Il nuovo disco degli Strokes non è perfetto, ma ha fascino
The Strokes, Bad decisions
“Cercavo di ricordarmi cosa stava succedendo nella scena rock prima degli Strokes, ma non ci riesco. Prima degli Strokes c’erano davvero altre band?”, si chiede il giornalista Simon Reynolds in una delle pagine di Meet me in the bathroom, un libro di Lizzy Goodman che racconta la scena di New York all’inizio degli anni duemila, quella dalla quale sono usciti fuori, tra gli altri, anche gli Lcd Soundsystem, gli Interpol e gli Yeah Yeah Yeahs.
Quello di Reynolds ovviamente è un paradosso, ma per tanti appassionati di rock in quegli anni Is this it, l’esordio della band di Julian Casablancas, è stato un disco importante, forse uno degli ultimi in grado di sdoganare un certo tipo di revival degli anni sessanta e settanta. Una cosa come Is this it non potrebbe mai uscire oggi, perlomeno non con quello spirito. Fu pubblicato poco prima dell’11 settembre e fu anche in parte censurato perché conteneva una canzone intitolata New York City cops, e per qualche mese monopolizzò l’attenzione di fan e stampa specializzata, come se fossimo di fronte a una rinascita del rock. A distanza di anni resta un disco splendido, e niente più. Niente rinascita, niente rivoluzione.
Oggi chi sono gli Strokes? Dei reduci, anche un po’ ammaccati. I ventenni probabilmente non sanno neanche chi sono e gli altri hanno quasi smesso di ascoltarli. Il carattere scostante di Julian Casablancas, un ex alcolizzato e figlio di John Casablancas, un riccone fondatore di una prestigiosa agenzia di moda, non ha aiutato la coesione del gruppo, diviso in questi anni da numerose liti e maltrattato dalla critica. E quindi che senso può avere oggi occuparsi di The new abnormal, il loro primo disco in sette anni, registrato in California insieme al guru Rick Rubin e con un quadro di Jean-Michel Basquiat in copertina?
Un senso c’è, anche al di là di Rubin e di Basquiat. The new abnormal è pieno di difetti, eppure ha il suo fascino, perché per la prima volta da qualche tempo (per me da First impressions of earth, 2005, anche se qualche guizzo anche nei dischi meno riusciti c’era stato) dà l’impressione che la band sia viva. I testi e le melodie uscite dalla penna di Casablancas e del resto della band sono malinconici come non mai (in Brooklyn bridge to chorus canta “Voglio dei nuovi amici, ma loro non vogliono me”) e alcuni passaggi rimandano in modo spudorato a vecchi brani del gruppo (l’iniziale The adults are talking ricorda molto da vicino i pezzi di Room on fire), ma suonano sinceri. E poi c’è una strana ossessione per le porte. In diversi brani si descrivono porte chiuse, porte aperte, porte sbattute. C’è lo spettro sempre presente del divorzio di Casablancas, c’è il rapporto complicato con i fan e la sensazione di non aver rispettato le alte aspettative che si erano create con Is this it.
La qualità dei pezzi e degli arrangiamenti non è sempre altissima: quando gli Strokes vogliono fare gli “sperimentali” a volte ne escono bene (la splendida ballata anni ottanta At the door), altre con le ossa rotte (il pop funk di Eternal summer è tremendo, il ritornello alla Brian Eno prima maniera di Why are sundays so depressing non si capisce dove voglia andare a parare). Anche questo se lo fanno perdonare con altrettanti guizzi inaspettati, come il brano finale Ode to the Mets, una strampalata ode a New York dove la batteria di Fabrizio Moretti entra in corsa quasi per caso e che sul finale ha un bel picco emotivo. E poi c’è finalmente un singolo come si deve: Bad decisions. È vero, è scopiazzata dai Modern English e da Billy Idol ma s’incolla in testa dal primo ascolto.
Gli Strokes sono tornati, finalmente. Un po’ cialtroni, un po’ sconclusionati, sempre troppo derivativi, mai del tutto a fuoco. Però scaldano il cuore.
Yves Tumor, Gospel for a new century
Lo statunitense Yves Tumor è parecchio imprevedibile. Il suo disco precedente, l’ottimo Safe in the hands of love, era elettronica sperimentale. Il nuovo album Heaven to a tortured mind invece è un caleidoscopio di nostalgia. Il primo brano, Gospel for a new century, comincia con un beat che sembra uscito da un pezzo rap anni novanta e prosegue come un pezzo pop funk che nel ritornello cita Light my fire dei Doors. Nel resto del disco spuntano fuori qua e là dei chitarroni che sembrano usciti fuori da un album glam di fine anni settanta, come in Kerosene!. È evidente come il riferimento vero e proprio di Tumor sia quello del trasformista per eccezione: David Bowie.
Nella seconda parte il disco si sfilaccia, e il suono così compresso alla lunga stanca un po’. Ma Heaven to a tortured mind è comunque una bella dimostrazione di vitalità artistica.
Frank Ocean, Dear april
Ogni tanto Frank Ocean fa capolino dal suo abituale isolamento comunicativo e mette online una canzone. Nei mesi scorsi ci aveva regalato una toccante cover di Moon river, ma anche Dhl e In my room. Nei giorni scorsi sono invece arrivati Dear april e Cayendo, due ballate rnb minimaliste che sembrano uscite da Blonde, il suo lavoro del 2016. In questi due pezzi, a parte qualche tappeto di tastiere e una chitarra, è quasi tutto affidato all’espressività della sua voce. E che voce.
Shabaka and the Ancestors, We will work (on redefining manhood)
L’instancabile Shabaka Hutchins, superstar del jazz del britannico e motore di gruppi come i Sons of Kemet e i The Comet Is Coming, è tornato sulle scene con il suo progetto Shabaka and the Ancestors, che lo vede al fianco di un collettivo di musicisti sudafricani guidati dal trombettista Mandla Mlangeni. I testi sono composti dal poeta Siyabonga Mthembu, che li declama nel corso dell’album.
We are sent here by history conferma che il gruppo sa pescare il meglio della cultura africana, fondendo il jazz con generi antichi come il griot, la tradizione della poesia orale del continente considerata all’origine di molti generi musicali moderni, a partire dal blues.
Come spesso capita con Hutchins, questi brani hanno anche un evidente contenuto politico, un tono militante e toccano temi come la crisi climatica, la mascolinità e il razzismo. We are sent here by history è un altro saggio della sua bravura.
Dua Lipa, Don’t start now
Non è proprio il mio genere, ma devo ammettere che il nuovo disco di Dua Lipa, Future nostalgia, è divertente ed è scritto e cantato con classe. Uno svago niente male in questi giorni di quarantena.
P.S. Le canzoni del weekend proseguono, ma ogni tanto saltano qualche giro perché nel frattempo sto scrivendo anche altre cose. È difficile capire come si evolverà il mercato discografico nelle prossime settimane (mesi), se avremo più musica nuova da ascoltare oppure se tante uscite verranno rimandate. Cercherò, un po’ come tutti, di navigare a vista. Nel frattempo, ecco la playlist aggiornata. Buon ascolto, state a casa.