04 aprile 2019 12:54

Le commemorazioni e le richieste di perdono che si susseguiranno in occasione del 25 ° anniversario del genocidio ruandese non cambieranno le cose: la responsabilità del Belgio ha molteplici forme e si è protratta per quasi un secolo.

Il Belgio ha ricevuto dalla Società delle nazioni il mandato su questa ex colonia tedesca nel 1923. Mentre il colonizzatore tedesco aveva rispettato la monarchia ruandese, attuando una sorta di governo indiretto in un paese le cui fratture erano regionali e di rado vedevano contrapposti gli hutu, i tutsi e gli twa, i belgi hanno fatto di tutto per trasformare e omogeneizzare strutture sociali fluide. Amministratori e missionari seguirono le indicazioni del cardinale Charles Lavigerie, che raccomandava di scommettere sui tutsi, ritenuti “più adatti al comando” e già agli occhi dei tedeschi una “razza superiore” originaria dell’Abissinia.

L’intreccio della nazione comincia così a disfarsi lentamente: nonostante la resistenza della monarchia, progressivamente privata del suo potere, i tutsi vengono designati come alleati del potere coloniale, i missionari si adoperano per convertirli tutti mentre gli hutu, considerati una massa meno evoluta, vengono esclusi dal potere, trattati da subalterni e costretti dai nuovi padroni a prestare servizio in corvée: costruire chiese, terrazzamenti contro l’erosione del terreno, strade eccetera.

I belgi, che avevano conservato la pratica del controllo indiretto, trasformano i tutsi in capireparto, esattori delle tasse e via di seguito. Così, mentre alcuni tutsi aderiscono all’ideologia coloniale che li definisce superiori, gli hutu covano dal canto loro una crescente animosità nei loro riguardi. Negli anni trenta i belgi introducono in Ruanda la carta di identità e da allora in poi il riferimento etnico è specificato su ogni libretto: hutu, tutsi o twa. Nel 1994 questi documenti saranno ancora in uso e per i tutsi sottoposti ai controlli di frontiera avranno le stesse conseguenze della stella gialla che marchiava gli ebrei: una condanna a morte.

I nuovi alleati
Negli anni cinquanta il colonizzatore cambia all’improvviso alleanze. I tutsi cominciano a chiedere l’indipendenza e a sognare la fine della tutela belga, così il potere coloniale inizia a interessarsi agli hutu, ritenuti più docili e, come successo anche in Belgio, fa coincidere la maggioranza etnica con quella politica: poiché sono i più numerosi, l’esercizio del potere spetta agli hutu. La “rivoluzione sociale” del 1959 viene fortemente incoraggiata dagli ambienti cattolici belgi che non si lasciano commuovere dalle violenze scoppiate contro i tutsi, 300mila dei quali vengono condannati all’esilio diventando “i più antichi profughi dell’Africa”. Grégoire Kabyibanda prima e Juvénal Habyarimana dopo, i due presidenti hutu del Ruanda, potranno contare sul sostegno dei belgi, tanto più che Habyarimana, ritenuto un moderato, al momento di prendere il potere pone fine ai massacri dei tutsi approvati invece dal suo predecessore.

Ancora nel 1990, quando i tutsi rifugiatisi in Uganda lanciano un’offensiva per rientrare nel paese con la forza, il Belgio prova a sostenere i suoi amici hutu con una mediazione diplomatica e invia delle truppe a supporto dell’esercito ruandese, ma i francesi aumentano senza battere ciglio il loro sostegno militare diventando gli interlocutori del governo al posto dei belgi, troppo freddini o forse troppo consapevoli dei rischi.

Per tutta la durata della guerra civile (1990-1993) i belgi raccomandano il negoziato con il Fronte patriottico ruandese (Fpr, le forze armate tutsi), ma non smetteranno mai di considerarli dei ribelli. Del resto, il Ruanda non accende gli animi della classe politica belga: i socialisti preferiscono interessarsi alle lotte di liberazione nell’Africa australe, i liberali si ritraggono da un paese così povero e solo i partiti cristiani si lasciano coinvolgere nella politica ruandese predicando ufficialmente la strada del negoziato ma esprimendo con tutta evidenza le loro simpatie per il “potere hutu”, considerato da sempre legittimo perché maggioritario.

Vantando questa lunga amicizia, il Belgio accetta alla fine del 1993 di inviare in Ruanda 450 caschi blu dotati dalle Nazioni Unite di un mandato debole, unicamente difensivo, e di equipaggiamenti obsoleti. In cambio i francesi accettano di lasciare controvoglia il paese, come previsto dagli accordi di pace firmati ad Arusha nell’agosto dello stesso anno.

Gli accordi non sono però graditi agli estremisti hutu, che criticano l’arrendevolezza di Habyarimana. Il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale, di ritorno proprio dalla città tanzaniana, viene abbattuto durante la fase di atterraggio a Kigali. A bordo ci sono il presidente ruandese e quello burundese Cyprien Ntaryamira. Alle 20.21 il pilota del Falcon presidenziale aveva annunciato alla torre di controllo l’inizio della fase di atterraggio. Il pilota aveva anche parlato brevemente con sua moglie, ma la conversazione viene interrotta da alcune esplosioni. Le luci della pista si spengono all’improvviso e, alle 20.23, due missili bucano la notte, a intervalli di pochi secondi. L’aereo si trasforma in una palla di fuoco e si schianta nei giardini della residenza presidenziale.

Contemporaneamente nelle strade di Kigali vengono innalzati i primi posti di blocco: i civili sono controllati e perquisiti, i tutsi vengono uccisi sul posto. Durante la notte soldati vanno nelle case dei principali politici dell’opposizione e li uccidono. All’alba del 7 aprile la premier Agathe Uwilingyimana, appartenente a un partito hutu d’opposizione, è circondata in casa dai soldati, braccata nella villa dei vicini. Ferita, stuprata, uccisa. Abbandonata. All’esterno, ai caschi blu belgi, responsabili della sua protezione, viene proibito di varcare il cancello del giardino. Dieci di loro vengono fatti prigionieri e portati in un campo militare. L’annuncio della loro uccisione eclisserà gli avvenimenti successivi davanti agli occhi dell’opinione pubblica belga.

L’attacco contro l’aereo presidenziale è considerato unanimemente come l’innesco del genocidio, il cerino che ha dato fuoco a polveri da lungo tempo preparate. In seguito molti libri, pubblicati per la maggior parte in Francia, miravano ad attribuire la responsabilità al Fronte patriottico ruandese. Venticinque anni dopo il sito Mediapart è entrato in possesso di una nota dei servizi segreti francesi del 22 settembre 1994. Il documento sottolinea che la responsabilità degli estremisti hutu nell’attacco “è l’ipotesi più probabile”.

Quando il 14 aprile il ministro Willy Claes decide – senza essersi consultato con New York – di ritirare il contingente di caschi blu belgi, che formavano lo scheletro delle truppe delle Nazioni Unite, a muoverlo è un senso di impotenza provocato dall’incomprensione della reale posta in gioco. Dirà in seguito non solo di non nutrire rimpianti per la sua decisione, ma che quella ritirata, che avrebbe condannato i tutsi del Ruanda a un massacro a porte chiuse, non aveva di fatto suscitato alcuna reazione nell’opinione pubblica belga.

Il 21 aprile, quando anche l’Onu decide di ritirare il grosso del suo contingente di caschi blu lasciando al generale canadese Roméo Dallaire solo una piccola unità di difesa, il Belgio si rallegra di questa decisione che gli eviterà di detenere il monopolio della vigliaccheria.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Da sapere

  • 1987. In Uganda i profughi ruandesi tutsi scappati dalle persecuzioni nel loro paese creano un esercito ribelle, il Fronte popolare ruandese (Fpr), per far cadere il governo di Kigali guidato dal presidente hutu Juvénal Habyarimana.
  • 1990. L’Fpr attacca e dà il via alla guerra in Ruanda. Nel paese avvengono nuovi massacri di tutsi e nascono le milizie di estremisti hutu interahamwe.
  • 1993. Ad Arusha, in Tanzania, il governo ruandese e l’Fpr firmano una serie di accordi di pace. Ma in Ruanda la radio Mille collines ha già cominciato a diffondere una pericolosa propaganda contro i tutsi.
  • Gennaio 1994. Le fazioni più estreme del governo hutu ruandese bloccano gli accordi di pace.
  • 6 aprile. L’aereo su cui viaggiano Habyarimana e il presidente burundese Cyprien Ntaryamira è abbattuto da un missile a Kigali.
  • 7 aprile. La radio Mille collines lancia l’appello a sterminare “gli scarafaggi tutsi”. A Kigali cominciano i massacri di tutsi e hutu moderati, che si ripetono in tutto il paese. Vengono assassinati la premier Agathe Uwilingiyimana e altri politici hutu moderati. Nei successivi cento giorni vengono uccise almeno 800mila persone, in gran parte tutsi, e 250mila donne vengono stuprate.
  • 23 giugno. Arrivano i soldati francesi dell’operazione Turquoise per proteggere i civili e assicurare la distribuzione degli aiuti.
  • 4 luglio. L’Fpr prende il controllo di Butare e Kigali.
  • 13 luglio. Comincia l’esodo di 1,4 milioni di hutu, in gran parte civili ma anche génocidaires (militari, politici e uomini d’affari istigatori dei massacri). Si fermano nell’est dell’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo (Rdc).
  • 17 luglio. L’Fpr dichiara la fine della guerra.
  • 19 luglio. Si forma un governo di unità nazionale. Tra i profughi ruandesi nell’est della Rdc si diffondono il colera e la dissenteria, che causano migliaia di morti.
  • 1996. Il nuovo esercito tutsi ruandese invade l’Rdc per dare la caccia ai génocidaires. Scoppia la prima guerra congolese. In Ruanda cominciano i primi processi per genocidio, ma il sistema giudiziario è allo stremo e il numero degli imputati è altissimo.
  • 1997. Ad Arusha, in Tanzania, cominciano i processi del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Tpir), fondato nel 1995 per perseguire i responsabili del genocidio. In dieci anni il Tpir prenderà in esame circa novanta casi.
  • 2001. In Ruanda vengono istituiti i tribunali gacaca, ispirati a forme di giustizia tradizionale, per far emergere la verità sui massacri e promuovere la riconciliazione nazionale. Alla loro chiusura, nel 2012, avranno giudicato quasi due milioni di persone.

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