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L’Iran risponde con la legge del taglione all’attacco degli Stati Uniti

Due donne celebrano per le strade di Teheran dopo la notizia dei missili lanciati contro le basi militari irachene che ospitano le forze statunitensi, 8 gennaio 2020. (Nazanin Tabatabaee, West Asia News Agency/Reuters/Contrasto)

Nel linguaggio moderno la legge del taglione diventa una “risposta proporzionata”. È questa la formula usata dal leader iraniano Ali Khamenei dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani, ucciso da un drone statunitense a Baghdad.

In questo conflitto prevedibile, previsto e annunciato, si va avanti con il concetto di “occhio per occhio, dente per dente”. Nessuno, infatti, dubitava che l’Iran avrebbe risposto in qualche modo all’omicidio del suo militare più famoso, che ha spinto milioni di persone a scendere in piazza.

Vilipeso fuori dal paese a causa della striscia di sangue che lo accompagnava, Soleimani si era anche creato un’aura di eroismo con il suo ruolo nella guerra tra Iran e Iraq degli anni ottanta e nelle azioni contro il gruppo Stato islamico degli ultimi anni. Diventato un oggetto di culto, la sua morte non poteva restare senza risposta.

La legge del taglione, paradossalmente, nasce proprio in questa regione. Nell’antica Babilonia, il codice di Hammurabi del 1730 a.C. (il cui originale si trova al Louvre mentre una copia è custodita in un museo di Teheran) introduceva la reciprocità nella punizione del crimine. Esattamente ciò che sta accadendo in questo momento.

Stati Uniti e Iran non hanno interesse a forzare una guerra, eppure se ne assumono il rischio

La risposta iraniana, dunque, era prevedibile. Politicamente ed emotivamente, il regime iraniano non poteva permettersi di non reagire a un atto provocatorio come l’eliminazione del suo principale comandante. Ne andava del suo prestigio e della sua autorità, sia all’interno dei confini sia negli stati “clienti” della regione.

L’unico dubbio riguardava la forma che avrebbe assunto la risposta, che secondo Khamenei avrebbe dovuto essere “proporzionata” e colpire obiettivi militari e non civili.

La sorpresa, in questo senso, è che la reazione sia arrivata rapidamente, appena cinque giorni dopo la morte del generale, con un attacco diretto, mentre si ipotizzava che Teheran avrebbe potuto colpire con ciberattacchi o attentati lontano dal Medio Oriente. L’Iran, in questo modo, si assume il rischio di un’escalation, come se continuasse a credere che Trump stia bluffando e non si spingerà mai fino alla guerra totale.

Il problema è che l’escalation rischia di proseguire, perché è nella psicologia delle due parti. Lo ripetiamo dall’inizio della crisi: Stati Uniti e Iran non vogliono necessariamente la guerra e non hanno interesse a forzarne una, eppure se ne assumono il rischio fin dall’inizio.

Vale per la strategia statunitense della “massima pressione” sull’Iran dopo l’uscita di Washington dall’accordo sul nucleare (che non ha piegato Teheran), ma anche per la strategia iraniana dell’escalation misurata, con attacchi contro le petroliere e ora contro una base statunitense in Iraq e il conseguente rischio di una rappresaglia degli Stati Uniti.

Ora è il turno di Donald Trump di non potersi permettere di non rispondere. Il presidente lo ha già annunciato su Twitter. È nella sua natura, ma è anche inevitabile nel contesto elettorale. Con la fatidica decisione di eliminare Soleimani, l’uomo che voleva salvare il suo paese dalle “guerre senza fine” si è messo nella posizione di scatenarne una nuova.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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