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La piazza di chi prende la parola contro il razzismo

La manifestazione per l’omicidio di George Floyd a Roma, 7 giugno 2020. (Alessandra Benedetti, Corbis/Getty Images)

Non può respirare George Floyd. E lo dice, prima di essere ucciso da un agente che gli tiene il ginocchio sul collo. “Non riesco a respirare”. Non è la prima volta che negli Stati Uniti un afroamericano muore di soffocamento mentre è nelle mani di un poliziotto. Non è la prima volta che sentiamo quella frase. Era già successo nel caso di Eric Garner, un altro afroamericano ucciso dalla polizia a New York nel 2014. Questa volta, però, quelle parole suonano ancora più drammatiche.

Un po’ perché l’omicidio è stato ripreso dai telefoni dei passanti e tutti hanno potuto ascoltare le ultime parole di Floyd senza mediazioni. Un po’ perché negli ultimi mesi quelle stesse parole sono state dette in circostanze completamente differenti da migliaia di persone malate di covid-19 nei reparti di terapia intensiva e nelle corsie degli ospedali di mezzo mondo. Anche George Floyd, tra l’altro, è risultato positivo al coronavirus, pur essendo asintomatico. Ma non è morto per il virus, che solo negli Stati Uniti ha ucciso centomila persone. Così il razzismo e la pandemia convivono in quella frase che da due settimane, negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo, il movimento antirazzista ha ripetuto come uno slogan in decine di cortei. “La pandemia è il razzismo”, era scritto in un cartello scritto a mano, tra molti, portato alla manifestazione di Roma, il 7 giugno, per sostenere il movimento di protesta statunitense esploso dopo l’uccisione di Floyd.

Pandemia e disuguaglianze sono i due assi intorno a cui ruota la fase che stiamo vivendo, che per molti paesi dovrebbe essere già una fase di riapertura: l’epidemia di coronavirus ha acuito le disuguaglianze, ha reso ancora più manifesti e insopportabili gli squilibri che esistono nelle società e che affondano nella linea del colore, ma anche in quella del genere e della classe. Così il grido di George Floyd è diventato il grido di molti che escono di casa negli Stati Uniti in piena pandemia per dire: “Non riesco a respirare”. Non riesco più a sopportare. Nonostante il timore del virus. Il 6 giugno a Washington diecimila persone hanno sfilato sotto la statua di Abraham Lincoln. “Black lives matter”, hanno scritto in giallo e a caratteri cubitali sulla strada che porta alla Casa Bianca.

Le piazze italiane sono state molto eterogenee e molto spontanee, ma popolate soprattutto da ragazzi, tra cui molti studenti

A Minneapolis, la città in cui è stato ucciso George Floyd, dopo le proteste l’amministrazione sta progettando di riformare la polizia locale, ma si discute anche di tagliare i fondi alle forze dell’ordine e di una riforma più strutturale del sistema di sicurezza. Tanto che lo scrittore afroamericano Ta-Nehisi Coates ha commentato le proteste dicendo: “Non avrei mai creduto di dirlo, ma vedo speranza, vedo una forma di progresso”. Ricorda le parole che nel 2017 aveva pronunciato Angela Davis di fronte al movimento Black lives matter: “Trovo emozionante in questo momento storico il fatto che le nuove generazioni sappiano trovare un legame tra le diverse forme di violenza, quella di razza, quella di genere e quella di classe”.

Intanto il 7 giugno anche in Europa migliaia di persone si sono unite alle manifestazioni statunitensi: a Bristol , nel Regno Unito, i manifestanti hanno abbattuto la statua di un mercante di schiavi, Edward Colston, e l’hanno gettata nel fiume. Da diversi anni gli attivisti chiedevano alle autorità di rimuovere il monumento, considerato il simbolo degli orrori dello schiavismo. Si stima che Colston abbia deportato circa 80mila persone tra il 1672 e il 1689, trasportandole in America dall’Africa occidentale. Più di diecimila sarebbero morte durante il viaggio. Qualche giorno fa una petizione per la rimozione della statua aveva ottenuto migliaia di firme. A Bruxelles sono scese in piazza ventimila persone, alcuni sono saliti sulla statua del re Leopoldo II, cantando “assassino” e sventolando la bandiera della Repubblica Democratica del Congo, paese colonizzato dal Belgio.

In Italia, nelle scorse settimane, il dibattito si è concentrato molto sull’uso della violenza da parte dei manifestanti negli Stati Uniti. Ma nel fine settimana del 6 e 7 giugno in diverse città italiane, da Roma a Torino, le piazze si sono riempite di manifestanti, non senza suscitare una certa sorpresa negli stessi organizzatori. L’Italia infatti è stato uno dei paesi più colpiti dal coronavirus in Europa e i timori per la diffusione dell’epidemia sono ancora molto presenti nella maggior parte della popolazione, anche se dal 3 giugno sono stati sospesi quasi tutti i divieti introdotti a marzo per il lockdown. A Roma, in piazza del Popolo, in una domenica mattina carica di afa, più di tremila persone si sono inginocchiate a terra dalle 12.03 alle 12.11: otto minuti e 46 secondi, lo stesso tempo in cui George Floyd è rimasto con il collo sotto al ginocchio dell’agente che lo ha ucciso. Hanno scandito le stesse parole con il pugno alzato: “Non riesco a respirare”. E poi si sono alzati gridando: “George Floyd è qui, basta razzismo”.

La manifestazione per l’omicidio di George Floyd a Roma, 7 giugno 2020.

Gli organizzatori ripetevano al microfono di tanto in tanto di mantenere le distanze di sicurezza e d’indossare le mascherine. Delle x segnate per terra servivano a indicare la distanza da tenere, ma essere immersi nella folla stando attenti a non toccarsi è stato molto complicato per chi ha partecipato alla manifestazione, convocata da piccole associazioni, senza il coinvolgimento di organizzazioni più grandi e istituzionali. E in cui per la prima volta a parlare dal microfono allestito sotto alla terrazza del Pincio erano quasi esclusivamente italiani afrodiscendenti, tra cui pochissimi volti noti come quello del sindacalista Aboubakar Soumahoro e dell’ex parlamentare Jean-Léonard Touadi. In molti hanno ricordato George Floyd, la violenza e il razzismo sistemico negli Stati Uniti, ma hanno anche parlato in forma più personale delle forme del razzismo e dell’oppressione razziale in Italia, delle loro paure e di come sono percepiti i loro corpi.

Le piazze italiane sono state molto eterogenee e molto spontanee, ma popolate soprattutto da ragazzi, tra cui molti studenti delle superiori e universitari. Alcuni hanno criticato le manifestazioni, dicendo che era più facile scendere in piazza per protestare contro la violenza in un altro paese che battersi per altri tipi di violenza e discriminazione nel proprio. Ma gli attivisti con i loro racconti, spesso in prima persona, non hanno mancato di ricordare gli attacchi ai neri in Italia da parte di gruppi di neofascisti, come la tentata strage di Macerata nel 2018 e quella di Firenze nel 2011. Ma anche il razzismo più istituzionale, che passa da leggi antiquate come quella sulla cittadinanza – che ostacola il riconoscimento di alcuni diritti per i figli di stranieri nati e cresciuti in Italia – o le leggi sull’immigrazione (dalla Bossi-Fini al decreto sicurezza) che costringono all’illegalità molti lavoratori di origine straniera.

Voci nuove
Diversi cartelli ricordavano i nomi delle vittime degli attentati razzisti in Italia, da Idy Diene ucciso da un colpo di fucile a Firenze nel 2018, fino a Giacomo Valent, uno studente di 16 anni ucciso nel 1985 con 63 coltellate da due compagni di classe di estrema destra. In effetti, le due grandi questioni con cui il movimento antirazzista italiano si deve confrontare ogni volta che si autoconvoca sono due fallimenti: da una parte la tentata strage di Macerata nel 2018 e la condanna tiepida di quell’attentato da parte delle istituzioni, e dall’altra il fallimento della legge di riforma della cittadinanza, proposta dal Partito democratico nel 2013 e affossata dallo stesso partito alla fine del 2017. La questione della cittadinanza ritorna nei discorsi di molti di quelli che prendono la parola in piazza. In parte fanno capo al movimento ambientalista FridaysforFuture, ma nella maggior parte dei casi non fanno parte di nessuna organizzazione.

Betti Di Giovanni e la sua amica Giorgia, entrambi liceali di 17 anni, sono venute insieme e si tengono per mano, hanno saputo della manifestazione su Facebook e non fanno parte di nessuna organizzazione antirazzista. “Penso che sia molto importante essere qui oggi perché quello che è successo è stato l’apice, non è né il primo né l’unico caso di violenza e di razzismo. In questo caso abbiamo solo visto con i nostri occhi quello che succede molto spesso. Molte persone soffrono, stanno soffrendo anche ora per il colore della loro pelle. Negare il problema, significa non voler cambiare”, afferma Di Giovanni.

“Nessuno ha il diritto di fare violenza a un altro, per nessun motivo. Avere la pelle diversa, avere un orientamento sessuale diverso ancora oggi corrisponde a una condizione di inferiorità”, afferma un’altra studentessa di 19 anni, Reiki Ferri. Anche se Ferri è di origine straniera, ha la cittadinanza italiana e crede che una delle questioni su cui deve ancora essere fatta una battaglia è proprio quella della riforma della cittadinanza. “A molti ragazzi nati e cresciuti in Italia non sono riconosciuti i loro diritti”.

C’è una forte componente femminile nella protesta, che è stata convocata anche dal movimento femminista Non una di meno. “No justice, no peace (niente giustizia, niente pace)”, è scandito dai cori, che imitano gli slogan delle proteste negli Stati Uniti. Oppure: “White silence is violence” (Il silenzio dei bianchi è violenza). Alla fine della manifestazione viene diffuso un comunicato delle sardine, che sono tra gli organizzatori dell’evento. E la vicenda fa discutere, perché sui siti di informazione si comincia a definirla una manifestazione organizzata dal gruppo di attivisti nato per sostenere l’elezione di Stefano Bonaccini in Emilia Romagna.

L’informazione è parziale e non rende giustizia a un movimento che presenta degli elementi di novità. Tra l’altro all’epoca della manifestazione delle sardine a piazza San Giovanni un gruppo di neri aveva chiesto di salire sul palco per sostenere l’abolizione dei decreti sicurezza, si erano ribattezzati “sardine nere”. Ma erano stati allontanati dagli organizzatori che sul tema hanno sempre avuto posizioni ambigue. Una piazza nuova, quindi, quella che si è autoconvocata domenica, con tutte le sue incognite e le sue ingenuità legate soprattutto all’eterogeneità dei manifestanti, che però ha presentato voci mai ascoltate, con la forza politica di chi prende la parola, dopo aver taciuto a lungo.

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