parte di singoli) e anche se fosse pianificata meglio rispetto al suo precedente nella seconda intifada, non potrebbe sconfiggere Israele né migliorare la sorte dei palestinesi. Così come la diplomazia, la campagna internazionale di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele e le sanguinose manifestazioni di Beita e Kafr Qaddum non sono riuscite e non riescono ad arrestare l’appropriazione costante e quotidiana dello spazio e l’espulsione dei palestinesi, respinti in enclave sovraffollate che possono essere isolate in qualunque momento da una manciata di soldati.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.

Internazionale ha una newsletter che racconta cosa succede in Medio Oriente. Ci si iscrive qui.

pubblicità