24 agosto 2020 09:59

Si diceva che i bielorussi fossero ormai sfiancati dallo scoramento, piegati dalla repressione feroce delle ultime due settimane. E invece non lo sono affatto, come hanno dimostrato il 23 agosto a Minsk con una manifestazione oceanica a cui hanno partecipato più di 250mila persone in un paese con appena dieci milioni di abitanti. I bielorussi non si arrendono e continuano la loro battaglia pacifica per liberarsi del dittatore Aleksandr Lukašenko.

Le immagini che arrivano da Minsk sono impressionanti. Tutte le generazioni e gli strati sociali erano rappresentati all’interno della manifestazione organizzata nel centro della capitale, mentre gli altoparlanti della polizia ripetevano che l’assembramento non era autorizzato.

Ma il messaggio delle autorità non impressiona più nessuno, o comunque non più delle testimonianze di torture inflitte ad alcuni degli oltre seimila manifestanti arrestati. Se Lukašenko sperava di scoraggiare una popolazione poco abituata a scendere in piazza per ribellarsi a un dittatore, i fatti del 23 agosto l’hanno smentito clamorosamente.

Fase pericolosa
Il braccio di ferro prosegue, e a questo punto è chiaro che l’intimidazione non basterà a sconfiggere questo movimento nato dallo scandalo delle presidenziali truccate dello scorso 9 agosto.

Dato che Aleksandr Lukašenko non sembra disposto a farsi da parte – il 23 agosto si è fatto immortalare con un’arma in mano – nelle prossime settimane si aprirà una fase estremamente pericolosa che deciderà il futuro della rivolta ma anche quello del clima internazionale.

Finora i manifestanti hanno seguito tre princìpi essenziali: il primo è la non violenza (nonostante la repressione) per non dare a Lukašenko il pretesto per salvare il suo regime nel sangue.

Il terzo principio è forse il più delicato: evitare di conferire una dimensione geopolitica a questo movimento

Il secondo è l’ampia unità del movimento, che raggruppa tutti i settori del paese (compresi quelli tradizionalmente vicini al regime) sotto la semplice richiesta dell’allontanamento del dittatore.

Il terzo principio è forse il più delicato: evitare di conferire una dimensione geopolitica a questo movimento. La chiave della riuscita della rivolta è soprattutto nelle mani di un uomo, Vladimir Putin. Se il presidente russo riterrà che è in atto un tentativo da parte dell’occidente di cambiare gli equilibri geopolitici, per esempio avvicinando la Bielorussia alla Nato, si opporrà con tutti i mezzi, come già fatto nel 2014 in Ucraina. Le sanzioni internazionali, in quel caso, non hanno avuto alcun effetto.

In questo senso l’obiettivo, più che di “rassicurare” Putin, è quello di impedire che la crisi bielorussa si trasformi in una crisi internazionale, a spese dei manifestanti.

Una crisi internazionale è precisamente ciò che vorrebbe Lukašenko. Nonostante negli ultimi tempi fosse ai ferri corti con Putin, oggi il presidente parla di destabilizzazione da parte della Nato e cerca il sostegno decisivo del Cremlino.

La mobilitazione massiccia del 23 agosto dimostra che questa crisi è prima di tutto la crisi di un popolo che rivendica la sua libertà, e merita di ottenerla.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Correzione, 24 agosto 2020
Nella versione precedente di questo articolo era scritto “un paese con appena un milione di abitanti”, invece di dieci milioni.

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