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Dieci anni dopo, la primavera araba non è finita 

Un memoriale per Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid, Tunisia, 17 dicembre 2013. (Amine Landoulsi, Anadolu Agency/Getty Images)

Era il 17 dicembre 2010, nella piccola città di Sidi Bouzid, nella Tunisia centrale, una località che non era certo abituata a fare la storia. Quel giorno Mohamed Bouazizi, giovane laureato senza un lavoro che sopravviveva facendo il venditore ambulante, si vide sequestrare la sua merce dalla polizia e decise di darsi fuoco. Per disperazione o in segno di protesta? Non lo sapremo mai.

L’atto estremo di Bouazizi sarebbe potuto restare un fatto isolato, un’azione individuale senza un futuro. Ma nell’epoca della grande ascesa dei social network, quel suicidio scatenò una forte ondata di proteste che coinvolse tutto il paese e nel giro di poche settimane rovesciò il regime di polizia del presidente Zine el Abidine Ben Ali, prima di avere la meglio, nei mesi successivi, su altri tre dittatori in Egitto, in Libia e nello Yemen.

Dieci anni dopo, il bilancio di quel movimento è più complesso di quanto sembrasse in passato. In pochi, nel mondo arabo, sentono di vivere in società migliori rispetto a prima, a cominciare dai siriani, dai libici e dagli yemeniti, che hanno visto i rispettivi paesi sprofondare in guerre orribili. Perfino la Tunisia, unica superstite di una democratizzazione che altrove non ha prodotto risultati, ha scoperto che il frutto della libertà è piuttosto amaro quando non è accompagnato da un progresso economico e sociale.

Speranze spazzate via
Dalla prospettiva dei giovani arabi che hanno attaccato cittadelle istituzionali che sembravano impenetrabili, da viale Bourguiba a Tunisi a piazza Tahrir al Cairo, il risultato delle proteste è stato un fallimento incontestabile. Le guerre, la spinta islamista seguita dal ritorno dei regimi autoritari e l’incapacità di far emergere una vera cittadinanza moderna o una ridistribuzione più equa delle ricchezze hanno spazzato via le loro speranze.

Un ritorno delle rivendicazioni popolari è inevitabile, anche se finora il bilancio è stato sconfortante

La repressione del regime del presidente Abdel Fattah al Sisi in Egitto, contro i Fratelli musulmani, ma anche contro qualsiasi contestazione della società civile, è oggi più feroce di quella di Mubarak. In Siria Bashar al Assad ha salvato il suo trono, ma al prezzo della distruzione totale del suo paese e di una guerra di cui la popolazione porterà i segni per generazioni.

Ma evidentemente questa non è “la fine della storia”, per riprendere una formula celebre. Quello che la primavera araba ha fatto nascere, o meglio ha rivelato, è una forte aspirazione alla dignità da parte di giovani che si sentono umiliati dalla storia e dai loro leader. Questa aspirazione non è scomparsa.

Un ritorno delle rivendicazioni popolari è inevitabile, anche se finora il bilancio è stato sconfortante. Lo dimostrano i movimenti emersi in altri paesi arabi che non erano stati coinvolti dalla protesta nel 2010 e nel 2011: l’hirak in Algeria, nato dall’opposizione al quinto mandato del presidente Bouteflika; la thawra (rivoluzione) in Libano contro l’incuria della classe politica che ha rovinato il paese dei cedri; o ancora il grande movimento che l’anno scorso ha rovesciato la dittatura in Sudan.

Il cambiamento generazionale, la circolazione delle idee e dei codici culturali e politici e il fallimento di avventure ideologiche estreme come il califfato del gruppo Stato islamico sono fattori di cambiamento incompiuto. Oggi il mondo arabo presenta i segnali di una reazione autoritaria e conservatrice, ma mostra anche la sua capacità di rimettersi in marcia con forme imprevedibili.

A distanza di dieci anni, l’ondata di shock creata dal sacrificio di Mohamed Bouazizi non si è ancora fermata.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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