×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

La vittoria dei ribelli del Tigrai in Etiopia è piena di incognite

Un poliziotto in un bar a Bahir Dar, Etiopia, 20 giugno 2021. (Eduardo Soteras, Afp)

Inviando l’esercito nella regione del Tigrai a novembre dell’anno scorso, il primo ministro etiope Abiy Ahmed aveva promesso un’operazione rapida per riportare nei ranghi i leader locali.

Otto mesi dopo, i ribelli del Tigrai hanno riconquistato il capoluogo Mekelle, da cui erano stati cacciati, e controllano una buona parte della regione. Le sconfitte dell’esercito federale e quella personale del primo ministro sono cocenti e hanno pesanti conseguenze locali, regionali e nazionali.

La posta in gioco è considerevole: l’Etiopia è uno dei paesi che contano nel continente africano, con più di cento milioni di abitanti. Principale potenza del corno d’Africa, l’Etiopia ha un ruolo chiave in ambito locale e globale. L’ex impero è regolarmente scosso da rivolte, conseguenza del suo mosaico di popolazioni.

La crisi del Tigrai fa parte di queste sfide multiformi. Il Fronte popolare per la liberazione del Tigrai (Tplf), capace di tenere testa al governo federale di Addis Abeba, oggi trionfa, ma dovrà prendere decisioni difficili.

La prima è immediata ed essenziale per la sopravvivenza della popolazione. La guerra ha provocato un disastro umanitario di grande portata, con parte dei sette milioni di abitanti del Tigrai costretti a rifugiarsi in Sudan o in altre aree del paese, e bisognosi di aiuti urgenti. Il problema è che gli aiuti sono bloccati e regna una totale mancanza di sicurezza: la settimana scorsa tre operatori di Medici senza frontiere sono stati uccisi brutalmente nel Tigrai.

Come organizzare gli aiuti in una regione tagliata fuori del mondo, dove le comunicazioni sono state interrotte, in uno stato di profonda insicurezza, nonostante il primo ministro abbia decretato un cessate il fuoco?

Al di là degli interessi strettamente legati al Tigrai, il rischio riguarda un’intera parte dell’Africa

L’altra decisione è politica. La direzione del Tplf esita all’idea di spingersi a ovest per aprire un corridoio verso il vicino Sudan che le assicurerebbe una finestra sull’esterno e dunque la possibilità di ricevere aiuti. Il problema è che in questo modo i ribelli entrerebbero in rotta di collisione con la milizia dell’etnia amhara che controlla la zona.

Quale può essere la soluzione politica per questa guerra? È la terza scelta che spetta ai leader del Tigrai: vogliono la secessione, come ha fatto quasi trent’anni fa l’Eritrea lasciando il girone etiope dopo una lunga guerra, o accetteranno di restare in un quadro federale rinegoziato? Una parte del Tplf spinge per l’indipendenza, a rischio di rilanciare la guerra con Addis Abeba e scatenare un nuovo sisma politico nell’ex impero.

La posta in gioco, infine, è anche regionale. L’Etiopia si è alleata con l’Eritrea, le cui truppe sono intervenute nel Tigrai e hanno compiuto diversi massacri. Ma questa alleanza s’inscrive in un conflitto più ampio che oppone l’Etiopia al Sudan e all’Egitto per le acque del Nilo, e che minaccia di degenerare in una guerra aperta.

Al di là degli interessi strettamente legati al Tigrai, il rischio riguarda un’intera parte dell’Africa, con le sue frontiere mal definite, il suo accesso alle risorse e le sue rivalità storiche. Sarebbe un ennesimo disastro per una delle regioni più povere del mondo, che non ha bisogno di una guerra inutile.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale ha una newsletter settimanale che racconta cosa succede in Africa. Ci si iscrive qui.

pubblicità