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La disfatta di Kabul mette in dubbio l’affidabilità di Washington

Aeroporto di Kabul, 31 agosto 2021. Combattenti taliban festeggiano la partenza degli ultimi soldati statunitensi. (Marcus Yam, Los Angeles Times/Getty Images)

L’ultimo soldato statunitense ha lasciato Kabul, mettendo fine alla più lunga guerra della storia degli Stati Uniti, che si conclude con una sconfitta. Le immagini in arrivo da due settimane dall’aeroporto di Kabul o quelle del ritorno in patria delle bare dei soldati uccisi nell’attentato compiuto dal gruppo Stato islamico (Is) hanno suscitato commenti lapidari sulla fine dell’impero americano. Ma come stanno davvero le cose?

La sconfitta in Afghanistan è un evento di grande portata, ma è altrettanto vero che la storia degli Stati Uniti ne è piena, a cominciare dalla caduta di Saigon del 1975, con cui in questi giorni viene avanzato spesso un parallelo. Va detto però che in Vietnam le perdite americane furono 27 volte superiori a quelle della guerra in Afghanistan. All’epoca il trauma fu enorme, ma non impedì agli Stati Uniti di restare una superpotenza.

Tra gli altri insuccessi strategici di Washington possiamo citare la caduta dello scià d’Iran nel 1979, con l’umiliante presa in ostaggio dei diplomatici statunitensi a Teheran e il raid mancato deciso dal presidente Carter. Nel 1993, in Somalia, un impegno degli Stati Uniti si trasformò rapidamente in un disastro, e Bill Clinton decise di ritirare le truppe. Fu un altro fallimento cocente davanti a combattenti molto meno agguerriti. Lo stesso vale per quanto sucesso in Iraq nel 2003, un conflitto disastroso che ha prodotto l’ascesa dell’Is.

Impegni ribaditi
La catastrofe afgana è davvero così significativa? In realtà ciò che conta non è né il fiasco militare (che come abbiamo visto ha diversi precedenti) né il caos dell’evacuazione di Kabul, che resterà comunque una macchia indelebile per il primo esercito del mondo. A contare più di ogni altra cosa sono le conseguenze politiche, che alimenteranno numerosi dibattiti.

Non bisogna fornirne un’interpretazione sbagliata, perché i danni potrebbero essere enormi. Innanzitutto bisogna chiarire che l’America di Joe Biden non è diventata isolazionista. Il presidente ha personalmente ribadito i suoi impegni nei confronti dei paesi legati agli Stati Uniti dai trattati, come quelli europei appartenenti alla Nato, la Corea del Sud o il Giappone.

Cosa farà Biden se Putin minaccerà l’Ucraina, come già accaduto la scorsa primavera?

La principale lezione che possiamo trarre dalla vicenda di Kabul è che Biden, nel solco di Barack Obama e Donald Trump, ha deciso che l’America non sarà più il gendarme del mondo. È una tendenza di fondo: la potenza degli anni novanta ha ridimensionato le sue ambizioni e ha ridefinito quelli che considera i suoi interessi strategici.

Questo significa che la credibilità degli Stati Uniti è intaccata? È la domanda cruciale che si pongono sia gli alleati sia gli avversari. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj si trova attualmente a Washington e spera di ottenere da Biden garanzie sulla posizione degli Stati Uniti in caso di conflitto con la Russia. Cosa farà Biden se Putin minaccerà l’Ucraina, come già accaduto la scorsa primavera? Anche l’Europa vorrebbe saperlo…

L’Afghanistan ha sollevato il problema dell’affidabilità delle garanzie degli Stati Uniti. Gli avversari di Washington esultano, a cominciare dai cinesi che fanno presente agli abitanti di Taiwan che non possono più contare sul sostegno americano. Ma davvero i vertici di Pechino pensano che gli Stati Uniti resterebbero passivi in caso di attacco cinese contro l’isola? Sarebbe una scommessa rischiosa.

Gli unici a poter fugare il dubbio seminato dal fallimento afgano sono naturalmente gli Stati Uniti, che rimangono la prima potenza mondiale. Ma il mondo ha tutte le ragioni per domandarsi quale uso sarà fatto in futuro di questa potenza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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