16 dicembre 2020 14:54

Oggi nella culla della rivoluzione tunisina l’imprenditrice Khouloud Rhimi può partecipare alle discussioni politiche al bar insieme ai suoi amici. Eppure, proprio come all’epoca della rivolta del 2011, “a Sidi Bouzid non c’è lavoro”, dice con amarezza.

Questa città lontana dai centri di potere, che nel 2011 si riduceva a una rete di strade malridotte con negozi impolverati ed edifici pubblici in uno stato terribile, è diventata un simbolo della rivoluzione. Sidi Bouzid ha beneficiato di un’attenzione politica particolare. Oggi può vantare una grande piscina comunale, luoghi dedicati al tempo libero e bar con connessione wifi dove le ragazze e i ragazzi si riuniscono e possono criticare le autorità senza paura di ritorsioni.

La rivoluzione ha portato una libertà senza precedenti, ma non ha risposto alle altre rivendicazioni dei giovani scesi in piazza nel 2011 contro il regime di Zine el Abidine Ben Ali, ovvero lavoro e dignità. Nelle città dell’entroterra tunisino il tasso di disoccupazione è ancora il triplo rispetto al 18 per cento della media nazionale, e il fenomeno colpisce soprattutto i giovani istruiti.

Il 17 dicembre 2010 la disoccupazione, insieme agli abusi da parte della polizia, spinse il venditore ambulante Mohamed Bouazizi a suicidarsi dandosi fuoco nella piazza principale di Sidi Bouzid. Quel gesto scatenò la protesta dell’entroterra emarginato del paese, un movimento che poi conquistò la capitale Tunisi e si allargò al resto del mondo arabo dopo la caduta di Ben Ali, il 14 gennaio 2011.

Manca il lavoro
Da allora sono passati dieci anni, e la Tunisia è considerata l’unico paese ad aver seguito la via della democratizzazione. Ma molti abitanti di Sidi Bouzid hanno l’impressione che oggi la loro vita sia più difficile.

“Molte persone che conosco hanno provato a emigrare in Europa”, racconta Khouloud Rhimi, 25 anni. “Alcuni sono morti in mare. Altri si sono dati fuoco. Non c’è lavoro, a volte si fatica perfino a comprare da mangiare”.

Rhimi si è laureata in informatica nel 2015 e si è data da fare senza aspettare l’aiuto dello stato. Ma, in una regione in cui alcuni lavori sono pagati 150 dinari al mese (50 euro), ha impiegato quattro anni per mettere da parte una somma sufficiente ad aprire una sua attività, un piccolo ristorante. Quando ha avuto bisogno di un prestito per portare avanti il suo progetto, le banche gliel’hanno rifiutato.

La regione è ancora in attesa dei miglioramenti promessi un’infinità di volte, come dimostrano le zone industriali di Sidi Bouzid, quasi deserte. Secondo il governatore Anis Dhifallah, la capacità industriale è sfruttata solo al 3 per cento.

Le grandi attese sociali sono state deluse, ma la rivoluzione ha portato alcuni cambiamenti

Oltre alla reticenza delle banche, Rachid Fetini, un imprenditore tessile locale, denuncia la mancanza di una strategia governativa contro le disuguaglianze e il clientelismo. Fetini, che prima del 2011 impiegava cinquecento operai, osserva desolato le file di macchine da cucire spente nella sua fabbrica vuota. La pandemia di covid-19 ha messo in ginocchio l’economia tunisina e ha anche segnato la fine della sua attività.

“Dopo la rivoluzione tutti i miei clienti sono andati via da Sidi Bouzid”, racconta Fetini, che era stato favorevole al movimento di protesta. “Hanno avuto paura”, dice criticando i mezzi d’informazione che hanno descritto la regione come se fosse in sciopero continuo. “Non è assolutamente vero”.

Secondo lui, “è in corso una lotta fratricida tra i partiti politici. Di conseguenza anche i responsabili locali non possono prendere decisioni. Nessuno osa firmare un documento senza prima cercare un appoggio politico, per evitare qualsiasi problema”. Numerosi progetti si sono arenati “perché le lobby si oppongono allo sviluppo di una certa attività” per paura della concorrenza.

Più peso ai giovani
La situazione è illustrata bene dalla Somaproc. Situata all’uscita del centro abitato, in una posizione strategica, doveva favorire gli agricoltori e gli allevatori ospitando un mercato all’ingrosso per gli ortaggi e il bestiame, un mattatoio e un centro di ricerca. Oggi il terreno è ancora inutilizzato.

Il progetto, che avrebbe dovuto dare lavoro a 1.200 persone e migliorare la vita di 130mila residenti, ha ottenuto milioni di euro di aiuti dall’estero, oltre ad avere il sostegno del presidente Kaïs Saïed. Tutto per nulla.

Il direttore Lotfi Hamdi elenca une serie di ostacoli legali e amministrativi, descrivendo la complessa sovrapposizione di otto organismi governativi coinvolti nel progetto. Intanto una serie infinita di intermediari continua a farla da padrone.

Ha ancora senso mantenere la speranza? Le grandi attese sociali sono state deluse, ma la rivoluzione ha portato alcuni cambiamenti, dando un certo peso politico ai giovani. L’introduzione di una quota obbligatoria di candidati minori di 36 anni ha permesso a molti di entrare nei consigli municipali.

“Oggi possiamo impegnarci nei partiti politici, nella società e nei sindacati”, afferma Hayet Amami, responsabile regionale dell’associazione dei laureati disoccupati.

Feyda Khaskhoussi, titolare di un master in contabilità, ha lavorato come volontaria in un’associazione contro la violenza sulle donne e ha acquisito nuove competenze nella progettazione. “Ora ho qualcosa di nuovo da dare alle persone, non mi considero una disoccupata, anche se il mio lavoro non è remunerato”, dice.

Per Khouloud Rhimi non è così: “Nel mio caso”, afferma, “la rivoluzione non ha portato niente di buono”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato da Le Point.

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