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Il Regno Unito ha votato per uscire dall’Europa

Nel referendum di giovedì 23 giugno, il 51,9 per cento dei britannici ha detto di voler lasciare l’Unione europea, contro il 48,1 per cento che preferirebbe restare. Il premier David Cameron ha annunciato le sue dimissioni entro ottobre.

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Il fallimento di David Cameron apre la strada al populismo in Europa

Sostenitori della Brexit in una strada di Londra, il 24 giugno 2016. (Matt Dunham, Ap/Ansa)

L’annuncio della Bbc è arrivato alle 4.41. Il margine da recuperare per remain era incolmabile. “We’re calling it. We’re out”. Un paio d’ore dopo le prime informazioni rassicuranti arrivate dai dati sulle intenzioni di voto, raccolti prima dell’apertura dei seggi, si è cominciato a capire che anche questa volta, come alle elezioni politiche del 2015, i sondaggi non erano riusciti a cogliere quello che stava succedendo nel profondo del paese.

Poi è arrivata la certezza: i britannici – anche se forse sarebbe più corretto dire gli inglesi – hanno preso la decisione che tutti in Europa temevano, ma che in fondo sembrava inverosimile. Il Regno Unito è fuori dell’Unione europea.

A caldo è difficile cercare di prevedere cosa succederà nelle prossime ore, nei giorni a venire e nel medio periodo. Ma alcuni elementi di riflessione sono già presenti. Innanzitutto, la scommessa del primo ministro David Cameron non ha pagato e ora l’ha obbligato ad annunciare le dimissioni. La concessione del referendum doveva servire essenzialmente a ricompattare i conservatori, a neutralizzare la minaccia rappresentata dai populisti dell’Ukip e a garantire al primo ministro altri quattro anni di governo in totale serenità.

È stata invece una mossa del tutto improvvida, presa sull’onda lunga di una vittoria elettorale ampia e forse inattesa. E si è rivelata disastrosa sotto il profilo strategico: una volta fatto uscire dalla lampada, il genietto maligno del nazionalismo inglese non ci è più voluto rientrare. E settimana dopo settimana Cameron stesso ha capito che la situazione gli stava sfuggendo di mano.

L’accordo negoziato a febbraio con l’Unione europea, che sarebbe dovuto entrare in vigore se i britannici avessero votato per il remain, non è bastato ad accontentare il fronte euroscettico. Al contrario, ha alimentato le accuse a Cameron di aver ottenuto solo insignificanti concessioni di facciata, da usare per ingannare i cittadini britannici e convincerli a rimanere in Europa.

La Brexit è il portato di anni di euroscetticismo cavalcato ad arte dalla stampa popolare

C’è da dire, tuttavia, che il risultato del voto non è figlio solo di questi quattro mesi di campagna referendaria, per quanto becera e poco britannica, nei toni, nelle accuse e nel tentativo di delegittimazione dell’avversario, prima che delle sue idee. La Brexit è il portato di anni di euroscetticismo cavalcato ad arte dalla stampa popolare, con le sue vecchie bufale sull’euroburocrazia, l’allarmismo sulla libertà di movimento, e l’ossessiva insistenza sull’insularità e l’unicità britanniche. Un martellamento che ha plasmato l’idea di Europa di una buona fetta della popolazione britannica, specialmente fuori dalle grandi città.

Anche se appena prima del voto un’ottantina di deputati tory euroscettici avevano firmato una lettera per chiedere a Cameron di rimanere al suo posto anche in caso di vittoria della Brexit, il primo ministro ha annunciato le dimissioni e ora si parla perfino di elezioni anticipate. È evidente che il leader della campagna per il leave, Boris Johnson, compagno di partito di Cameron, cercherà di capitalizzare il trionfo ottenuto.

Un paese spaccato in due
A questo punto non è chiaro se Londra invocherà subito l’ormai celebre articolo 50 del trattato di Lisbona, quello che regola il recesso volontario e unilaterale di un paese dall’Unione, o se cercherà di prendere tempo e studiare un’altra strategia negoziale. Il dato sicuro è che ci vorrà tempo per concludere la transizione, almeno due anni se non di più.

Un’altra certezza è che il paese è letteralmente spaccato. Londra, la Scozia, le grandi città (Liverpool e Manchester), diversi centri del sudovest e l’Irlanda del Nord hanno votato compattamente per rimanere in Europa, mentre l’Inghilterra provinciale ha scelto la Brexit con una partecipazione maggiore del previsto.

Le conseguenze di una simile mappa elettorale sono evidenti: Londra, che è già un universo a sé, in qualche modo accentuerà ulteriormente la sua unicità rispetto al resto del paese, a Belfast la convivenza politica tra unionisti e cattolici si complicherà non poco, e la Scozia chiederà un altro referendum sull’indipendenza. La maldestra manovra di Cameron questa volta potrebbe davvero portare alla spaccatura del Regno Unito. Esattamente lo scenario che il premier si era illuso di aver scongiurato dopo il referendum scozzese del 2014.

L’Ue ha scoperto una verità dagli esiti potenzialmente catastrofici: il progetto europeo non è irreversibile

Le conseguenze più gravi, tuttavia, la Brexit potrebbe averle da questo lato della Manica. Con l’illusione di “un’unione sempre più stretta” ormai svanita e con la proverbiale capacità di compromesso erosa dai recenti contrasti sull’accoglienza dei rifugiati, gli europei si ritrovano con un’Unione che ha scoperto una verità dagli esiti potenzialmente catastrofici: il progetto europeo non è irreversibile.

Dall’Unione si può uscire, magari in seguito a un voto arrivato dopo una campagna referendaria piena di forzature e falsità. L’intera impalcatura dell’Ue rischia così di vacillare. Basterà che qualche altro paese con un’opinione pubblica fortemente euroscettica chieda di indire una consultazione popolare sulla falsariga di quella britannica per far saltare degli equilibri che non sono più solidi come vent’anni fa. L’ipotesi non è inverosimile: le reazioni di giubilo al risultato del voto britannico arrivate dai leader populisti del continente, da Geert Wilders a Marine Le Pen, erano prevedibili, ma non sono certo rassicuranti.

Ricucire il tessuto sociale
Troppo facile dire che ci vorrà uno scatto d’orgoglio, che serve un cambiamento. È da tempo che lo sentiamo ripetere, senza risultati. Se poi pensiamo che questo cambiamento possa esaurirsi in qualche aggiustamento di facciata e in un po’ di retorica europeista somministrata dagli stessi leader che non hanno capito quanto fosse profonda la crisi in corso e che non sono stati in grado di mostrare quel minimo di coraggio necessario, per esempio, per affrontare la questione dei migranti, allora siamo completamente fuori strada.

La crisi dell’Europa è lo specchio della crisi di fiducia nelle istituzioni e nella democrazia rappresentativa che sta corrodendo l’intera Europa, a partire dai singoli stati nazionali. È arrivato il momento di ricucire un tessuto sociale che negli ultimi anni si è drammaticamente lacerato; parlare di povertà, esclusione sociale, redditi; ricostruire passo dopo passo il rapporto tra cittadini e i loro rappresentanti; restituire credibilità alle istituzioni della democrazia liberale. È l’unico modo per salvare non solo il progetto europeo, ma anche la democrazia nei singoli paesi, e per proteggerla dalle tossine dei populismi e della xenofobia.

L’unico accorgimento è che questa sfida bisognerà combatterla ricordando sempre che l’orizzonte in cui si agisce non può essere quello nazionale, ma deve essere un orizzonte europeo.

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