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Il sesso dei parlamentari

Un commesso in aula, alla camera dei deputati, Roma, 6 luglio 2020. (Augusto Casasoli, A3/Contrasto)

Di cosa parliamo quando parliamo del referendum sul taglio dei parlamentari previsto per il 20 e 21 settembre? Del sesso degli angeli. Mentre il mondo affronta la più grave crisi economica e sociale dalla seconda guerra mondiale, mentre il prodotto interno lordo (Pil) italiano sprofonda e il pianeta ribolle – dal Libano alla Bielorussia, passando per Hong Kong e la Libia – la priorità del dibattito politico in Italia sembra essere il numero dei suoi parlamentari. Il paese – o almeno i suoi editorialisti e i suoi professori di diritto costituzionale – sembra pronto a scatenare una nuova battaglia intorno alla cosiddetta costituzione più bella del mondo.

I sostenitori del no vedono nell’eventuale riduzione di un terzo del numero dei parlamentari una messa in discussione degli equilibri istituzionali, della rappresentanza degli eletti, un’abdicazione di fronte al vento dell’antipolitica, insomma una minaccia alla democrazia. In base all’esperienza dei precedenti tentativi di mettere mano alla costituzione italiana, verrebbe da dire “ci risiamo”.

Certo che così com’è (cioè senza una riforma complessiva e senza essere accompagnata da una nuova legge elettorale), la proposta avanzata dal Movimento 5 stelle è sgangherata. E non c’è nessun dubbio che abbia un taglio dal sapore esclusivamente demagogico. E poi? Pensare che un’eventuale vittoria del sì rappresenterebbe una minaccia per il buon funzionamento della democrazia italiana significa semplicemente non aver visto e capito che nelle democrazie europee il potere legislativo non conta quasi più niente. Non perché vittima di un’ondata di personalizzazione della politica (come scrive Alessandro Calvi), ma perché le stesse democrazie europee hanno perso potere.

Riequilibrio
Dal 1989 il mondo è cambiato. Considerazione banale, forse spiacevole, ma ineludibile. La globalizzazione e le nuove tecnologie hanno sovvertito l’ordine mondiale. Basta leggere la notizia sulla Apple pubblicata pochi giorni fa: la capitalizzazione in borsa della multinazionale ha raggiunto e superato il record di duemila miliardi di dollari. Cioè l’equivalente del Pil italiano nel 2019. In altre parole, un’azienda privata pesa quanto l’economia italiana. Ma ancora, nel 1990 il Pil cinese rappresentava meno di un terzo del Pil italiano. Oggi pesa sette volte di più. Secondo uno studio recente del Fondo monetario internazionale, fra quattro anni l’Italia – quinta potenza economica mondiale nel 1992 – non sarà neanche tra le prime dieci. Germania e Francia, che erano terza e quarta, saranno settima e decima. Significa che nel 2024 né l’Italia né la Francia saranno formalmente nel G7.

A questo punto sarebbe legittimo chiedersi qual è il legame di questo discorso con la riforma costituzionale. È indiretto, ma fondamentale. Nel mondo il riequilibrio dei poteri – economici ma anche demografici, militari eccetera – ha radicalmente indebolito i paesi europei e i loro rappresentanti. Di fronte alla perdita degli strumenti del potere e dunque della capacità d’intervento pubblico (per esempio dal punto di vista fiscale), i cittadini che constatano il declassamento dei loro paesi hanno generalmente tre reazioni.

La prima è la ricerca indistinta di capri espiatori di un declino che in realtà è strutturale. Possono essere i migranti; i paesi o i territori vicini (pensiamo all’indipendenza catalana o all’autodeterminazione richiesta da Lombardia e Veneto); l’Unione europea ma anche – nel classico antiparlamentarismo – la “casta” politica considerata corrotta e causa dei mali del paese.

La seconda è cercare di ridare centralità alla politica concentrando il potere nelle mani di chi guida l’esecutivo, sperando che sia un “uomo della provvidenza” capace di ridare forza e grandezza al paese. È un’illusione, ma è così che si possono interpretare le grande fiammate popolari attorno a figure come Sarkozy, Renzi o Macron. Tutte hanno promesso di rottamare la vecchia politica, indicandola come responsabile del declino, ma tutte hanno perso velocemente consenso non avendo più, de facto, i mezzi e gli strumenti per rispondere realmente alle attese dei loro elettori. Come si fa, ad esempio, a finanziare le spese sociali quando non si può più tassare buona parte dei profitti del capitalismo internazionale?

Terza e ultima reazione: prendere coscienza del ridimensionamento storico delle ex potenze nazionali e ritrovare una capacità di azione pubblica attraverso la potenza europea. È quello a cui si sta faticosamente lavorando, ma in maniera ambigua, nascosta, riluttante e dunque insoddisfacente. Invece di discutere del sesso dei parlamentari sarebbe più che opportuno avanzare proposte e metodi per riformare le istituzioni dell’Unione europea, così da renderle più efficaci e democratiche (dove sono le idee delle opinion makers o degli universitari al riguardo?). Si perde tempo in un provincialismo fuori dalla storia, che non riguarda solo l’Italia: in Francia c’è un dibattito ricorrente su un’eventuale riforma costituzionale per far nascere la sesta Repubblica.

Infine, per capire quanto le questioni importanti siano davvero altre, basti pensare al fatto che il più importante e quasi esistenziale provvedimento per il futuro dei cittadini italiani in questo momento non è certo il referendum sul taglio del numero dei parlamentari, ma il recovery fund, il piano di rilancio dell’Unione europea deciso esclusivamente dal Consiglio europeo (l’organo degli esecutivi dei 27 paesi dell’Ue). Nei prossimi mesi il parlamento italiano (come quelli degli altri 26 paesi) sarà chiamato a ratificarlo, senza possibilità di modifica: sì o no. Veramente la posta in gioco è sapere se debbano essere 945 o solo 600 parlamentari a spingere sul bottone rosso o su quello verde?

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