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Ancora troppe ombre sul ruolo di Parigi nel genocidio ruandese

Una cerimonia per ricordare il genocidio del Ruanda a Lione, Francia, il 7 aprile 2017. (Robert Deyrail, Gamma-Rapho/Getty Images)

Un’ombra incombe sulle commemorazioni del venticinquesimo anniversario del genocidio dei tutsi in Ruanda, che ricorre questa settimana: è il ruolo della Francia prima, durante e dopo la tragedia ruandese, che si è conclusa con un numero di morti tra gli ottocentomila e il milione in poco più di tre mesi.

Un quarto di secolo dopo, la memoria di quegli eventi resta incompleta e alimenta un conflitto ovattato tra Ruanda e Francia e anche all’interno dell’establishment francese.

All’epoca dei fatti Emmanuel Macron andava ancora al liceo e forse potrebbe sfruttare il privilegio della giovane età per portare avanti, rispetto al Ruanda, lo stesso lavoro di ricostruzione che è stato compiuto (con ritardo ma anche con coraggio) sul ruolo della Francia di Vichy nella deportazione degli ebrei o sull’impiego della tortura in Algeria. Non si tratta di autoflagellarsi, come sostiene qualcuno, ma di guardare in faccia la storia, comprese le sue ombre.

Un’occasione persa
Dall’inizio del suo mandato, il presidente francese ha compiuto diversi gesti di riconciliazione nei confronti del Ruanda, ma oggi sembra esitare. Invitato dal presidente ruandese Paul Kagame a partecipare alle commemorazioni di Kigali – gesto significativo tenendo conto di cosa hanno attraversato i due paesi – Macron ha rinunciato, ufficialmente per mancanza di tempo. È un’occasione persa.

Il 5 aprile dovrebbe essere annunciata un’altra iniziativa che prevede la creazione di una commissione di storici incaricata di esaminare gli archivi e il ruolo della Francia durante il genocidio. Si tratta di una decisione lodevole, ma anche in questo caso il contesto crea polemiche e non contribuisce a fugare i dubbi sulle intenzioni dell’esecutivo.

Finora la richiesta di apertura degli archivi si è scontrata con un netto rifiuto. A opporsi è una potente lobby militare

Due dei principali storici che hanno lavorato sull’argomento, infatti, sono stati messi da parte, spingendo i ricercatori a presentare una petizione che ha già raccolto 300 firme. Stéphane Audoin-Rouzeau, direttore degli studi dell’Ehess (la scuola di alti studi di scienze sociali), ed Hélène Dumas, storica legata al Cnrs (il centro nazionale per la ricerca scientifica), sono stati considerati poco imparziali, mentre secondo i loro difensori rappresentavano una garanzia di indipendenza del gruppo di lavoro.

Un altro nodo, cruciale, riguarda gli archivi della presidenza di François Mitterrand e quelli della Dgse (i servizi segreti francesi) attualmente inaccessibili. La consultazione degli archivi potrebbe contribuire a risolvere il conflitto tra i sostenitori di due tesi contrapposte.

La prima accusa Mitterrand (e il governo di coabitazione dell’epoca) di aver quantomeno sbagliato valutazione se non addirittura di un atteggiamento complice. La seconda difende l’operato del presidente e ritiene che le accuse siano “violente e infamanti”, riprendendo le parole dell’allora segretario generale dell’Eliseo Hubert Védrine.

Finora la richiesta di apertura degli archivi si è scontrata con un netto rifiuto. A opporsi è una potente lobby militare. “Macron deve difendere i nostri soldati”, ha dichiarato l’anno scorso a Le Monde l’ammiraglio Jacques Lanxade, capo di stato maggiore dell’esercito francese all’epoca dei fatti (che tra l’altro nega di aver commesso errori).

Tuttavia, in questa vicenda, ci sono abbastanza zone d’ombra da rendere necessario un intervento chiarificatore, per lasciarsi alle spalle una volta per tutte l’epoca dei sospetti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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